lunedì 22 dicembre 2014

Il mito di Mussolini: l’apogeo e il crollo

(articolo apparso su Prima Pagina del 21 dicembre 2014)

Il fascismo al potere consolidò una versione rinforzata del mito del duce, facendo leva su nuove componenti, ma anche su quegli elementi che erano stati definiti da un certo immaginario collettivo durante la militanza socialista di Mussolini (idolatrato quale simbolo e incarnazione dell’ideale rivoluzionario) e nel corso della successiva fase post-interventista (quando ad essere coinvolte erano state soprattutto alcune frange di intellettuali, che avevano riconosciuto nel figlio del fabbro di Predappio l’uomo nuovo capace di assumere il ruolo di rinnovatore nazionale contro il vecchio e parassitario sistema politico giolittiano).
Volendo riassumere le principali caratteristiche che connotarono il mito mussoliniano negli anni del regime, potrebbe essere sufficiente asserire che il duce, senz’altro fino al 1940, fu considerato essenzialmente un capo carismatico, un leader infallibile e un’intelligenza superiore. Gli italiani infatti furono così presi dal culto di Mussolini che spesso confondevano questo con il fascismo vero e proprio, tanto che le forme di malcontento che trapelavano durante il Ventennio erano spesso rivolte contro i gerarchi e gli apparati di regime, mai contro il duce. Come scrisse un informatore della PS da Firenze nel 1939, «il partito mussoliniano costituisce l’autentica maggioranza in Italia e si può ben dire che per quanto il Duce stesso persista a parlare di Fascismo, l’italiano continua a comprendere sotto questa denominazione soltanto ed esclusivamente “Mussolini”. Per la stragrande maggioranza, un Fascismo senza Mussolini è incomprensibile, mentre sarebbe magari comprensibile un Mussolini senza Fascismo».
Una componente decisiva nel determinare la popolarità del mito mussoliniano fu senza dubbio il successo (reale o presunto poco importa) che accompagnò la politica fascista fino all’entrata in guerra. «Avvenimenti come la Conciliazione – sottolinea al riguardo Emilio Gentile nel suo Fascismo. Storia e interpretazione –, l’illusione che il regime fascista avesse posto riparo a mali ben più gravi della dittatura, la convinzione ingenua che Mussolini sapesse dove andare e dove guidare il paese, un certo orgoglio patriottico che si infiammò soprattutto all’epoca della guerra d’Etiopia, l’immagine di un duce moderato e saggio, salvatore della pace all’epoca di Monaco, furono alcuni fattori che consentirono al mito mussoliniano di crescere». In altre parole, che fosse per i risultati concreti che conseguì, o per l’efficacia di una propaganda che andò sempre meglio strutturandosi nel corso degli anni, Mussolini pareva una sorta di novello re Mida capace di trasformare in oro tutto ciò che toccava. Il che giustificava, da parte di un intero popolo, la scelta (che in realtà per molti scelta non era…) di rinunciare a una porzione consistente della propria libertà, in cambio della garanzia di avere un uomo pressoché infallibile al governo.
Specialmente nel corso degli anni Trenta, Mussolini divenne oggetto di un vero e proprio culto religioso. Le giovani generazioni, in particolare, lo idolatravano, plagiate da una propaganda che riuscì nell’impresa di elevare il duce su un piedistallo di fiducia incondizionata. Paradossalmente, persino le critiche rivolte di volta in volta al regime risparmiavano Mussolini, giacché egli per sua stessa natura era incarnazione di un ideale di giustizia capace di prevalere finanche sui mali inflitti dal fascismo. Il duce, in definitiva, era il supremo protettore degli interessi del popolo, di un popolo che, come si evince dalle parole scritte nel 1934 da un giovane fascista, era disposto a divinizzarlo: «Tu sei il nostro padre, Tu ci insegni a vivere, Tu sei la stella che illumina il nostro cammino. Tu ci insegni a lavorare, a combattere, a morire con orgoglio e soddisfazione; finché tu vivrai non avremo paura di nessuno. Tutti dovranno piegarsi alla Tua volontà. Tu non hai mai sbagliato. Tu hai sempre ragione».
Ma il mito di Mussolini non fu solo questo. Se infatti per la gente comune il duce era come un grande padre della patria, per i fascisti egli era prima di tutto il capo di un movimento politico, il fondatore di un partito, di un regime e di un’idea. A differenza di quella popolare, questa versione del mito tardò ad affermarsi: per molti fascisti della prima ora, infatti, almeno fino al 1921 il vero duce fu D’Annunzio, l’eroico poeta armato cui si doveva in gran parte la scelta interventista del 1915. Mussolini era sì rispettato e stimato, ma la sua leadership non venne immediatamente (e universalmente) riconosciuta, soprattutto dagli esponenti più in vista dello squadrismo. In concreto, furono proprio le spaccature e le divisioni interne al movimento fascista a favorire l’ascesa di Mussolini e del suo mito, il quale veniva esaltato quale unico punto di riferimento capace di mettere tutti d’accordo. «Nello scontro delle correnti – rileva Gentile –, tutti finivano per fare appello a Mussolini [...]. Il mito del ‘duce’ si affermò come risultante dello scontro. Anche negli anni del regime, il mussolinismo poté giovarsi delle rivalità politiche o personali fra i gerarchi: il ‘duce’ aveva il ruolo supremo del mediatore e del giudice, era l’unica fonte dell’autorità».
Solo dopo avere superato le iniziali contestazioni il mito del duce si affermò e si impose universalmente. Il principale fondatore del culto fu Augusto Turati (segretario del PNF dal 1926 al 1930), il quale per primo pianificò la progressiva divinizzazione di Mussolini, inteso quale «solo pilota cui nessuna ciurma può sostituirsi». Passo dopo passo, emerse quella che potrebbe definirsi la “necessità” del duce, imprescindibile simbolo di coesione di un movimento altrimenti frammentato e insostituibile garante dei supremi interessi della nazione. In altre parole, Mussolini divenne in tutto e per tutto il capo, e il suo mito si connotò sempre più come indispensabile strumento pedagogico per alimentare la fede nella religione fascista. Concetto, quest’ultimo, che è bene espresso da queste parole estratte dal Breviario dell’Avanguardista del 1928: «Tu non sei, Avanguardista, se non perché prima di te, con te e dopo di te, Egli e soltanto Egli è».
Emilio Gentile sottolinea che negli anni del consenso al regime il mito del duce si dilatò a tal punto che «il numero degli attributi conferiti a Mussolini fu probabilmente superiore a quello degli attributi conferiti ad altri ‘grandi uomini’ in ogni epoca: egli era la somma e la sintesi d’ogni tipo di ‘grandezza’ [...]; egli era anche nella schiera dei profeti, novello Cristo, “delegato di Dio”, punto di congiunzione fra il divino e l’umano». Anche tra i gerarchi, abbandonate le incomprensioni del primo fascismo, il culto di Mussolini divenne un’autentica ossessione, a prescindere dall’opportunismo che inevitabilmente fu alla base di molte manifestazioni di piaggeria. In molti scritti privati, non destinati quindi direttamente al duce o al pubblico, Mussolini appare a tutti gli effetti una personalità straordinaria, un uomo dal carisma irresistibile, addirittura – come scrisse Giovanni Giuriati, che fu segretario del PNF nel biennio 1930-31 – «il ‘Veltro’ vaticinato da Dante».
Anche quando la guerra minò le basi del suo mito e della sua credibilità, Mussolini continuò ad ossessionare molti italiani che in lui avevano riconosciuto una ragione di vita. Scrisse per esempio Giuseppe Bottai nel 1941: «Qualche cosa, che più di vent’anni mi batteva nel cuore s’arresta di colpo: un Amore, una fedeltà, una dedizione. Ora, sono solo, senza il mio Capo [...]. Un Capo è tutto nella vita d’un uomo: origine e fine, causa e scopo, punto di partenza e traguardo; se cade, dentro si fa una solitudine atroce». Parole, queste del ministro dell’Educazione nazionale, che testimoniano della profonda crisi di un uomo che, nelle drammatiche difficoltà di un conflitto che stava sbriciolando ogni certezza, vedeva crollare molto più di un mito, ovvero il senso stesso di un’intera esistenza.
Lo stesso Mussolini, giunto all’acme della propria parabola politica, divenne prigioniero del suo stesso mito. «Egli – nota Gentile – si immedesimò con il proprio mito, facendo di sé un’astrazione, e anche fisicamente si atteggiò a immagine di una figura sovrumana nella banalità del presente, dove individui e popoli potevano solo ammirare la sua ‘grandezza’ ma non potevano percepire la dimensione della sua impenetrabile natura». Il risultato di questa iperplasia del culto di sé fu l’attribuzione ai soli italiani (indegni e mediocri) della responsabilità di avere portato il paese alla sconfitta militare: «È la materia che mi manca. Anche Michelangelo aveva bisogno del marmo per fare le sue statue. Se avesse avuto soltanto dell’argilla, sarebbe stato soltanto un ceramista».
Mussolini, in altre parole, si credeva investito della missione di guidare il popolo italiano, ma era animato da un profondo disprezzo verso gli uomini a sua disposizione, del tutto inadeguati – così credeva – rispetto alla grandezza della sua persona. La frustrazione che lo assillò negli ultimi anni, la convinzione, cioè, che agli italiani mancassero le qualità eroiche necessarie a vincere un epocale scontro di civiltà, fu per il duce stesso le vera sentenza di morte del suo mito. Venuto meno il successo (ingrediente fondamentale di ogni costruzione propagandistica), Mussolini tornò ad essere semplicemente un uomo.

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Francesco III d’Este: il duca riformatore che fece di Modena una moderna capitale europea

(articolo apparso su Prima Pagina del 20 dicembre 2014)

Figlio del duca Rinaldo, e quindi nipote del grande Francesco I, Francesco III d’Este nacque a Modena il 2 luglio 1698, in una corte cui l’austero genitore, in linea con il suo passato di cardinale, aveva voluto dare un’impronta di severo bigottismo. Marina Romanello (autrice della voce su Francesco III del Dizionario Biografico degli Italiani) lo descrive «ombroso, fisicamente sgraziato, votato a suscitare antipatia per i modi altezzosi che mascheravano in realtà una timidezza patologica»; e in effetti Francesco crebbe in un ambiente che percepiva ostile, quasi soffocante, per lo più a causa dei contrasti con il padre, che non nascondeva a nessuno la propria preferenza per il secondogenito Gianfederico.
A questa complicata situazione familiare e personale finì altresì per aggiungersi la burrascosa unione con Carlotta Aglae, quarta figlia di Filippo d’Orleans, voluta (non senza una certa dose di ingenuità) da Rinaldo per trovare nella Francia un prezioso alleato in grado di appoggiare le mire estensi su Parma e la Toscana. Il matrimonio, celebrato per procura nel palazzo delle Tuileries il 12 febbraio 1720, fu un totale fallimento, ma nondimeno portò alla nascita di una numerosa prole e, nel 1727, dell’erede nonché futuro duca Ercole III. Le intemperanze di Carlotta – che a Modena si sentiva soffocare, abituata com’era alla mondanità parigina – erano però così frequenti ed assurde da rendere pressoché impossibile una pacifica convivenza tra i coniugi, al punto che – scrive Luciano Chiappini – «se ne videro di tutti i colori: tentativi di intimidire ed umiliare il consorte o addirittura di trovare pretesti per un annullamento del vincolo matrimoniale causa un’ipotetica impotenza di lui; disegni di fuga dalla Corte; capricci di ogni sorta; imposizione di tutte le proprie pretese, cui corrispondevano altrettante vittorie della sua volontà contro la debolezza del marito».
Eppure, a dispetto di tutte queste premesse, il figlio di Rinaldo fu tutt’altro che inetto o incapace. Carlo Previdi, nel suo (fresco di stampa) Francesco III d’Este (Modena, 1698 - Varese, 1780). Successi, errori, glorie, scandali ed altre vicende nella vita di un sovrano, grande riformista europeo (Edizioni Il Fiorino, 2014), lo presenta infatti come un duca dal carattere problematico, ma scrupoloso – forte degli insegnamenti ricevuti dal precettore Lodovico Antonio Muratori – nell’amministrazione dei suoi domini. Di certo non irreprensibile quanto a condotta morale (era a tutti gli effetti un accanito donnaiolo), Francesco fu un abile e saggio riformatore, capace, tra l’altro, di dotare Modena di un moderno codice di leggi e di efficienti infrastrutture. 
La prima vera occasione per emanciparsi dall’opprimente tutela del padre (che pure, sperando di riconciliarsi con l’erede, su richiesta di quest’ultimo aveva acconsentito all’edificazione della maestosa villa di Rivalta, presso Reggio, assecondando le puntigliose direttive della nuora, decisa a replicare addirittura il modello di Versailles) si presentò per Francesco con la guerra di successione polacca. In quella circostanza, egli non seguì la corte nell’esilio di Bologna (dopo che Modena era stata occupata dai francesi), ma preferì recarsi con la moglie a Genova, da dove successivamente partì per una lunga serie di soggiorni in diverse capitali europee. Giunto a Vienna, si arruolò sotto le bandiere imperiali, combattendo con onore contro i turchi in Ungheria e guadagnandosi la nomina a generale d’artiglieria. Dopo il congedo e mentre faceva ritorno in Italia, Francesco fu raggiunto dalla notizia della morte del duca Rinaldo (sopraggiunta nell’ottobre del 1737): affrettò pertanto la sua marcia verso Modena (dove entrò solennemente il 4 dicembre), mentre Carlotta, che aveva approfittato dell’assenza del marito per soggiornare nell’amata Parigi, ne seguì l’esempio solamente un anno e mezzo dopo.
Come precisa Luigi Amorth, il «Francesco divenuto sovrano è indubbiamente diverso dal Francesco che abbiamo conosciuto come principe», anche se mai venne meno in lui il gusto per il divertimento, l’amore del lusso (da poco alla guida del suo Stato, Francesco abbellì il giardino ducale – che fu aperto al pubblico – e provvide ad arredare sontuosamente gli appartamenti ducali e il palazzo di Sassuolo) e la passione per la vita mondana. I suoi primi passi come duca furono ad ogni modo incoraggianti. In particolare, molto vantaggioso per il ducato risultò il matrimonio (celebrato nel 1741) tra il figlio quattordicenne Ercole e Maria Teresa Cybo Malaspina, erede del ducato di Massa e Carrara, che in tal modo, con il suo prezioso sbocco sul Tirreno, entrò a far parte dei domini estensi. L’unione, per via dell’assoluta mancanza di affinità tra i coniugi, si sarebbe rivelata nel tempo un completo fallimento, ma costituì quantomeno un’abile mossa politica.
Le difficoltà, tuttavia, incombevano sul ducato estense per le annose e spinose questioni di politica estera. Morto Carlo VI d’Asburgo, nel 1740 scoppiò la guerra di successione austriaca, e Francesco – precisa Chiappini – «ritenne di prendere posizione a favore di quel belligerante che più gli accordasse protezione e compensi». Forte di un esercito i cui effettivi erano stati appositamente accresciuti fino alle 5.000 unità, il duca decise di schierarsi, in gran segreto, con la Spagna; ma il ritardo di questa nel giungere in suo soccorso, l’avanzata minacciosa degli austro-piemontesi e infine la sciagurata intercettazione di una lettera compromettente da parte degli imperiali lo costrinsero a venire a patti con il nemico, che pretese una formale dichiarazione di neutralità e la cessione in garanzia delle piazzeforti. Francesco non volle cedere, ma preferì rifugiarsi nella sua villa del Cataio, presso Padova, mentre gli austro-piemontesi occupavano Modena e Mirandola.
Dall’esilio il duca tentò di gestire diplomaticamente (e non senza una certa ambiguità) l’emergenza, ma fu messo alle strette e costretto a giocare a carte scoperte, proclamando la propria fedeltà al re di Spagna e dichiarandosi disposto ad accettare qualunque incarico, compreso quello di soldato semplice. Di fatto pubblicamente umiliato (si tenga peraltro conto che in quegli anni, precisamente nel 1745, il duca dovette anche far fronte ad una situazione finanziaria fattasi allarmante, risolvendosi a malincuore a vendere al re di Polonia ed elettore di Sassonia Federico Augusto III ben cento pregiati dipinti della sua prestigiosa Galleria), Francesco fu comunque nominato capitano generale dell’esercito in Lombardia (con l’intesa, però, che, dopo essersi congiunto con le armate dell’infante don Filippo, si sarebbe posto in sottordine rispetto a quest’ultimo), distinguendosi durante le fasi conclusive del conflitto e in particolare nel corso dell’assedio di Ventimiglia nel 1747.
Con la pace di Aquisgrana (1748) Francesco III rientrò in pieno possesso del proprio ducato, e subito diede prova di intraprendenza rinforzando l’esercito, proseguendo nella costruzione della strada per Massa (il cui progetto iniziale risaliva al decennio precedente) e pianificando la realizzazione, in quella stessa città, di un porto che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto permettere in futuro lo sbarco delle truppe francesi in funzione antiaustriaca. La vera spina nel fianco, tuttavia, era rappresentata come sempre dai rapporti internazionali, i quali, a causa della goffaggine mostrata dal duca estense in politica estera, si erano di fatto deteriorati un po’ con tutte le grandi potenze. Per trarsi d’impaccio, Francesco ricorse ancora una volta alla strategia degli accordi matrimoniali, offrendo in sposa la figlia del suo erede Ercole (la giovanissima Maria Beatrice) a Ferdinando d’Asburgo, figlio della potente imperatrice d’Austria Maria Teresa. Si trattò di una scelta pressoché obbligata, giacché Ercole, l’unico figlio maschio in vita, a sua volta non aveva eredi maschi, ed era in così cattivi rapporti con la moglie da non consentire al duca di fare affidamento su eventuali future nascite.
La richiesta fu accolta con favore (anche perché in questo modo l’Austria estendeva il proprio controllo sulla penisola): il che assicurò al ducato una, seppure sui generis, successione (Francesco, infatti, riuscì ad ottenere la ratifica di un accordo in base al quale alla morte di Ercole, ultimo della dinastia, il ducato sarebbe passato nelle mani di Ferdinando e dei suoi eredi, a patto che questi assumesse il cognome d’Este, accettasse di risiedere a Modena e garantisse di tenere lo Stato estense separato dall’Austria) e, in attesa che Ferdinando raggiungesse la maggiore età, valse a Francesco il comando delle truppe imperiali in Italia e la nomina a governatore generale della Lombardia.
Raggiunta Milano nel 1753, nondimeno Francesco non trascurò il governo del suo ducato, che anzi in questo periodo beneficiò dei frutti dell’acuto riformismo del sovrano estense. Al riguardo, iniziative quali l’erezione dell’ospedale di piazza Sant’Agostino e del Grande Albergo dei Poveri (attuale Palazzo dei Musei), l’allargamento della via Emilia, la realizzazione della via Giardini per collegare la capitale con la Toscana, la riforma dell’Università, la regolamentazione delle pratiche di sepoltura e la parallela costruzione del cimitero di San Cataldo, l’apertura al pubblico della prestigiosa Biblioteca Estense e soprattutto l’emanazione nel 1771 di un nuovo e più moderno codice di leggi (il celebre Codice Estense) testimoniano dell’impegno profuso per fare di Modena una capitale al passo con i tempi.
Anche dopo la cessione del governo della Lombardia a Ferdinando, Francesco si mantenne lontano dai suoi possedimenti ereditari, preferendo soggiornare a Milano o nell’elegante residenza di Varese (città di cui era signore dal 1765 per volontà di Maria Teresa). Trascorse gli ultimi anni conducendo una vita spensierata, dedita ai consueti piaceri (tra l’altro, rimasto vedovo nel 1761, si risposò due volte morganaticamente) e agli amati sollazzi. A Varese, morì il 27 aprile 1780.

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lunedì 15 dicembre 2014

Il mito di Mussolini: dalle origini all’avvento del fascismo

(articolo apparso su Prima Pagina del 14 dicembre 2014)

Il mito di Mussolini costituì una componente essenziale del fascismo, al punto che per molti italiani che vissero nel Ventennio esso rappresentava la vera e propria essenza del regime. Senza dubbio, Mussolini incarnò la figura esemplare del capo carismatico, del leader dominatore delle masse, del duce capace di guidare alla vittoria un intero popolo, e, innegabilmente, per queste sue caratteristiche fu sostenuto con ammirazione ed entusiasmo dai suoi seguaci. Ma come nacque e si consolidò questo mito?
Secondo alcune diffuse interpretazioni, il culto di Mussolini fu una spiacevole conseguenza dello scarso senso civico degli italiani (Piero Gobetti nel 1924 scrisse che il mussolinismo altro non era che un’ennesima prova dell’animo cortigiano degli abitanti della penisola) e/o il risultato di un’efficace e martellante azione propagandistica coordinata dal regime. Si tratta di considerazioni che contengono elementi di verità, ma che non sono sufficienti a spiegare in modo esauriente un fenomeno che, ben lungi dal costituire una peculiarità italiana, si connota inevitabilmente come l’esito di una consolidata tradizione politico-culturale. A partire infatti dalla metà del XIX secolo, si diffuse in tutta Europa il culto romantico del genio, e con esso la convinzione che la crescente partecipazione delle masse alla vita pubblica avrebbe creato i presupposti per l’ascesa di grandi uomini capaci di interpretare e manipolare a proprio vantaggio i sentimenti delle folle. Forte era, in particolare, il senso di smarrimento provocato da una modernità al contempo suadente e minacciosa, e, in assoluto, il timore che la civiltà occidentale potesse abbandonare valori e tradizioni secolari senza trovare, al loro posto, un’altrettanto valida ragione di vita. Specialmente per i ceti colti, la nascente società di massa rischiava pertanto di farsi portatrice di mediocrità a più livelli, a partire ovviamente da quello, assai delicato, della politica. In sostanza, come sottolinea Emilio Gentile (che al mito di Mussolini ha dedicato un lungo capitolo del suo Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza 2002), nell’Europa di inizio Novecento «molti giovani auspicavano, dall’avvento di uomini nuovi, la trasformazione della società per superare la mediocrità della società borghese, per combattere la banalità della democrazia liberale e preparare la nascita di un ordine nuovo».
La prima, fondamentale ragione del successo del mito di Mussolini risiede perciò nella diffusa convinzione che il duce rappresentasse un perfetto esempio di genio, incarnazione di un superuomo cui era non solo lecito, ma estremamente vantaggioso affidare il ruolo di guida della nazione. Ma in che modo si formò e come si evolse il mussolinismo?
 Innanzitutto è bene precisare che il mito di Mussolini ebbe varie espressioni, diverse tra loro ma tutte incentrate sul fascino carismatico del leader. La prima forma di culto della personalità del duce nacque in ambiente socialista, precisamente all’indomani del congresso nazionale del PSI di Reggio Emilia, tenutosi nel 1912. In quell’occasione Mussolini affascinò i delegati del partito con la sua oratoria aggressiva e scintillante, tanto da apparire, specie ai più giovani, come l’incarnazione dell’ideale rivoluzionario. Ma, ovviamente, il fascino si sarebbe presto esaurito se ad accompagnarlo non fosse giunto il successo: il che puntualmente avvenne con l’assunzione da parte del futuro duce della direzione dell’«Avanti!» (che con Mussolini aumentò sensibilmente la diffusione) e con il parallelo incremento del numero degli iscritti e delle sezioni.
La scelta dell’interventismo e la fondazione del «Popolo d’Italia» segnarono però il crollo del mussolinismo socialista. E fu un crollo totale, come rileva Gentile: «Il mito del rivoluzionario intransigente, apostolo dell’idea, milite integerrimo e capo fedele, fu sostituito da una sorta di contromito del politicamente opportunista, ambizioso per interesse, egocentrico, senza idee e ideali, corrotto dal desiderio di potere». Divenuto traditore della causa, Mussolini venne di fatto espulso dal pantheon dei miti socialisti, a riprova del fatto che «il prestigio di un mito dura solo se corrisponde e non entra in contrasto con le convinzioni e i valori propri del pubblico al quale si rivolge e che lo sostiene con la sua fiducia».
Mentre però veniva espulso dal PSI, Mussolini riuscì a impressionare alcuni intellettuali, specialmente quelli che facevano capo alla rivista «La Voce» e che propugnavano una riforma prima di tutto morale degli italiani, a loro dire corrotti da una democrazia liberale guidata da uomini fiacchi e inetti. Venne così a crearsi una seconda versione del mito, che richiamava alcuni attributi della prima (sincerità, fede, carattere) con l’aggiunta, però, di una componente fondamentale: l’idea che Mussolini costituisse il perfetto esempio di uomo nuovo. Egli era cioè – come scrisse Prezzolini – una figura capace di risaltare «in un mondo di mezze figure e di coscienze sfilacciate come elastici che han troppo servito»; era un rivoluzionario intransigente, disposto a pagare di persona (con l’espulsione dal partito socialista) pur di difendere i propri ideali; e, soprattutto, incarnava l’antigiolittismo, ovvero – nota Gentile – era «un simbolo di vitalità opposto a un simbolo di senescenza, un giovane di fede contro un vecchio scettico e cinico, un uomo “carico di avvenimenti” e che aveva in sé “tanta parte dei futuri destini d’Italia”, contro il vecchio burocrate assurto a simbolo di tutti i mali del passato che le nuove generazioni volevano eliminare».
Mussolini, in sostanza, divenne il campione di un’opposizione radicale al governo e al parlamentarismo, un mito in particolare per le giovani generazioni che sentivano il forte bisogno di attuare una riforma intellettuale e morale del popolo italiano. «In lui – scrisse Carlo Carrà nel novembre del 1914 – vi è il dramma di tutta la nostra generazione»: dramma da intendersi come crisi di valori, ma anche come volontà, frustrata, di nobilitare l’esistenza col sacrificio e con la dedizione a una causa. Mussolini, in altre parole, sembrò rappresentare l’archetipo del rinnovatore nazionale, e in tal senso il suo mito trasse giovamento dalla scelta interventista, dal momento che tutti gli antigiolittiani (i vociani, i sindacalisti rivoluzionari, i nazionalisti, i futuristi) erano per la guerra. Essi esultarono quando Mussolini abbandonò il PSI, e subito riconobbero in lui l’uomo nuovo, tanto che alcuni vociani entusiasti gli telegrafarono: «Partito socialista ti espelle. Italia ti accoglie».
Con tutta evidenza, in questa fase del suo sviluppo il mito di Mussolini intendeva esaltare prevalentemente le qualità morali del futuro duce, alle quali però si aggiungeva un elemento decisivo: la cultura. Si trattava, infatti, di un fattore di non poco conto, fondamentale motivo di raccordo tra il Mussolini socialista rivoluzionario e il Mussolini apprezzato dalle avanguardie e dagli intellettuali. Questi ultimi, in particolare, come ha sottolineato Gentile, «accreditarono il mito mussoliniano dell’uomo nuovo che non era solo un politico notevole ma anche un paladino delle lettere, delle arti e della filosofia, un temperamento che condensava in sé i tratti dell’uomo moderno e partecipava al ritmo della modernità».
A questo mito – decisamente elitario –, il fascismo dovette aggiungere alcuni importanti elementi in grado di renderlo accessibile alla gente comune, senza peraltro rinnegare le componenti ereditate dal socialismo e dall’interventismo. Nello specifico, il mito fascista fu essenzialmente il mito del capo, incarnazione di tutte le più elevate qualità morali, politiche e intellettuali, oltre che interprete e garante unico degli interessi supremi della nazione. Un mito che ebbe manifestazioni di massa inedite, differenti rispetto alle precedenti forme di esaltazione, e che venne diffuso in ogni angolo della penisola attraverso la cosiddetta «fabbrica del consenso», la macchina propagandistica del regime.
Il Mussolini fascista fu pertanto, in parte, un Mussolini del popolo, che appariva come l’uomo di umili origini che aveva portato la pace sociale e come un capo di governo finalmente giovane, energico, realista, dotato di uno stile moderno e di un’oratoria affascinante. Ma non fu, ovviamente, solo questo, nel senso che anche la borghesia e i ceti abbienti riconobbero in lui l’uomo della provvidenza, il salvatore che aveva sconfitto il bolscevismo e posto un freno all’anarchia. Di fatto, come scrisse Ferruccio Parri nel 1924, dopo la conquista del potere Mussolini fu posto su «un piedistallo di fiducia inconscia, di ammirazione ingenua e quasi fisica, di stupore estatico sul quale larga parte del popolo italiano contemplava il suo duce dinamico agitarsi e recitare».
(Continua)

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Ercole III d’Este: il duca burlone, morto in esilio, che amava il dialetto, il popolo e le donne

(articolo apparso su Prima Pagina del 7 dicembre 2014)

Ercole III, ultimo duca estense e predecessore di Francesco IV, che inaugurò la dinastia degli Austria-Este, è spesso ricordato essenzialmente per una curiosità: era un uomo bonario, allegro, per certi versi un po’ comico per via del pronunciato naso aquilino, e, soprattutto, amava mescolarsi con la gente comune ed esprimersi in dialetto. Ercole era cioè una di quelle persone che oggi non esiteremmo a definire simpatiche, forse addirittura accattivanti, anche se – come è stato scritto da Luciano Chiappini – la sua figura sembrava «impersonare, nel profilo fin troppo mite, modesto, bonaccione, il tramonto consapevole e rassegnato della dinastia».
Alla luce di queste considerazioni, c’è poco da stupirsi che al sovrano estense erede del grande Francesco III si sia interessato un appassionato cultore delle tradizioni e del dialetto di Modena quale Sandro Bellei, che nel suo ultimo libro Il duca Nasone (Edizioni Il Fiorino, 2014) ha tracciato un breve profilo dal quale emerge un Ercole III effettivamente burlone, dalla battuta sempre pronta, arguto nel saper prendere le avversità della vita con la giusta ironia. È un duca, quello di Bellei, che quasi compiaciuto ostenta la propria perfetta padronanza del dialetto, utilizzato per le più banali osservazioni («Devo farmi togliere un molare che ormai è marcio, ma éd Garuti, al dintésta ch’a-m tàia anch i cavî, a-n me fid piò»), ma persino per dare ordini ai sottoposti («Rebucci, urdnê subét che Umberto, al fiól dal marangòun, al pòrta in prèsia a Sasól ’na làttra ch’a-v darò fra pòch»). Un Ercole, in sostanza, “popolare”, alieno da ogni formalismo, insofferente nei confronti dell’etichetta di corte, di fatto il protagonista perfetto di una biografia “non autorizzata”, come precisa Bellei nel sottotitolo.
Ercole III divenne duca nel 1780, all’età di cinquantatre anni, di fatto dopo un’intera vita trascorsa ad interessarsi «sól al stanèli e ai divertimèint». Suo padre, Francesco III, gli aveva combinato il matrimonio con Maria Teresa Cybo Malaspina, erede del ducato di Massa e Carrara, che in tal modo era stato incamerato entro i domini estensi. Si trattava però di un’unione assolutamente infelice, un po’ per il carattere autoritario e bacchettone della consorte, un po’ per la sfacciataggine di Ercole, le cui attenzioni per le donne e soprattutto per l’amante “ufficiale” Chiara Marini (avvenente cantante lirica, da tutti conosciuta a Modena come “la Chiarina”) risultavano eccessive persino per l’elastica mentalità cortigiana dell’epoca. I rapporti tra i due erano così tesi che la duchessa aveva finito per abbandonare il marito, di fatto trasferendosi nella residenza ducale di Reggio; ed Ercole, quando Maria Teresa venne a mancare nel dicembre del 1790, subito si adoperò per legalizzare l’unione con la Marini attraverso un matrimonio morganatico.
Rispetto al padre, sovrano autorevole che nutriva ambiziosi progetti per lo Stato estense, Ercole era un duca più dimesso, quasi allergico alle costrizioni del cerimoniale e un tantino impacciato quando si trattava di affrontare con risolutezza le delicate questioni di politica estera. Forse il suo comportamento era espressione di un’inconscia ribellione al dispotico genitore, il quale – tra le altre cose, al fine di garantire una qualche forma di sopravvivenza della dinastia, considerato che Ercole non aveva eredi e, dati i burrascosi rapporti con la moglie, era più che ipotizzabile che non ne avrebbe avuti in futuro – lo aveva costretto contro la sua volontà ad acconsentire al matrimonio tra la figlia Maria Beatrice (che aveva solo tre anni quando venne promessa in sposa) e Ferdinando d’Asburgo-Lorena, figlio dell’imperatrice d’Austria Maria Teresa. O forse, per altro verso, il duca era semplicemente animato da una sorta di disincantato realismo, che – scrive Bellei – gli aveva fatto mettere «da pèrt tótti gli ambiziòun» e che doveva essere all’origine di decisioni quali quella di smantellare le costose difese della capitale, perché tanto – sosteneva – fortificata o no, «chi vól ocuper Mòdna a-n gh ha ménga da fèr tanta fadiga».
Ma Ercole, a dispetto della sua apparente faciloneria, non fu un sovrano del tutto inetto e sprovveduto. Influenzato dalle opere del Muratori, nei primi anni di governo si dotò di una Camera dei Conti (che doveva vigilare su entrate ed uscite dello Stato), fondò l’Accademia di Belle Arti, favorì l’acquisto di numerosi volumi destinati alla Biblioteca Estense (divenuta una delle più prestigiose della penisola), fece costruire strade e ponti sul Secchia e sul Panaro, istituì il catasto, si impegnò per far fronte all’imponente aumento demografico sollecitando il passaggio a colture intensive al fine di migliorare le rese, varò una riforma annonaria per liberalizzare il commercio del grano e, cosa alquanto gradita ai sudditi, riuscì in breve tempo a ridurre di un terzo la pressione fiscale (che sotto Francesco III aveva raggiunto livelli difficilmente sostenibili). Con tutta evidenza, siamo al cospetto di un tipico esempio di sovrano illuminato, pur con tutte le debolezze dell’uomo-Ercole III di cui si è detto. Al riguardo lo storico Pompeo Litta, genealogista dell’epoca, riferisce che l’ultimo duca di casa d’Este «governò mirando soprattutto all’economia. Fu molto economo nella sua vita privata e dalla sua corte fu bandito il lusso; il suo erario non era mai esausto, ma questo denaro non si toglieva tutto alla circolazione poiché lo somministrava con tenue compenso ai pubblici corpi».
Questi innegabili successi di politica interna non valsero però a contrastare efficacemente il contagio rivoluzionario diffusosi in Francia nel 1789 e destinato ad estendersi a macchia d’olio sotto l’urto delle baionette francesi. Ercole si illuse di poter arginare la minaccia giacobina legandosi strettamente all’imperatore d’Austria, cui senza esitare inviò cannoni, munizioni ed ingenti somme di denaro, concedendo persino che reclute del proprio esercito venissero arruolate in quello asburgico. Ma allorché il Bonaparte si fece minaccioso, avanzando nella penisola a suon di vittorie, il duca si vide costretto ad abbandonare Modena, nella quale lasciò un Consiglio di Reggenza. Partì la sera del 7 maggio 1796, diretto verso Venezia (dove fu in seguito raggiunto da imbarcazioni cariche d’oro e di oggetti preziosi) e ignaro che il suo esilio si sarebbe protratto fino alla morte.
Nella città lagunare Ercole poteva contare sulla protezione dell’ambasciata austriaca; ma ciò nondimeno fu raggiunto da un distaccamento francese e costretto a consegnare ben 200.000 zecchini d’oro (corrispondenti ad oltre sei quintali), che i transalpini erano certi egli avesse in buona parte sottratto alle casse pubbliche dello Stato estense (e non quindi prelevato dal solo suo patrimonio personale). In cambio, Ercole ottenne un lasciapassare per raggiungere Trieste; in seguito proseguì per Vienna, per poi stabilirsi, infine, nella più tranquilla Treviso, controllata dagli austriaci.
Nel frattempo da Modena, all’indomani della partenza del duca, la Reggenza aveva inviato un plenipotenziario a Napoleone per trattare l’armistizio (di fatto una resa). Le condizioni imposte dai francesi furono durissime: 7,5 milioni di franchi, derrate, munizioni, polvere da sparo e, dulcis in fundo, una ventina di quadri della prestigiosa galleria estense. Difficile soddisfare una tale richiesta, «anche perché – ha scritto Luigi Amorth – il Duca, che si era portato con sé tre milioni di lire modenesi tolti dai dodici del pubblico erario, faceva orecchie da mercante ad ogni richiesta d’aiuto», preferendo decretare prestiti forzosi.
La politica di Ercole era tuttavia destinata al fallimento. Il 28 maggio il Consiglio Generale di Reggio, dopo aver istituito una Guardia Civica, approvò la stesura di un promemoria che affermava i diritti di libertà della città rispetto al potere estense. Di lì alla vera e propria rivoluzione il passo era breve. Il 25 agosto, nella Piazza Maggiore fu piantato un albero della libertà, simbolo – riferisce una cronaca dell’epoca – «d’un’aperta ribbellione al Duca», nonché dell’assunzione dei poteri da parte del Senato di Reggio. Era l’atto di nascita della Repubblica Reggiana.
Anche a Modena, nel frattempo, questi fatti accesero la miccia rivoluzionaria. Il 29 agosto duecento soldati ducali dovettero usare la forza per rimuovere un albero della libertà eretto nell’attuale Piazza Grande. Per impedire che la situazione degenerasse, fu concessa tuttavia un’amnistia e pubblicato un editto nel quale il duca rassicurava che avrebbe saldato il debito con i francesi. Ma – spiega Amorth – «erano solo promesse: ché l’esule sovrano, sordo da quel tale orecchio, protestava che i Francesi avevano violato l’armistizio coll’assecondare la ribellione di Reggio».
Di tutt’altro avviso era ovviamente Napoleone, che non a sé, ma ad Ercole III imputava il mancato rispetto del trattato, dal momento che i tempi concessi per il pagamento del tributo non erano da quest’ultimo stati rispettati. Il 4 ottobre, pertanto, il Bonaparte denunciò l’armistizio, prendendo «sotto la protezione dell’Armata Francese li Popoli di Modena, e di Reggio» e dichiarando «nemico della Francia qualsivoglia attentasse alla proprietà, ed ai diritti di questi Popoli». Entrate rapidamente nella capitale estense, il 7 ottobre le truppe francesi innalzarono l’albero della libertà (un pioppo ornato di tricolori francesi e berretto frigio) di fronte alla Ghirlandina, ingiungendo inoltre «a tutti indistintamente» di indossare «la Coccarda tricolorata, [...] distintivo di quella Protezione che dall’Armata Francese è generosamente accordata a questi Popoli». Il giorno seguente fu soppressa la Reggenza estense, in sostituzione della quale si procedette alla nomina di un Comitato di Governo di sette cittadini, all’elezione di nuovi membri della Municipalità e all’istituzione di una Guardia Civica.
Le vicende che seguirono sono tutte legate all’epopea napoleonica. Per rivedere un Estense alla guida di Modena si dovette attendere il crollo del Bonaparte e l’avvento al potere, nel 1814, di Francesco IV, nipote di Ercole III. A quella data, dalle parti della Ghirlandina il duca “nasone” era ormai uno sbiadito ricordo: spentosi in esilio il 14 ottobre di undici anni prima, egli sembrava appartenere ad un tempo (quello antecedente la rivoluzione) lontano e definitivamente tramontato.  

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martedì 2 dicembre 2014

L’ascesa del razzismo nella crisi globale

(articolo apparso su Prima Pagina del 30 novembre 2014)

Introduzione di Luigi Malavasi Pignatti Morano

Lo scorso giovedì 13 novembre, presso il teatro dell’Istituto Sacro Cuore di Modena, il professor Pietro Basso (docente di Teorie Sociologiche all’Università Ca’ Foscari di Venezia) ha tenuto un’interessante conferenza dal titolo L’ascesa del razzismo nella crisi globale.
L’aspetto più interessante dell’intervento – che ha ovviamente posto l’accento sui rapporti di oppressione che sono alla base della pretesa “superiorità” dei bianchi rispetto ai neri – è stata la suddivisione del razzismo in tre forme fondamentali: istituzionale, dottrinale e popolare. Contrariamente a quanto comunemente si pensa – ha spiegato il professor Basso –, il razzismo non sale dagli ignoranti, ma scende dagli Stati e dalle necessità del mercato. Le forme più rozze di intolleranza popolare sono quindi essenzialmente la conseguenza e non – com’è più comodo credere – la causa di un certo tipo di politica, spesso avallata (e qui si entra nel razzismo dottrinale) da certe categorie di presunti intellettuali. Detto altrimenti, lo sfruttamento e la diffusione di stereotipi e pregiudizi sono le due facce di una sola medaglia e costituiscono l’arma di cui si serve la nostra società per perpetuare, potenzialmente all’infinito, i propri privilegi.
Il razzismo – acuitosi con tutta evidenza in questi ultimi anni di forte recessione economica – rappresenta pertanto la formula magica (Basso ha usato proprio questa specifica espressione) che consente di scaricare sugli elementi più deboli della società la responsabilità del disagio crescente in conseguenza della crisi. Poco importa, infatti, che gli immigrati costituiscano una risorsa imprescindibile per la nostra economia (tanto che se per assurdo dall’oggi al domani abbandonassero in massa la penisola – e si parla di circa 5 milioni di lavoratori –, l’Italia precipiterebbe nella graduatoria dei paesi più ricchi al mondo): ostacolare la loro integrazione – ha precisato provocatoriamente Basso – conviene ai cosiddetti poteri forti, che in questo modo ottengono il duplice effetto di mantenere alto il livello di sfruttamento di cospicue minoranze e di abbassare quello dei diritti di tutti.
Si tratta di una tesi indubbiamente “forte” – come si suol dire –, ma non priva di fascino, oltre che di una certa autorevolezza. È innegabile infatti che l’intolleranza vada di pari passo con l’ignoranza – verrebbe da dire indotta – che sembra permeare l’intera nostra società. Senza dubbio la conoscenza (anche banalmente quella geografica: chi può negare, a essere onesti, che talvolta si incontrano persone provenienti da aree del mondo che i più avrebbero difficoltà ad individuare su una cartina?) è un’arma potente contro gli stereotipi, proprio perché costringe ad andare oltre il pregiudizio. Ma la domanda a cui è difficile sottrarsi è: oggi come oggi, la conoscenza è sufficiente a consentire una convivenza pacifica e spontanea dei popoli? Perché un conto è il razzismo di chi difende con convinzione (o arroganza?) la propria superiorità culturale; altra cosa è il razzismo, potremmo dire istintivo o inconscio, di chi sarebbe anche propenso a mostrare disponibilità nell’accoglienza, ma è frenato dalla paura.
Ecco, forse dalle parole del professor Basso è possibile trarre la conclusione che è sempre bene diffidare di chi si serve di potenti mezzi di comunicazione per veicolare determinati messaggi. Ma occorre anche essere realisti: prima che, sull’autobus o in treno, un italiano decida di sedersi indifferentemente accanto a un bianco o a un nero, dovranno trascorrere ancora molti anni. Certo è, però, che tra qualche generazione – basta leggere numeri e statistiche – avremo milioni di concittadini che difficilmente si chiameranno Mario o Giovanni. Cosa pensano, di questo, i membri più giovani della nostra società? Prendiamo in considerazione le riflessioni di alcuni studenti dell’Istituto Sacro Cuore di Modena.


Pro di Francesca Adani, Maria Teresa Guidi e Beatrice Sitta

«Non esiste alcuna valida alternativa all’integrazione»

Per cogliere al meglio le problematiche attuali è necessario partire dalle radici. Il relatore ha chiarito che il problema non nasce dagli ignoranti bensì dagli stati e dalle necessità del mercato. Si apre così la grande parentesi del capitalismo da lui ampiamente argomentata e si crea un forte collegamento tra questo fenomeno e quello del razzismo, proponendolo come una matrice da cui nel corso della storia sono state coniate le problematiche di diversità sociale e culturale. Il professor Basso ha reso noto a tutti che l'intolleranza induce allo sfruttamento delle classi sociali più basse, con il conseguente arricchimento del ceto più alto a scapito dei ceti medi. Il dato su cui riflettere è che questa situazione migliora lo status sociale della classe più ricca e soprattutto l’andamento dell’economia.
Questo meccanismo porta gli immigrati ad essere indispensabili per la nostra attività economica, nonostante in molti non la pensino allo stesso modo.
Si potrebbe però ribattere alle molte accuse degli italiani mostrando loro che il settore primario non verrebbe scelto da molti lavoratori. I dati illustrano, infatti, che una percentuale di stranieri pari all’89,9% per gli uomini e al 10,1% per le donne svolge attività in questo ramo.
Un altro argomento molto rilevante è il fenomeno, poco presente, dell’integrazione in Italia. Come abbiamo potuto constatare assistendo a una conferenza riguardante i Sikh tenutasi lo scorso 6 novembre presso l’Istituto Sacro Cuore, queste etnie vivono nel nostro paese come negli antichi ghetti: parlano la loro lingua, mantengono la loro cultura e sono estraniate dalla nostra società.
La loro integrazione è ostacolata dallo stato e dai nostri pregiudizi: l’idea comune è che la maggior parte dei crimini siano commessi soprattutto dagli immigrati, anche se i dati che il professore ha fornito durante l’assemblea dimostrano il contrario. Occorre poi tenere presente che, per diverse etnie vittime dei luoghi comuni, la percentuale di detenuti è irrisoria e che il più delle volte è la criminalità organizzata italiana a gestire/sfruttare gli immigrati come forza lavoro a basso costo. Non c’è da stupirsi più di tanto, perciò, se chi lucra sulla prostituzione o sullo spaccio di stupefacenti si serve di non italiani – che fanno il lavoro sporco, rischiando tutti i giorni la galera – per intercettare clienti e consumatori (quelli sì molto spesso italiani).
In definitiva, non esiste alcuna valida alternativa all’integrazione (anche perché l’immigrazione non è certo un fenomeno che si possa arginare). Ed è evidente che se le istituzioni (sul modello americano) favorissero l’istruzione degli stranieri sulla base della nostra lingua e della nostra cultura, l’inserimento di questi ultimi all’interno della società risulterebbe più semplice e spontaneo.
In conclusione l’unica arma per combattere le intolleranze, le discriminazioni, i pregiudizi e il disagio sarebbe l’impegno comune dei cittadini, dello stato e anche degli immigrati stessi.


Contro di Matteo Talami, Isabell Albinelli, Maria Vittoria Abati e Aurora Vandelli

«Non crediamo alla favola dell’integrazione ad ogni costo»

La conferenza del professor Basso ha affrontato temi complessi con un linguaggio – forse un tantino accademico – non sempre del tutto accessibile per noi ragazzi che ancora non abbiamo alle spalle studi storici approfonditi. Risulta perciò complicato, dal nostro punto di vista, contestare le argomentazioni di un docente che a noi è sembrato interessato a stimolare più che altro il pubblico degli adulti, con buona pace degli studenti.
La sensazione diffusa, in sostanza, è che gli addetti ai lavori – non dimentichiamo che il professor Basso è direttore del Master “Immigrazione. Fenomeni migratori e trasformazioni sociali” – si perdano in troppi sofismi, e finiscano col trascurare i problemi concreti che attanagliano la popolazione. Perché va bene parlare di integrazione, di radici pluridecennali del fenomeno-immigrazione, del fatto che un secolo fa erano gli italiani ad abbandonare in massa il loro paese, della miseria quale principale motore che spinge interi popoli a salutare per sempre la terra d’origine; ma occorre anche dare risposte a quanti si sentono minacciati dalle cosiddette “orde” di clandestini.
A nostro parere, inoltre, l’integrazione va vissuta da ambo le parti. Non solo, cioè, gli italiani, ma anche gli immigrati devono adattarsi ad un mondo che cambia e che mette in contatto culture apparentemente inconciliabili. Quanto poi ai pregiudizi, essi derivano sì in parte dall’ignoranza, ma sono anche la conseguenza di un diffuso e crescente disagio. Non è possibile tacciare di razzismo una persona solo perché manifesta difficoltà a confrontarsi con un mondo che avverte sempre più come una minaccia. Anche perché è normale, nei periodi di crisi, chiudersi un po’ a riccio a difesa dei propri interessi.
C’è infine lo spinoso problema del lavoro. Gli immigrati costano meno e danno l’impressione di porre un freno all’occupazione. Certo non sono loro i responsabili di questa anomalia del nostro sistema, ma non bisogna commettere l’errore di criminalizzare quanti esternano un certo malcontento che, inevitabilmente, si riversa anche sugli stranieri per bene. È la politica, infatti, che dovrebbe dare risposte, garantendo agevolazioni a chi opera secondo le regole e facilitando l’integrazione di quanti sbarcano nel nostro paese con le migliori intenzioni. Solo in questo modo sarà possibile instaurare un regime di pacifica e costruttiva convivenza. Noi non crediamo alla favola dell’integrazione ad ogni costo: ma non per questo ci sentiamo razzisti.

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martedì 25 novembre 2014

«La Domenica dei fanciulli» e la propaganda di guerra per l’infanzia

(articolo apparso su Prima Pagina del 23 novembre 2014)

In occasione del centenario dello scoppio della Grande Guerra sono decine i volumi apparsi nelle librerie per celebrare degnamente questa importante ricorrenza storica e storiografica. Tra i tanti, si è scelto qui di seguito di prendere in considerazione un lavoro senz’altro non troppo noto, curato da Daniele Menozzi, Giovanna Procacci e Simonetta Soldani. Si tratta di una miscellanea di saggi uscita nel 2010 per Unicopli e intitolata Un paese in guerra. La mobilitazione civile in Italia (1914-1918): in tutto quindici contributi, tra i quali indubbiamente significativo è quello, a firma di Laura Guidi, di cui si occupa il presente articolo, ovvero «Maledetto chi parla di pace...». La Grande Guerra sulle pagine di una rivista per l’infanzia.
Il saggio analizza la propaganda di guerra rivolta ai ragazzi attraverso lo studio di una singola rivista, uscita dal 1900 al 1920, intitolata «La Domenica dei fanciulli». Il punto di partenza dell’indagine è bene illustrato dall’autrice: «Il nazionalismo del primo Novecento, destinato a culminare nel primo conflitto mondiale, generò una pedagogia volta a manipolare l’immaginario, i comportamenti, i giochi e l’intero processo di formazione di bambini e bambine allo scopo di farne le cellule precoci e malleabili di progetti nazionali di potenza ed espansione territoriale, sorretti da un pervasivo militarismo e dalla valorizzazione della guerra come condizione sana e normale intorno a cui far ruotare l’intera vita sociale».
Con l’entrata in guerra dell’Italia (ma anche, in un primo momento e in forme differenti, durante il conflitto coloniale in Libia), la vera priorità nell’educazione militaresca dei giovani divenne la costruzione propagandistica di un nemico che legittimasse e rendesse comprensibile la decisione di mandare migliaia di uomini al fronte. Non si trattava però di un nemico qualsiasi, bensì di un nemico assoluto, per sua stessa natura mostruoso e inconciliabile con la comunità – idealizzata – del popolo italiano. Solo veicolando questo genere di messaggi si poteva infatti sperare che i bambini “elaborassero” l’idea di un conflitto che metteva in serio pericolo (quando non stroncava) la vita dei loro padri spediti nelle trincee. In sostanza, se si imbracciava il fucile, era per respingere il “barbaro” che ancora occupava territori che – secondo giustizia – sarebbero spettati all’Italia.
In questo contesto, «La Domenica dei fanciulli» offre una preziosa testimonianza del drastico cambiamento che, in coincidenza con lo scoppio della guerra, interessò messaggi e immagini destinati all’educazione dei giovani. Il mondo protetto (tipicamente borghese) dell’infanzia, nel quale dovevano prevalere valori quali la fratellanza, il rispetto dei ruoli e soprattutto – si pensi anche a Cuore di De Amicis – la solidarietà (del ricco verso il povero, del sano verso l’invalido, e via dicendo), cedette il passo ad una realtà in cui venivano esaltati principalmente l’eroismo, il coraggio e il sacrificio, e dalla quale – come anticipato – emergeva minaccioso lo spettro del nemico. Un nemico – scrive Laura Guidi – presente in ogni pagina, in ogni racconto o poesia, tanto che è lecito affermare che «il mondo rappresentato dalla rivista è, dall’ingresso dell’Italia in guerra, dominato dalla sua presenza e dal dovere non solo di combatterlo, ma di odiarlo».
Al riguardo, è importante sottolineare che l’immagine dei paesi e dei combattenti stranieri subì una drastica trasformazione all’indomani dell’ingresso dell’Italia in guerra. Fino a tutto il 1914, infatti, prevalse una descrizione distaccata del conflitto, rispetto al quale tutte le nazioni – ad eccezione dell’«eroico» Belgio invaso – avevano interessi, più o meno nobili, da difendere. Poi, con l’entrata in guerra dell’Italia, quella che era stata considerata un spietata «lotta fratricida» improvvisamente divenne una sorta di crociata per il completamento del Risorgimento, con la conseguenza che le pagine della rivista si popolarono di bruti e assassini (tutti appartenenti, s’intende, agli Imperi centrali, espressione di una razza malvagia e sanguinaria). 
Accanto agli esempi negativi identificati con il nemico erano proposti modelli inarrivabili di eroismo infantile, i quali – è stato notato – spesso ottenevano l’effetto di colpevolizzare i bambini, facendoli sentire inadeguati e desiderosi di riscatto. Scrive al riguardo Laura Guidi: «Il bambino viene visto come il combattente di domani, la bambina come ausiliaria di soldati. Il sangue dei caduti vale a spronare entrambi al sacrificio patriottico. Agli esempi inimitabili di ragazzi-soldato si affiancano modelli di patriottismo più accessibili, come quello rappresentato dal piccolo Sandro, protagonista del racconto L’eroe: un bambino che rinuncia alla cartella nuova per aiutare i profughi, compiendo la sua personale battaglia sul fronte interno».
Col passare delle settimane a partire dal maggio del 1915, venne meno persino il rimpianto per la pace perduta: la guerra, in sostanza, era una realtà con la quale bisognava familiarizzare, tanto più che essa era senza dubbio alcuno “giusta”, poiché combattuta contro un nemico disumano (e disumanizzato). In nome del sacrosanto irredentismo (che si estendeva indiscriminatamente fino alla rivendicazione di un po’ tutte le terre adriatiche), ogni azione di guerra era percepita come legittima. Nessuna pietà, nessun tipo di rimorso potevano indurre a mostrare compassione per il soldato austro-tedesco ucciso. «Il nemico – sottolinea la Guidi – ormai è l’Altro assoluto, il non-uomo, la cui morte viene descritta in toni che escludono qualsiasi possibilità di quell’empatia e pietas che vengono profuse invece a piene mani verso gatti e cagnolini. Di più: morte e sofferenze del nemico sono fonte legittima e doverosa di esultanza».
Contro un siffatto avversario, nessuna pace che non coincidesse con una netta vittoria era da prendere in considerazione, come bene illustrava una poesia apparsa sulla rivista nel 1918: «Questa è l’ora solenne che il pravo / Cittadino disvela e l’ignaro / Che amor patrio nel petto non ha: / Sia da tutti segnato col dito, / Dagli onesti sfregiato e fuggito / Chi per vincer, sé tutto non dà. / Cara Patria, io son per te: / Viva l’Italia! Viva il Re! [...] / Maledetto chi parla di pace, / Se il fratello che geme o che giace / Vendicato da’ suoi non sarà».
Il nazionalismo, in sostanza, doveva penetrare nei sentimenti e persino nei gesti più insignificanti della vita di tutti i giorni. Per i bambini, ciò significava compiere il proprio dovere, ubbidire a insegnanti e genitori e mostrarsi disponibili con i compagni di scuola in difficoltà. Tra italiani doveva esserci solidarietà, a tutti i livelli, giacché si combatteva una guerra totale. Ma, ancora una volta, l’elemento chiave che consentiva di tenere unito l’intero popolo d’Italia era la minaccia rappresentata dall’austro-tedesco: «Il nemico – precisa Laura Guidi – è, nello stereotipo dominante, maschio e adulto: un uomo in armi, al quale tuttavia non viene riconosciuto il ruolo di soldato di una diversa patria. Non era soldato il combattente libico, assimilato piuttosto a un ribelle o a un delinquente; tanto meno lo sono l’austriaco o il tedesco, considerati barbari in lotta contro la civiltà. Le loro truppe non vengono chiamate ‘eserciti’, ma ‘orde’. La loro non è violenza disciplinata di un’armata, ma la crudeltà sanguinaria che nasce da istinti feroci e atavici».
Anche nell’aspetto fisico gli austro-tedeschi erano raffigurati come repellenti, al limite del mostruoso, dal momento che nei loro confronti si voleva suscitare un senso di orrore e ribrezzo. Perciò, nulla di male se soffrivano la fame o morivano di stenti: in quanto appartenenti ad una razza intrinsecamente malvagia – perché il nemico non aveva un volto definito: era semplicemente un’impersonale figura di barbaro –, coloro che si battevano per soffocare le legittime aspirazioni alla libertà dell’Italia non avevano diritto ad alcuna forma di rispetto e di umanità. In casi estremi, persino i bambini austriaci o tedeschi venivano considerati nemici indegni di pietà, anche se di gran lunga prevalente era la tendenza – nota la Guidi – ad «eludere l’intricata e contraddittoria relazione tra lo stereotipo della bontà e purezza infantile e quello di un popolo intrinsecamente e per sua natura abietto».
La Grande Guerra, in sostanza, costituì un evento drammatico ed emotivamente coinvolgente per milioni di bambini, per i quali fu appositamente inventato un linguaggio capace di colpire l’immaginazione e di penetrare nelle coscienze. Un linguaggio aggressivo, manicheo ed esaltante che molti di loro avrebbero ritrovato, oramai adolescenti o adulti, durante gli anni del fascismo.

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martedì 18 novembre 2014

«La Grande Guerra come fattore di divisione»: la riflessione di Giovanni Sabbatucci

(articolo apparso su Prima Pagina del 16 novembre 2014)

Si è soliti affermare che la Grande Guerra abbia favorito ed accelerato il processo di unificazione nazionale, mettendo in contatto uomini di diversa estrazione e provenienza geografica e offrendo/imponendo loro una causa comune per cui combattere. C’è innegabilmente una parte di verità in questa considerazione, ma – come precisa Giovanni Sabbatucci nel saggio da cui questo articolo trae il titolo, contenuto nel recente volume Partiti e culture politiche nell’Italia unita (Laterza 2014) – occorre prestare molta attenzione a non trascurare il cosiddetto rovescio della medaglia. Poiché, se è incontestabile che il primo conflitto mondiale fu una guerra di massa che coinvolse l’intero popolo italiano, è altrettanto vero che esso produsse profonde fratture, come provò dopo il 1918 la «difficoltà a elaborare e conservare una memoria condivisa di un evento considerato comunque fondante dell’identità nazionale».
Le prime grosse perplessità suscitate dalla guerra furono legate alla decisione del governo italiano di prendervi parte, contro il parere di una percentuale consistente dell’opinione pubblica. L’Italia, infatti, di per sé non era direttamente minacciata da altre potenze: come giustificare, pertanto, la scelta di giocare il tutto per tutto e di scendere in campo a fianco dell’Intesa, sconfessando un’alleanza, quella con gli Imperi centrali, istituita oltre trent’anni prima? Come far apparire necessaria l’entrata in guerra di fronte al popolo che si apprestava a combattere?
A queste domande il governo di fatto non rispose, azzardando la decisione di imbracciare il fucile nella convinzione che la lotta sarebbe stata breve, e avrebbe portato prestigio alle istituzioni. A sostenere la sua scelta fu il composito fronte interventista, i cui componenti si schieravano tanto a sinistra (si trattava delle forze che vedevano nel conflitto una contrapposizione tra democrazie e imperi autoritari) quanto a destra (con i nazionalisti, animati da un patriottismo decisamente aggressivo e mirante a fare entrare l’Italia nel novero delle grandi potenze europee). Comune a tutte le diverse formazioni che caldeggiavano l’entrata in guerra dell’Italia era però – sottolinea Sabbatucci – «l’orientamento in funzione della politica interna: rovesciamento del sistema giolittiano, lotta contro il parlamentarismo “corruttore” e contro un socialismo negatore della patria e sordo a qualsiasi richiamo ideale, tensione verso una nuova e mai ben definita coesione nazionale, peraltro implicitamente negata nel momento in cui [...] si escludevano dal corpo autentico della nazione tutti coloro che non condividessero la scelta interventista o si mostrassero soltanto tiepidi nei suoi confronti».
Il primo importante fattore di divisione sorto con la guerra va dunque collegato alla pretesa della minoranza interventista di escludere dalla parte “sana” della nazione tutti coloro che si dichiaravano contrari alla partecipazione dell’Italia al conflitto mondiale. In sostanza, un’elite autodefinitasi tale in virtù di una presunta superiorità morale si sforzò di delegittimare – bollandoli come vili, opportunistici e, appunto, antipatriottici – gli sforzi compiuti da quanti si dichiaravano favorevoli alla neutralità. Altro che coesione nazionale! In Italia, scrive Sabbatucci, la mobilitazione pro-intervento «è di una parte contro un’altra e nel fronte dei nemici interni della nazione si colloca, o viene collocata, l’intera rappresentanza delle classi lavoratrici, con l’eccezione di poche frange eretiche».
L’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 fu dunque difficilmente “nazionalizzabile”, essenzialmente a causa di una certa attitudine giacobina espressa dal fronte interventista. Le frange, minoritarie, che volevano la guerra si mostrarono fortemente intolleranti nei confronti di chi avversava il loro pensiero, il che avvenne nonostante le forze neutraliste fossero tutt’altro che intransigenti o disposte a ricorrere al sabotaggio dell’impresa bellica (subita e non voluta). Persino i socialisti furono tutto sommato collaborativi: il loro «né aderire né sabotare» non rappresentò infatti un grosso problema per il governo – il quale, però, non volle concedere alcuna tregua politica e non concepì alcun programma di allargamento delle basi di consenso all’esecutivo –, tanto più che sentimenti antiaustriaci erano piuttosto diffusi anche in seno al PSI.
In Italia, in sostanza, non si creò un fronte comune intenzionato ad affrontare l’esperienza bellica nel segno della coesione nazionale. Al contrario, la guerra inasprì le differenze, creando autentiche fratture in conseguenza delle delusioni provocate dai ripetuti fallimenti militari. Paradossalmente, più il conflitto si prolungava, più il fronte interventista e nazionalista dava segni di insofferenza nei confronti degli avversari politici, ritenuti colpevoli di ostacolare le operazioni al fronte attraverso un atteggiamento disfattista. A incarnare le tendenze più radicali erano i nazionalisti di sinistra (provenienti dalle file radicali, socialiste rivoluzionarie, repubblicane), colpiti – scrive Sabbatucci – da una sorta di «sindrome giacobina», che li induceva «a sognare comitati di salute pubblica e plotoni di esecuzione». Ai loro occhi, il paese si presentava diviso «tra fautori e sabotatori dello sforzo bellico, tra membri sani e figli spuri della nazione, fra patrioti e antipatrioti», con la conseguente formazione di un doppio fronte: quello dei campi di battaglia, dove regnavano coraggio, abnegazione e sacrificio; e quello delle retrovie, dove a farla da padrone erano la viltà, l’inganno e il sotterfugio.
Solo in seguito alla rotta di Caporetto il governo riuscì in parte a compattare il paese e a proporsi come guida di uno sforzo realmente patriottico e nazionale, anche se non va dimenticato che le spinte centripete favorite dall’emergenza bellica (la quale richiamava tutte le forze politiche a una maggiore responsabilità) furono controbilanciate dagli effetti della Rivoluzione d’ottobre, che rese insanabile la frattura tra un PSI ormai approdato stabilmente su posizioni rivoluzionarie e il fronte interventista. Ad ogni modo, dopo Caporetto si tentò – in particolare attraverso i cosiddetti Uffici P, responsabili della propaganda – di far leva su una retorica che fosse il più possibile inclusiva, soprattutto in considerazione del fatto che la guerra del Piave era molto diversa da quella dell’Isonzo, giacché – scrive Sabbatucci – aveva «caratteristiche che ben si prestavano a riscattare almeno in parte la reale durezza dell’esperienza bellica e a fornire il materiale per la costruzione di un epos nazionale in cui la maggioranza della popolazione potesse riconoscersi».
I risultati furono parziali. Da un lato, infatti, quella del Piave fu realmente vissuta come una guerra patriottica, capace di unire il popolo italiano in un comune, estremo sforzo per difendere il suolo della nazione; ma dall’altro, specialmente dopo la vittoria, l’atteggiamento sempre più intransigente dei socialisti massimalisti bloccò ogni possibilità di dialogo tra classe operaia e istituzioni. Per il PSI la guerra era stata combattuta senza un valido motivo, il che giustificava toni sempre più aggressivi della propaganda, plateali incitamenti alla violenza, programmi insurrezionali, nonché il disprezzo per tutti gli ex combattenti che non accettavano di riconoscersi come vittime del conflitto. Ma un simile atteggiamento – che costituì un errore di calcolo politico solo tardivamente riconosciuto – ebbe l’immediato effetto di favorire una ripresa dell’estremismo interventista e in seguito l’inevitabile conseguenza di isolare sempre più i socialisti, favorendo la successiva avanzata delle camicie nere di Mussolini. «Di certo – rileva al riguardo Sabbatucci –, l’oltranzismo nazionalista di futuristi, arditi e di altre schegge minoritarie del mondo combattentistico (fra le quali cercavano di farsi largo i primi Fasci di combattimento) avrebbe avuto spazi politici ridotti e scarsa visibilità se non gli fosse stata data l’opportunità di ergersi a difensore e vindice dei valori della guerra contro l’esplicita minaccia che veniva dalle espressioni ufficiali del movimento operaio».
Vari elementi, in definitiva, contribuirono a fare della Grande Guerra un evento destinato a dividere, piuttosto che a unire, gli italiani. Anche dopo la sua conclusione, fattori quali l’incapacità dei governi del primo dopoguerra di risolvere la delicata questione adriatica (alla base della nascita del mito della cosiddetta «vittoria mutilata»), il sostanziale successo della propaganda del fascismo (abile a presentarsi quale unico erede legittimo dell’«Italia di Vittorio Veneto») e, nell’ultimo cinquantennio, l’orientamento “revisionistico” della storiografia, mirante a gettare luce sulle vicende meno patriottiche e più “crude” legate alla guerra (diserzioni, ammutinamenti, processi militari) hanno fatto sì che il primo conflitto mondiale continuasse a costituire un tema di scontro. Solo di recente l’interesse prettamente storiografico ha preso il sopravvento sulle divisioni di natura ideologica, anche se – conclude Sabbatucci – «resta, sia pure attenuata, la difficoltà di inserire l’evento in una storia condivisa e pacificata, capace di includere e riassorbire realtà complesse e contraddittorie, di coniugare la celebrazione delle glorie nazionali con la denuncia degli orrori e con l’elaborazione dei lutti».

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martedì 11 novembre 2014

L’attacco alla Russia del 1941 e i controversi rapporti tra Hitler e Stalin

(articolo apparso su Prima Pagina del 9 novembre 2014)

L’opinione corrente relativa all’attacco nazista all’Unione Sovietica del 22 giugno 1941 è che i russi furono colti completamente di sorpresa, dal momento che la decisione di Hitler di far marciare le sue truppe verso est rappresentava una clamorosa sconfessione degli accordi stipulati appena due anni prima e passati alla storia come patto Molotov-Ribbentrop. Innegabilmente c’è del vero in tutto questo, ma – secondo l’opinione dello storico americano John Lukacs, espressa nel volume 22 giugno 1941. L’attacco alla Russia, Corbaccio 2008 – i termini della questione vanno resi meno ambigui: chi fu colto di sorpresa fu essenzialmente Stalin, che di proposito ignorò tutti i segnali – che pure furono portati alla sua conoscenza – che lasciavano chiaramente intendere che la Germania stesse preparandosi per una guerra contro l’URSS.
Ambasciatori ed influenti uomini di governo di Inghilterra e Stati Uniti, ma anche membri dell’intelligence e della polizia politica sovietica, fecero il possibile per convincere il dittatore georgiano che di Hitler non c’era da fidarsi, facendogli peraltro notare l’ammassarsi minaccioso delle truppe del Reich in territorio polacco. Fino all’ultimo, però, Stalin non dette loro credito: la Germania era un paese alleato, ribatteva, e non sarebbe certo venuta meno agli accordi stipulati. La sua fiducia in Hitler, in altre parole, era totale, al punto che ancora il 17 giugno (cinque giorni prima dell’invasione), quando il commissario della sicurezza di Stato Merkulov depositò sulla sua scrivania un rapporto in cui si diceva che l’attacco tedesco sarebbe stato sferrato «da un momento all’altro», Stalin reagì con stizza, mandando letteralmente «a farsi fottere» la fonte di Merkulov, la quale altro non era – con tutta evidenza, dal suo punto di vista – che un «disinformatore».
Secondo Lukacs, la miopia di Stalin ha dell’incredibile: «Solo qualche settimana prima di giugno, le commissioni di confine congiunte tedesco-sovietiche avevano ispezionato e segnato le linee esatte di demarcazione, in particolare dove la frontiera non coincideva con un fiume. Attraverso le piatte, verdi e malinconiche pianure polacche era impossibile nascondere o anche solo confondere ciò che stava accadendo dalla parte tedesca, cioè la concentrazione di masse enormi di uomini e di migliaia di macchine belliche. Inoltre, come avviene a ogni confine, per quanto sorvegliato, c’era sempre un piccolo rivolo di uomini e donne che, per i più diversi scopi, lo superavano di nascosto; e tra questi non pochi erano le spie e i sabotatori». Significativamente, nei primi mesi del 1941 le incursioni clandestine in territorio sovietico si moltiplicarono, per non parlare dei frequenti sconfinamenti aerei. Ma Stalin non volle sentire ragioni: fino alla fine, le sue direttive furono di «non aprire il fuoco».
Un simile comportamento è difficilmente spiegabile se non si tiene conto di una questione fondamentale: ovvero che tra le ragioni che determinarono la guerra tra Germania e URSS, l’ideologia ebbe un ruolo secondario. Contrariamente a quanto più volte è stato detto e scritto, Hitler non attaccò Stalin poiché riteneva inevitabile una prova di forza per annientare il bolscevismo, ma, al contrario, diede l’ordine di varcare la frontiera sovietica essenzialmente per motivi strategici, legati agli obiettivi di lunga durata che si era prefisso all’inizio della Seconda guerra mondiale. Per il dittatore del Reich, infatti, tutto era subordinato alla politica: egli si accordò con Stalin finché ritenne opportuno servirsi dell’appoggio dei sovietici (con i quali progettò di smembrare la Polonia e l’Europa nord-orientale, opportunamente divisa in due «sfere d’influenza»), salvo poi cambiare drasticamente rotta quando si persuase che annientare l’URSS fosse il solo modo per costringere l’Inghilterra alla resa.
Scrivendo a Mussolini per informarlo dell’invasione della Russia, Hitler fu piuttosto esplicito riguardo ai suoi obiettivi militari: «[Le speranze dell’Inghilterra] si basano unicamente sul presupposto: Russia e America. Non abbiamo alcuna possibilità di eliminare l’America. Ma è sicuramente in nostro potere eliminare la Russia». Il Fuhrer riteneva pertanto – e le sue argomentazioni paiono in effetti convincenti – che Churchill e Roosevelt si sarebbero trovati con le mani legate in caso di annientamento dell’URSS, giacché una Germania in armi padrona incontrastata del vecchio continente sarebbe stata pressoché inattaccabile dalle forze angloamericane. L’anticomunismo, in sostanza, non c’entrava nulla, o meglio: fu tirato in ballo per giustificare un gesto di per sé inspiegabile, ma va detto – sottolinea Lukacs – che tra le motivazioni che spinsero Hitler a dare il via all’operazione Barbarossa l’ideologia occupava un posto del tutto secondario.
Hitler giocò in sostanza una doppia partita a braccio di ferro. Una contro Francia e Gran Bretagna, interessate a trovare un’intesa antitedesca con l’URSS e altresì convinte che nazismo e bolscevismo non potessero in alcun modo sottoscrivere un accordo; l’altra con lo stesso Stalin, prima attratto nell’orbita germanica, poi pugnalato alle spalle. Il Fuhrer del resto era sicuro che l’Unione Sovietica non sarebbe mai scesa a patti con le potenze capitaliste occidentali, tanto più che i rapporti (anche commerciali) con la Russia erano buoni. Quanto a Stalin, va sottolineato che egli aveva un’alta considerazione del popolo tedesco (il nome stesso che adottò deriva dalla traslitterazione russa della parola stahl, in tedesco acciaio) e ammirava Hitler, di cui subiva il fascino e ammirava la risolutezza.
A parere di Lukacs non deve pertanto stupire la lentezza di riflessi del dittatore georgiano. Egli si sentiva forte del patto di non aggressione stipulato nel 1939 ed era propenso – per cultura ed educazione – a diffidare assai più delle democrazie occidentali che dell’autorevole Fuhrer della potente Germania nazista. Per questo aveva ignorato tutte le avvisaglie di guerra (e l’aspetto curioso della vicenda è che Hitler non fece poi granché per tenere segreti i preparativi dell’invasione), bollandole come subdoli tentativi di destabilizzare il governo sovietico; e per questo, anche dopo il 22 giugno, persistette nell’illusione che un accordo con i tedeschi fosse ancora possibile.
Chi seppe davvero intuire la potenziale portata dei tentennamenti di Stalin fu Churchill, il quale – precisa Lukacs – sapeva perfettamente che senza i russi gli Alleati non avrebbero mai potuto sconfiggere Hitler. Scrive infatti lo storico americano: «Il timore che Stalin potesse ancora concludere un patto con Hitler ossessionò Churchill fin quasi alla fine della guerra, e questo spiega molti degli infelici compromessi e delle concessioni che sempre gli accordò, e spiega anche l’esagerata formulazione di certe sue lodi a Stalin. (Non erano né basate sul calcolo, né completamente insincere, ma Churchill si decise a vedere in Stalin uno statista e un grande leader militare)».
Anche Hitler – il che è quantomeno singolare – condivideva queste opinioni: se infatti si decise ad attaccare Stalin e il suo impero, fu poiché ritenne che quella fosse l’unica mossa strategica praticabile per colpire al cuore il suo vero, mortale nemico: la Gran Bretagna. Il generale Franz Halder scrisse infatti sul suo diario che il 22 agosto 1941, in occasione di un colloquio, il Fuhrer precisò che il suo scopo era «eliminare definitivamente la Russia come alleata dell’Inghilterra sul continente e pertanto togliere all’Inghilterra qualsiasi speranza di un mutamento nella propria sorte». Concetto, quest’ultimo, ribadito ancora il successivo 28 ottobre in uno scambio di opinioni con l’ammiraglio Kurt Fricke: «La caduta di Mosca potrebbe addirittura costringere l’Inghilterra a firmare immediatamente la pace».
Ciò che Hitler sottovalutò fu, tuttavia, la capacità di resistenza degli inglesi e dei sovietici, che seppero incassare atroci sconfitte prima di lanciarsi, uniti in un’alleanza antinazista inizialmente non prevista dal Fuhrer, al decisivo contrattacco. Churchill e Stalin, di certo, non si amavano: ma Hitler, divenuto suprema minaccia per la stabilità europea e per la stessa sopravvivenza di URSS e Inghilterra come grandi potenze, riuscì con la sua aggressività ad avvicinarli, ancor prima del risolutivo intervento americano nel conflitto. Lo statista inglese, del resto, già alla vigilia del 22 giugno era stato piuttosto esplicito al riguardo: come riferì il suo segretario Jock Colville, egli affermò che se Hitler avesse invaso l’inferno, lui, almeno per una volta, avrebbe parlato bene del diavolo.  

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Il manuale di storia nelle scuole e il falso mito dello studio oggettivo del passato

(articolo apparso su Prima Pagina del 4 novembre 2014)

Per prima cosa, è necessario essere franchi: il manuale di storia non è un testo come un altro. Troppe aspettative, troppe polemiche – più o meno strumentali – lo pongono continuamente sotto i riflettori, al punto che è diventato quasi impossibile farne oggetto di una discussione che sia scevra di preconcetti influenzati dal mondo dell’attualità politica. Il punto, infatti, è che il manuale di storia, essendo nella stragrande maggioranza dei casi – ahimè – il solo libro riguardante il passato letto dall’italiano medio, non è percepito solo come uno strumento di lavoro, bensì, soprattutto, come un mezzo per un fine: quello dell’educazione dei giovani.
L’idea che sta alla base di questa visione è ovvia: i ragazzi studiano su un libro che ha il potere (quasi taumaturgico, verrebbe da dire) di influenzarli. Il modo in cui viene letto il passato, in altre parole, consente di programmare il futuro sulla base di un investimento educativo che deve essere il più accurato possibile. Nessuna tolleranza, dunque, per i manuali “faziosi”, giacché la storia deve essere raccontata in modo oggettivo ed imparziale. Ma un’aspettativa del genere ha senso? È realmente possibile eliminare la faziosità? E poi, soprattutto, cos’è la faziosità? Da cosa dipende?
Per rispondere, occorre sfatare un mito diffusissimo, e precisare che il manuale di storia oggettivamente perfetto non esiste. Il che ha senso solo a patto di fare chiarezza su un aspetto fondamentale: ovvero che la storia (intendendo con questo termine il fare storia, non certo, in assoluto, il passato, giacché non tutto ciò che è passato è storia) non è una lineare concatenazione di eventi certificabili, bensì una continua interpretazione degli stessi. Se si accetta questa premessa, risulta evidente che ogni libro di storia rispecchia necessariamente la soggettività del suo autore, essendo peraltro ovvio – va da sé – che se la storia fosse semplicemente un elenco di fatti e date non ci sarebbe più nemmeno bisogno degli storici.
Dunque la storia è interpretazione, a tutti i livelli. Anche quando si stabilisce cosa ricordare e cosa tralasciare, di fatto, si interpreta il passato, stabilendo che un dato avvenimento è degno di nota e merita di essere tramandato. Qualsiasi fatto, perciò, può entrare di diritto nella storia, a condizione che uno storico reputi utile (per le più diverse ragioni – e qui entra in gioco la soggettività) trasmetterlo ai suoi lettori. Ma questo – si dirà – cosa c’entra con la faziosità? C’entra poiché molti, specie nel mondo della politica, sono convinti che il manuale debba attenersi ai “fatti” (altro falso ma suadente mito) e risparmiare agli studenti (manco fossero creature indifese, incapaci di maturare convinzioni che non siano il prodotto di una “manipolazione”) le interpretazioni, veicolo di faziosità. Il che è un’assurdità, dal momento che il manuale non potrà mai essere quello che un libro di storia, per sua stessa natura, non è, ovvero un racconto compilato – per dirla con Edward Hallett Carr – mettendo insieme i fatti «come i pesci sul banco del pescivendolo».
La pretesa oggettività dei manuali (oltre ad avere un significativo precedente nel sussidiario unico per la scuola elementare introdotto nel 1930 dal regime fascista, sulla base – ha scritto Piergiovanni Genovesi – dell’«aspettativa che esso  dovesse essere un contenitore di verità assolute») non è altro, perciò, che un falso e pretestuoso problema. Il che non significa che tutti i manuali siano ben scritti e che ogni interpretazione del passato sia condivisibile. Esistono manuali e manuali, alcuni pregevoli, altri decisamente scadenti. Tuttavia, pensare che un manuale, per essere soddisfacente, debba avvicinarsi quanto più possibile a un elenco asettico di nozioni incontestabili è una stupidaggine, resa purtroppo credibile da una classe dirigente miope ed in gran parte pressoché completamente digiuna di studi storici.
Ad ogni modo, negli ultimi anni abbiamo assistito a diverse iniziative – tutte risoltesi, alla fine, in un nulla di fatto – volte a screditare i metodi di insegnamento della storia nelle scuole. Riassumendo, nel 2000 il Consiglio Regionale del Lazio delibera l’istituzione di una commissione di esperti per esprimere una valutazione sui manuali più diffusi nelle scuole; nel 2002 – a partire dalla considerazione che «nelle scuole di ogni ordine e grado l’insegnamento della storia [...] deve svolgersi attraverso l’utilizzo di testi di assoluto valore scientifico che tengano conto in modo obiettivo di tutte le correnti culturali e di pensiero, per un confronto democratico e liberale che assicuri un corretto apprendimento del passato» – viene presentata una proposta di legge per sollecitare il Governo affinché intervenga per risolvere l’annosa questione della faziosità dei manuali; nel 2011, infine, si giunge alla richiesta di istituire una Commissione parlamentare per affrontare il problema «dell’idea gramsciana» che costituirebbe il fondamento dell’insegnamento della storia nella scuola.
Sotto accusa è finita, in particolare, la cosiddetta egemonia culturale della sinistra, responsabile – a detta dei promotori delle iniziative sopra ricordate, tutti appartenenti a formazioni politiche di centro-destra – dell’indottrinamento ideologico di cui sarebbero vittime gli studenti italiani. Ma va detto che l’intero mondo accademico, compresi diversi storici non catalogabili come “di sinistra”, ha preso le distanze dalla polemica sui manuali, rivendicando, non senza un certo risentimento, l’autonomia della storiografia, la quale non può essere soggetta ai dettami di una Commissione parlamentare. Tra i vari pareri espressi dagli storici, forzatamente chiamati in causa, merita di essere citato quello di Franco Cardini: «I nostri amici politici, tranne rare eccezioni, non conoscono il mestiere dello storico e hanno una visione ingenua della storia. Pensano che sia una scienza pura. Ma non è così. Non lo è nemmeno per la fisica e la chimica. La scienza è dinamica per sua natura, si mette in discussione costantemente. La verità assoluta si trova in altre espressioni dello spirito umano, per esempio la teologia».
Il manuale, in sostanza, non può essere un Vangelo. Ed è altresì assurdo pretendere che esso – sul modello dei moderni talk-show – rispetti i parametri della par condicio, come se le interpretazioni potessero bilanciarsi per non arrecare troppo disturbo ad una determinata parte politica. Piuttosto occorre domandarsi cosa è lecito aspettarsi da un manuale di storia; e avere l’intelligenza di rispondere che esso rappresenta uno strumento (tra i tanti disponibili) e non un mezzo. Il che, si badi, non significa affatto che un manuale non possa essere criticato: tutto al mondo è perfettibile, e in questo senso l’insegnamento della storia non fa certo eccezione. Tuttavia, è necessario sgombrare il campo da equivoci: i difetti più ricorrenti riscontrabili nei manuali scolastici sono legati più che altro alla loro stringatezza. È l’estremo bisogno di sintesi – di cui sembra soffrire un po’ tutta la nostra società, che va sempre di fretta ed è assillata da una sorta di implicito diktat che le impone di non sottrarre troppo tempo alle attività cosiddette produttive – il primo responsabile della trascuratezza con cui diversi manuali affrontano molte delicate questioni riguardanti il nostro passato. Detto altrimenti, il vero problema è che si studia e si legge troppo poco, e il manuale, da utile strumento qual era e dovrebbe essere, viene investito della pesante responsabilità di essere diventato l’unico strumento a disposizione degli studenti.
La scuola dovrebbe favorire l’approfondimento, stimolare il ragionamento, moltiplicare – e non ridurre al minimo – le letture obbligatorie. Solo così facendo le lacune del manuale (in parte inevitabili, giacché esso – anche se non nelle misure attuali – deve necessariamente attenersi ad un minimo di sinteticità) possono essere colmate e risultare innocue. In sostanza, pretendere di risolvere i problemi legati all’insegnamento della storia nelle scuole con la sola revisione dei manuali non ha alcun senso, oltre ad essere un modo indiretto (ma proprio per questo fastidioso) per dichiarare la più assoluta sfiducia nelle capacità di analisi degli studenti.
Migliorare i manuali, pertanto, è possibile ma, al contempo, inutile se non si va oltre il mito della didattica da libro unico. Al riguardo, e in conclusione rispetto a quanto detto finora, è senza dubbio degna di nota la riflessione di un docente di Storia contemporanea, Piergiovanni Genovesi: «Il confronto tra posizioni e giudizi divergenti può e deve essere compiuto, ma ciò non elimina la responsabilità soggettiva di offrire un quadro interpretativo preciso, coerente, ed anche perfettibile: esso può infatti essere oggetto di rielaborazione, ma ciò deve avvenire su sollecitazioni interne al dibattito storiografico, non certo perché sgradito ad una qualsivoglia parte politica o per volontà di una Commissione di natura politica. Solo in questo modo lo studio della storia può difendere e sviluppare la propria valenza educativa, che s’incentra sulla sua capacità di essere una palestra per le capacità critiche dell’individuo».

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La storia sempre “contro” dei giornalisti e l’ossessione tipicamente italiana per i complotti

(articolo apparso su Prima Pagina del 25 ottobre 2014)

Da diversi anni, ormai, è in corso una singolare contrapposizione tra gli storici di professione (ovvero i professori universitari) e i giornalisti prestati alla storiografia. I primi – va da sé – si comportano con i secondi come farebbe un fratello maggiore nei confronti del minore: sono costantemente preoccupati, cioè, che non facciano troppo di testa loro e che seguano i consigli di chi con la storia si guadagna il pane. Quanto ai giornalisti, invece, essi hanno spesso la presunzione di voler scrivere una storia “contro”, inedita, che i professori – non è dato sapere per quale ragione – avrebbero interesse a tenere segreta, come a voler celare una verità scomoda e imbarazzante. Si tratta di una prassi oramai consolidata, ben messa in luce da Mario Isnenghi (docente di Storia contemporanea): «Nei meccanismi dissociativi di oggi, così nei confronti del Risorgimento come dell’antifascismo e della Resistenza, è d’uso stigmatizzare “storie ufficiali” e “vulgate” che, a rigore, non serve neppure tratteggiare: basta battezzarle così per liquidarle».
In questo, ci sentiamo di concordare con Isnenghi. Non è affatto vero che nelle aule universitarie la storia si insegna male, o meglio: non è vero che si insegna male dappertutto, che i professori al giorno d’oggi non valgono niente, che le cosiddette verità scomode vengono taciute, e così via. Esistono docenti preparati, disponibili e – cosa più importante – tutt’altro che ottusi, politicamente parlando. Anzi, oggi più di ieri – dopo la fine di quella che Pietro Scoppola definì «repubblica dei partiti» – è possibile parlare liberamente in aula, senza timore che un commento un po’ stonato (revisionista?) venga censurato o, peggio, procuri insulti o alzate di mani. Poi è ovvio: ci sono professori e professori. Come in ogni categoria, c’è il più bravo e il meno bravo; ma sostenere che i libri di storia (quelli scritti da professionisti) siano tutti scadenti e reticenti è una stupidaggine.
Piuttosto, c’è da chiedersi se i contributi storiografici firmati da giornalisti o non addetti ai lavori siano sempre attendibili, rigorosi e fondati su una scrupolosa ricerca documentaria. Anche qui è sbagliato fare di tutte le erbe un fascio. Esistono “dilettanti” che danno alle stampe volumi pregevoli e, al contrario, autori di autentica spazzatura. E, va detto, in questa categoria, i primi sono molto meno numerosi dei secondi, se non altro per una ragione del tutto ovvia: se cerchiamo un bravo storico, è più facile che lo troviamo tra chi si occupa del passato a tempo pieno, così come accade per qualsiasi altro mestiere. Se infatti ho bisogno, per esempio, di un falegname, mi rivolgo preferibilmente a un professionista o a uno che intaglia il legno per hobby? Spesso e volentieri, quindi, un libro senza note, magari con un titolo a sensazione e scritto da un semplice appassionato che nella vita non ha mai varcato la soglia di un archivio, si rivela essere nient’altro che una congerie di banalità e imprecisioni.
C’è, infine, un ultimo mito da sfatare. Non è vero che la cosiddetta “storia ufficiale” sia impossibilitata – per fantomatiche questioni di casta, per servilismo, per opportunismo – ad affrontare determinati argomenti “tabù”. Queste sono solo leggende diffuse ad arte da chi, come certi dilettanti, cerca una scorciatoia per affermarsi in quello stesso mondo che apertamente denigra. Possibile, infatti, come ha giustamente rilevato Giovanni De Luna (docente di Storia contemporanea), che la storia dei quotidiani sia sempre «nuova» e in grado di fare emergere retroscena loschi e poco indagati? È veramente credibile che i docenti (soprattutto, per ovvi motivi, quelli di storia contemporanea) ordiscano complotti per occultare dinamiche e processi storici potenzialmente pericolosi per il mondo della politica? Per un mondo, poi, che quando esce un libro, firmato da un giornalista, stracolmo di accuse alla casta (collusione con la mafia, corruzione, leggi ad personam, vitalizi esorbitanti, e via dicendo) opta sempre per un imbarazzato silenzio, come se l’opinione pubblica non fosse cosa di cui curarsi. Davvero, cioè, possiamo e vogliamo credere che il passato sia chiuso a chiave, tenuto al sicuro lontano dalle destabilizzanti penne degli storici di professione, e, invece, il presente sia libero e accessibile a chiunque voglia parlar male del politico di turno? Che – per esempio – il Risorgimento o la Resistenza siano ancora un campo minato, in un tempo nel quale infangare l’intero Parlamento sembra essere diventato il primo sport nazionale?
Siamo seri, su. Anche perché i libri di storia, scritti da storici, esistono, e a decine. Quali sarebbero, poi, questi argomenti tabù? Stando a quanto si legge oggigiorno, il Risorgimento, la guerra civile e la guerra fredda (ma non solo, ovviamente) sarebbero da riscrivere. Ma è davvero così? O forse fa comodo credere che sia così, magari per vendere un certo tipo di storia secondo le esigenze della politica? È bene sapere, infatti, che gli storici di professione non costituiscono un blocco omogeneo: anche tra loro c’è chi la pensa bianco e chi nero. Come tutti, si confrontano, si scontrano e discutono. Talvolta persino litigano!
Il punto è che nel nostro paese viviamo ormai con l’assillo del complotto. Forse proprio perché nessuno si fida più della politica e, soprattutto, dei suoi interpreti (in certi casi francamente indifendibili), siamo tutti un po’ propensi a dubitare, per partito preso, di tutto ciò che è bollato come istituzionale, o come “ufficiale”, nel caso della ricerca storica. Ed ecco quindi che prendono piede alcune interpretazioni maliziose, costantemente alla ricerca – ha scritto Angelo d’Orsi (docente di Storia del pensiero politico) – «del sensazionale, o ancora meglio del maleodorante, del putrescente»; le quali, quando non si fondano su fatti e avvenimenti inventati di sana pianta, giungono a conclusioni maliziose e, soprattutto, incuranti del pericolo più insidioso che minaccia ogni studioso (serio) del passato: l’anacronismo. Quando infatti si vuole fare un uso strumentale della storia (o anche, più banalmente, quando non si presta la dovuta attenzione), una tecnica efficace è quella di giudicare i fatti di ieri con le categorie mentali dell’oggi. Ad esempio: avrebbe senso infierire sulla figura di Arthur Schopenhauer, accusandolo di essere stato un uomo ottuso semplicemente perché – come moltissimi uomini del suo tempo – non stimava granché le donne dal punto di vista intellettuale? Chiaro che sarebbe fuori luogo, giacché applicheremmo al XIX secolo un giudizio che si adatterebbe ad un ipotetico Schopenhauer del 2014.
Altro esempio, per il quale riportiamo le acute osservazioni di Mario Isnenghi a proposito dei plebisciti risorgimentali: «C’è un abisso – certo – fra la parola d’ordine mazziniana del suffragio universale per eleggere nel 1849 un’Assemblea Costituente che avrebbe dovuto scegliere la forma istituzionale dello Stato, e quello che è veramente avvenuto: i plebisciti unanimisti, senza una effettiva alternativa, e quelle cifre imbarazzanti. Nessuna riserva, da parte mia, nell’apprezzare moralmente quei pochissimi che ebbero il fegato di dire “no” [...]. Ma anche nessuna esitazione a riconoscere comunque in quei plebisciti l’espressione – sfigurata – di un grande principio radicalmente innovativo: un uomo, un voto. E tu non puoi – erede esplicito o tacito dei Borboni, del granduca, del papa-re o della Serenissima – irridere alle modalità operative dei plebisciti perché probabilmente in quelle votazioni ci sono stati dei brogli, omettendo che era proprio il voto, il principio stesso di chiamare tutto il popolo a votare, a costituire il motivo di scandalo all’epoca e la discriminante tra il vecchio e il nuovo».
A ben vedere, quindi, il vero problema non riguarda i libri di storia in quanto tali, ma la loro diffusione e l’uso che ne viene fatto. Gli storici di professione hanno versato fiumi d’inchiostro per spiegare dinamiche ed avvenimenti: se esistono zone d’ombra, esse sono casomai dovute a carenze, non a complotti. Ciò che manca davvero, in Italia, è la volontà di documentarsi sul passato, cioè, detto banalmente, la voglia di leggere la storia, quella scritta da chi (docente, giornalista o appassionato che sia) il passato cerca di prenderlo sul serio. Certo, un ostacolo ingombrante c’è, eccome se c’è: ed è l’oggettiva complessità dei libri di storia, spesso ostici per il lettore sprovvisto degli strumenti necessari per orientarsi nell’universo della saggistica. Ma un conto è affermare che un volume dato alle stampe da un docente universitario rimarrà sempre un prodotto d’elite; altra cosa è rassegnarsi ad affidare la divulgazione – che pure è indispensabile – a pennivendoli che non si fanno scrupoli a manipolare il passato per convenienze di parte. Parlare chiaro – come pretendono di fare certi autori allergici alle note a piè di pagina – non offre alcuna garanzia (anzi: c’è da essere sospettosi!) sulla qualità del prodotto che si ha tra le mani.
Occorre pertanto fare chiarezza su cosa ci si aspetta dalla storia, poiché è evidente che se la si studia con secondi fini allora qualsiasi manipolazione diventa possibile. Un dato, però, è certo: in Italia non abbiamo bisogno di scrivere in continuazione nuovi volumi infarciti di presunte clamorose rivelazioni; casomai, dovremmo sforzarci di leggere e diffondere i libri, seri, che già esistono. Solo in quest’ottica, infatti, è possibile interrogarsi sull’esistenza di vulgate e chiedersi come mai alcuni argomenti sono più conosciuti di altri. Per quale motivo, per esempio, i manuali scolastici trascurano alcune vicende? Perché a scuola si leggono più o meno sempre gli stessi libri? Per quale ragione alcune giornate della memoria sono sempre in prima pagina, mentre altre non fanno notizia? Queste sono le domande da porre. Il resto è un finto e pretestuoso problema.

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