mercoledì 25 marzo 2015

«Calvario rosso»: il dramma della famiglia Azzolini nel tritacarne della guerra civile

(articolo apparso su Prima Pagina del 22 marzo 2015)

Ogni volta che esce un volume sulla guerra civile del 1943-45 o su un suo specifico episodio, la pubblica opinione è pressoché costretta a drizzare le antenne: sarà un libro revisionista o appartenente alla vulgata resistenziale? Sembra questa, infatti, la sola domanda che interessa in questi casi. E si tratta di una domanda che sottintende una profonda spaccatura tra la cosiddetta storia ufficiale (dove “ufficiale” sta – secondo i detrattori – per menzognera o reticente) e la storia sempre “contro” di chi – per lo più giornalisti e appassionati – ha la pretesa di sfatare un tabù dopo l’altro.
Posta in questi termini la questione, diviene arduo giudicare un libro per il suo intrinseco valore. Più infatti l’argomento è delicato, più è facile che entrino in gioco considerazioni legate alle appartenenze politiche, con l’ovvia conseguenza che – nel nostro caso – una persona “di destra” privilegerà gli scritti di un Pansa o di un Pisanò, mentre una “di sinistra” concederà la propria preferenza ai professori universitari. È evidente: stando così le cose, il pregiudizio avrà sempre la meglio sulla riflessione.
La sola strada percorribile è dunque quella di ignorare il nome dell’autore, la sua biografia e i suoi trascorsi politici, e di concentrarsi su un’unica, fondamentale domanda: le sue tesi sono sufficientemente documentate? Perché delle due l’una: o i fatti sono accertabili (attraverso fonti affidabili), oppure sono rielaborati con una certa dose (poco importa quanto grande) di fantasia, e in questo caso sono contestabili. Tertium non datur, dicevano i latini.
Fatta questa premessa, prendiamo finalmente in esame il volume di Elena Bianchini Braglia, intitolato Calvario rosso. Marianna Azzolini. Storia di una violenza partigiana (Edizioni ’900Storia 2015). E nel farlo, anticipiamone la tesi centrale: Pietro e Marianna (fratelli, entrambi fascisti) furono il primo assassinato, la seconda seviziata, stuprata, infine a lungo incarcerata, senza un valido motivo, per mero odio  politico e di classe, per mano di un gruppo di partigiani comunisti. Essi non meritarono la violenza che subirono per il semplice fatto che erano persone per bene, lui medico sempre sollecito nel prestare la propria competenza al servizio di chiunque avesse bisogno del suo intervento, lei professoressa e donna pia, innocua, di certo non una spia, come risulta dalle incongruenze emerse in sede processuale. Entrambi finirono in quell’immenso tritacarne che fu la guerra civile, travolti dai sospetti, dal desiderio di vendetta e dalla rabbia di chi si credeva in diritto di giustificare ogni abominio contro la dignità umana in nome della rivoluzione e di una libertà a senso unico.
Pietro fu ingannato con la solita messinscena: «C’è un ferito grave da curare», gli dissero. Ma era solo una scusa per prelevarlo nella notte e farlo fuori, così su due piedi, senza processo. Marianna divenne invece un elemento sospetto per il semplice fatto di avere perso un fratello in quel modo: normale che cercasse vendetta, che facesse la spia. E per questo, con un banale pretesto, con prove evidentemente false, fu arrestata. Ma c’è dell’altro: per i partigiani la giovane professoressa è un nemico di classe, è una fascista, e per di più non collabora! Nega di essere una spia, non fa nomi, non ha paura di tenere testa agli uomini che la interrogano. Una notte, mentre è tenuta in custodia in una stanza di un casolare, i suoi carcerieri decidono di approfittarsi della sua debolezza: Marianna è sola, e non può opporsi alla violenza di chi, violando il suo corpo, intende umiliare il nemico al punto da disumanizzarlo. Tanto la scusa è pronta: dopo tutto il male di cui il regime si è reso responsabile, uno stupro passa in secondo piano. Quando è in gioco l’avvenire di un popolo non c’è spazio per i sentimentalismi e la pietà. Certi eccessi vanno messi in conto.
La logica della guerra civile è proprio questa: non esistono più le persone, ma solo i gruppi di appartenenza. Un fascista è un fascista, prima che un uomo. E un partigiano è un ribelle, un sovversivo. Ancora oggi c’è chi fatica a mostrare pietà per gli uomini, a prescindere dalle divise indossate in quei tumultuosi mesi di sangue. Gli storici sono divisi, e molti ancora discutono dell’opportunità di sviscerare certe vicende scomode. Chiunque faccia luce sulle zone d’ombra della Resistenza (anche se non ne mette per nulla in discussione l’assoluto valore morale) è accusato di revisionismo, di ignorare le responsabilità del fascismo, o peggio di essere un servo della destra attuale.
Prendiamo il caso di Pansa. Nel suo libro La grande bugia egli precisa che «la Resistenza è, da sempre, la mia patria morale»; tuttavia i suoi libri sono puntualmente infangati, giacché – molti sembrano esserne convinti – osano mettere in discussione il valore della lotta partigiana. Ma quale sarebbe il vero peccato di Pansa? Dice inesattezze? Racconta storie inventate? Se così fosse, sarebbe davvero il caso di scandalizzarsi. Tuttavia Pansa è attaccato per altri motivi. Si legga quanto scrisse Sergio Luzzatto, stimato docente universitario torinese, a proposito de Il sangue dei vinti (il noto bestseller che affronta lo spinoso tema delle vendette del dopo 25 aprile): «Il libro ripete cose che si sanno. Che sono state dette e ridette, scritte e riscritte, interpretate e reinterpretate – con ben maggiore sottigliezza rispetto a quella di Pansa – da tutti i migliori studiosi della guerra civile e dell’immediato dopoguerra».
Chi avesse voglia di fare qualche click sul web potrebbe reperire senza difficoltà diversi commenti come questo. Commenti che sembrano tutti avere un singolare elemento in comune: non censurano le singole affermazioni di Pansa – che evidentemente non sono facilmente confutabili, anche perché sono «cose che si sanno» –, ma fanno una sorta di processo alle intenzioni del giornalista piemontese. In altre parole, nessuno parla di contenuti, nessuno si assume la responsabilità di dire: «Questo non è vero». Ciò che conta è stabilire perché Pansa ha scritto quello che ha scritto, chi ha voluto ingraziarsi, quale subdolo fine intendeva perseguire.
Eppure, tornando in tema, le stragi del dopoguerra non le ha certo raccontate per primo Il sangue dei vinti. Si legga, per esempio, questo breve passo tratto da Storia del Novecento italiano (libro uscito nel 2000, tre anni prima, quindi, dell’uscita del libro che fece scoppiare il caso-Pansa) di Simona Colarizi (docente di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma): «[Nel Nord Italia] le condanne sono state già pronunciate fuori dalle aule dei tribunali e le esecuzioni si fanno per le strade, nei viottoli delle campagne, sotto i cavalcavia e nei fossati in piena notte, con un colpo alla nuca. Per tre mesi nelle province rosse, in particolare l’Emilia Romagna, i partigiani si scatenano. Alla fine del giugno 1945 i dati raccolti dal Comando generale dei carabinieri sono impressionanti: sono 270 le persone giustiziate a Bologna, 117 a Ferrara, 120 a Ravenna, 110 a Reggio Emilia, per dare solo le cifre più significative. E non viene neppure risparmiato chi è in carcere in attesa di processo: a Cesena, a Ferrara, a Carpi si dà l’assalto alle prigioni per impadronirsi degli imputati che sono passati per le armi davanti alla folla. È una pagina di vergogna […]».
Par di capire, in sostanza, che il punto non sia l’attendibilità di Pansa, bensì il suo enorme successo. I suoi non sono saggi per specialisti, ma libri alla portata di tutti. E nelle librerie si vendono a decine di migliaia. È questo – se siamo onesti – che dà più fastidio: il fatto che un volume non agiografico (ma – si badi – nemmeno denigratorio) sulla Resistenza interessi a così tanti lettori. Poco importa, infatti, che Pansa si sia a lungo occupato, in gioventù, della lotta partigiana: raccontare le magagne del PCI, ancora oggi, espone al rischio di vedersi piombare addosso una valanga di polemiche e di insulti. Chi nega che le cose stiano così o è miope, o è in malafede.
Queste considerazioni vanno fatte allorché si decide di pubblicare un volume come quello di Elena Bianchini Braglia. Perché Calvario rosso può essere documentato fin che vuole, ma il fatto che nelle sue pagine alcuni partigiani garibaldini vestano i panni degli aguzzini certamente irriterà più di un lettore. La Braglia infatti non ha difficoltà ad annoverare Pietro e Marianna Azzolini tra le vittime della guerra civile. Il che non significa ch’ella intenda riabilitare il fascismo. Le responsabilità del regime e di un Mussolini che per mera ambizione finì soffocato tra le spire di Hitler, nessuno si sogna di metterle in discussione. La guerra civile fu la tragica conseguenza delle decisioni scellerate del duce, nonché l’epilogo di una dittatura ventennale. La storia ha già emesso la sua sentenza: e il fascismo ne è uscito sconfitto. Detto questo, però, non si può far finta che la Resistenza fosse un movimento coeso in difesa della libertà e della democrazia. Al suo interno, le preponderanti forze comuniste avevano in programma la rivoluzione e l’instaurazione della cosiddetta dittatura del proletariato. Per i garibaldini, la Liberazione era solo il primo passo; il che ci aiuta a comprendere il perché di tanta violenza gratuita, di tanto odio di classe, da parte di chi – in teoria – avrebbe dovuto recitare la parte del “buono”.
Il punto è che si potrebbero benissimo conciliare i libri di Pansa e della Braglia con una visione matura, scevra di preconcetti politici, del nostro più recente passato. Cosa cambia, in fondo, se anche i partigiani hanno ammazzato? Perché negare l’evidenza e arroccarsi in difesa di un mito comunque destinato a sgretolarsi (ma esistono poi miti inscalfibili?), quando si potrebbe tranquillamente difendere il valore morale complessivo della Resistenza e, allo stesso tempo, riconoscere che al suo interno non era tutto rose e viole? Forse vale la pena rileggere quanto scrisse Italo Calvino, rivolgendosi – nella Presentazione dell’edizione del 1964 de Il sentiero dei nidi di ragno – ai detrattori della Resistenza: «D’accordo, farò come se aveste ragione voi, non rappresenterò i migliori partigiani, ma i peggiori possibili, metterò al centro del mio romanzo un reparto tutto composto di tipi un po’ storti. Ebbene: cosa cambia? Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere».
Ecco, questo ha fatto, in definitiva, Elena Bianchini Braglia: ha raccontato la storia di una famiglia vittima di un gruppo di partigiani «un po’ storti». Non resta che augurarle buona fortuna per gli strali di cui presto diverrà bersaglio.

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domenica 22 febbraio 2015

«Porcomondo»: l’epopea del maiale nel territorio padano

(articolo apparso su Prima Pagina dell'8 febbraio 2015)

Sulle tavole degli italiani il maiale è da sempre una presenza fissa, verrebbe da dire insostituibile. Nel suo ultimo libro – intitolato simpaticamente Porcomondo. L’epopea del maiale nel territorio padano dall’antichità al mondo attuale (Il Novello Editore, 2014) – Gian Carlo Montanari lo considera addirittura il «re delle carni», ovvero «macchina per cibo» dalla quale – come è noto – si ricava di tutto.
Il volume intende presentare un quadro composito. Si parte infatti con una breve trattazione storica, che documenta tecniche di allevamento ed usi del maiale nel corso dei secoli, per approdare successivamente ad un divertente excursus dei popolari modi di dire aventi per protagonista il porco (alcuni, molto curiosi, in dialetto, come il seguente: Chi tos muiera l’è cunteint un dè, se al maza al porch l’è cunteint un an [chi prende moglie è contento un giorno, chi ammazza il maiale è contento un anno]); si prosegue poi con un dizionario minimo dei prodotti suini padani, con un appetitoso ricettario e, dulcis in fundo, con una lode conclusiva del prezioso animale, affidata ai versi de Gli elogi del porco, poemetto risalente al 1761 composto dal sacerdote Giuseppe Ferrari, alias Tigrinto Bistonio.
Del maiale – derivato dalla domesticazione del cinghiale – esistono varie razze, che si differenziano tra loro essenzialmente per il peso e le misure. Le denominazioni più comuni dell’animale sono molteplici, ed è bene fare un po’ di chiarezza. Suino – precisa Montanari – è il nome generico «che deriva [dal latino] sus, con riferimento al partorire», vista «la stupenda prolificità della femmina»; porco – termine che ha poi acquisito connotazione spregiativa – «deriva dal greco porikos» e allude all’abitudine dell’animale di far buchi nel terreno; maiale (parola che rimarca l’usanza di sacrificare il porco alla dea Maia, madre di Hermes) indica propriamente il suino castrato; infine «ci sono ancora il verro (nome dato al maschio) e la scrofa (nome dato alla femmina), detta pure troia», termine che tecnicamente indica un esemplare destinato alla riproduzione e che per questo ha assunto il significato volgare ed offensivo di donna dai facili costumi.
Oggi circa il 40% del consumo mondiale di carni è relativo al maiale, a riprova di quanto l’animale sia prezioso per la soddisfazione dei primari bisogni di sussistenza. Un simile dato si giustifica – va da sé – solo con la consuetudine: il maiale, infatti, è presente sulle tavole dai tempi più remoti, come si evince del resto da numerose attestazioni. Montanari è molto attento nel seguire le tracce lasciate dal suino nel corso dei secoli, tanto che il suo libro, per certi versi, altro non è che una minuziosa raccolta delle testimonianze storiche, letterarie ed artistiche riguardanti il prezioso animale. Risalendo fino all’antichità, basti ricordare che «le ossa dei maiali primordiali campeggiano […] nei musei di paleontologia», che il porco riveste un ruolo tutt’altro che secondario nell’episodio della maga Circe, nell’Odissea, e che nel trattato De agricoltura uno scrittore del calibro di Catone si prese la briga di descrivere alcune tecniche di salagione delle carni di suino. Gli esempi potrebbero continuare, ma in questa sede è sufficiente rilevare che «l’antichità ci narra in gran quantità del porco» e che l’allevamento dei suini era una pratica particolarmente diffusa in area padana (giusto per fare un esempio, tanto Strabone quanto Tito Livio citano Modena come territorio popolato da numerosi maiali).
Il tramonto della romanità nei primi secoli del Medioevo risparmiò, sostanzialmente, il maiale, che infatti – ed è un dato molto significativo – fa la sua comparsa nell’Editto di Rotari (dove è ripetutamente menzionata la figura del mastro porcaio). Giusto per avere un’idea dell’importanza del suino per gli uomini dell’epoca, è bene ricordare – nota Montanari – che «a cavallo tra primo e secondo millennio nel territorio padano un bosco era misurato e valutato secondo il numero di maiali che poteva sostentare» e che «l’economia curtense vide famiglie di contadini costretti a pagare una tassa al loro signore […] detta ghiandatico, perché si riferiva a un decimo delle ghiande raccolte per allevare il maiale».
Anche nell’arte il porco era una presenza ricorrente. I portali delle grandi cattedrali romaniche contengono infatti, ancora oggi, numerose raffigurazioni dei cosiddetti cicli dei mesi, e in quelli invernali (novembre, dicembre, gennaio) spesso sono presenti scene raffiguranti la lavorazione delle carni suine. Il Duomo di Modena, al riguardo, offre una preziosa testimonianza con la sua celebre Porta della Pescheria, tra le cui sculture troviamo, seduto su uno sgabello, un addetto all’uccisione e alla preparazione del maiale. Nell’iconografia medievale, in sostanza, il suino ha una parte da autentico protagonista. E vale la pena, a tal proposito, riportare quanto scrive Montanari su Sant’Antonio abate: «Questo personaggio che la tradizione ci dice divenne ultracentenario e visse a cavallo del III-IV secolo non si può trascurare in relazione al nostro discorso generale, perché è accostato decisamente al maiale nell’iconografia, sicché pure Dante Alighieri ne fa cenno nel canto XXIX del Paradiso […]. Gli antoniani, i religiosi che servivano negli ospedali quando scoppiò la malattia herpes zoster, comunemente detta fuoco di Sant’Antonio, nell’anno 945, ebbero il cosiddetto privilegio degli antoniani e cioè quello di poter gratuitamente ingrassare un porco nel convento. Da tutto ciò venne l’uso di rappresentare il santo con tre elementi distintivi: bastone a crux commissa, la croce egiziana a T, un campanello e un porcellino ai piedi».
Il Medioevo coincise realmente con l’affermazione del maiale quale re delle carni, come si ricava del resto leggendo gli statuti delle corporazioni coinvolte nella lavorazione dell’animale. Nel contesto padano, il porco divenne elemento imprescindibile nell’alimentazione, e vale senz’altro la pena ricordare che Modena fu uno dei centri più attivi nella produzione e nel commercio delle carni suine (rinomata era la salsiccia fina di Modena), tanto che nel Quattrocento, secondo le voci popolari, entro le sue mura dimoravano più maiali che persone. Il che – sottolinea Montanari – portava talvolta a qualche spiacevole inconveniente, come quello lamentato dal rettore della chiesa di San Marco, il cui cimitero fu devastato dai maiali allevati nelle vicinanze.
Con l’inizio dell’età moderna il primato del maiale si consolidò, e con esso anche la presenza dell’animale nella letteratura. Un caso singolare è rappresentato dal Gargantua e Pantagruel di Rabelais (ricco di riferimenti al porco), anche se senza dubbio più curioso è il proliferare, tra Cinque e Settecento, di elogi giocosi del maiale, segno evidente che i prodotti ottenuti dalla lavorazione del suino si stavano avviando a diventare una presenza fissa nelle occasioni di festa, laddove occorreva imbandire la tavola con cibi succulenti e allo stesso tempo servibili in grandi quantità. Da L’eccellenza et trionfo del porco di Giulio Cesare Croce alla Lauda in onore della salsiccia di Modena scritta dal poeta-musicista Bellerofonte Castaldi; dal già citato Gli elogi del porco di Giuseppe Ferrari/Tigrinto Bistonio a La salameide, poemetto giocoso del ferrarese Antonio Frizzi, sembra quasi di assistere al trionfo di un animale accostato sempre più di frequente al benessere e alla spensieratezza.
Oggi, del resto, siamo testimoni diretti di questa esaltante epopea. L’Emilia Romagna è assurta al rango di patria dell’industria del maiale, che contribuisce enormemente al benessere della regione attraverso l’esportazione di prodotti d’eccellenza in tutto il mondo. Un esempio particolarmente significativo è costituito, al riguardo, da Castelnuovo Rangone, comune che grazie alla fiorente industria di lavorazione delle carni suine è giunto, nel 2011, a vantare il più alto reddito medio pro-capite della provincia di Modena; e che, per rendere omaggio al prezioso animale, ha voluto che nella piazza principale fosse eretta una statua di bronzo raffigurante un porco. Un gesto simbolico, forse di poco conto, che tuttavia è espressione di un sentimento di riconoscenza che dovrebbe essere comune quantomeno a tutto il territorio padano. Perché, come giustamente nota Montanari, «il cibo fa l’uomo», nel senso che diviene parte integrante di una cultura. E del porco la nostra cultura non può proprio fare a meno.

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«Il libro nero della condizione dei cristiani nel mondo»: conoscere per comprendere il valore della testimonianza

(articolo apparso su Prima Pagina del 25 gennaio 2015)

«C’è una cosa che voglio mettere in chiaro: sono convinto che la persecuzione contro i cristiani oggi sia più forte che nei primi secoli della Chiesa. E non è una fantasia: lo dicono i numeri».
A usare queste precise parole non è stato, pochi mesi or sono, un opinionista qualsiasi, ma papa Francesco in persona, in un’intervista rilasciata al quotidiano di Barcellona «La Vanguardia» e integralmente riprodotta su «L’Osservatore Romano» lo scorso 13 giugno. Di questo intervento del pontefice, uno stralcio è citato in apertura di un significativo volume uscito da non molte settimane: Il libro nero della condizione dei cristiani nel mondo (Mondadori 2014), a cura di Jean-Michel di Falco, Timothy Radcliffe e Andrea Riccardi. Si tratta di una corposa miscellanea di saggi (circa una settantina) che raccoglie contributi di numerosi autori di diverse nazionalità e che intende tracciare un quadro il più possibile esaustivo delle persecuzioni che i cristiani stanno subendo in tutto il mondo. In questa sede, a livello introduttivo, prenderemo in esame l’intervento di John Allen (vaticanista americano del «Boston Globe»), che tenta di far luce  sulle cause che stanno all’origine di quella che egli considera una vera e propria «guerra globale».
Le prime riflessioni di Allen prendono spunto da un recente fatto di cronaca. Nel maggio dello scorso anno, Meriam Yahia Ibrahim Ishag, ventisettenne sudanese, è stata condannata a morte con l’accusa di apostasia dall’islam. Figlia di un musulmano che l’ha abbandonata quando era ancora una bambina, Meriam è stata cresciuta cristianamente dalla madre etiope e ha successivamente sposato un cristiano. Un tribunale islamico, tuttavia, ha stabilito che la giovane avrebbe avuto l’obbligo di professare la religione del padre e che la sua «conversione» (anche se Meriam è sempre stata esclusivamente cristiana) è da considerarsi illegale in base alla legge della sharia. Scrive Allen: «Le sono stati concessi tre giorni per abiurare la sua fede, ma si è rifiutata di farlo ed è stata rinchiusa nel carcere federale femminile di Omdurman, insieme al figlio Martin di venti mesi. Durante la prigionia ha dato alla luce una bambina. […] In teoria Meriam avrebbe dovuto essere punita con cento frustate subito dopo il parto per aver sposato un cristiano, e dopo due anni, in caso di mancata abiura del cristianesimo, con l’impiccagione per il reato di apostasia».
Fortunatamente il caso ha avuto enorme risonanza mediatica, e le pressioni internazionali a più livelli hanno infine portato alla scarcerazione di Meriam. Il punto però, rileva Allen, è che l’episodio non va considerato un dramma isolato ed eccezionale – cosa che invece molti sono indotti a credere –, bensì come il prodotto di una «guerra globale contro i cristiani» che tende inspiegabilmente a passare sotto silenzio.
Alcuni dati statistici aiutano a chiarire la tesi del vaticanista del «Boston Globe».
– A Baghdad, delle 65 chiese cristiane presenti, circa 40 sono state bombardate almeno una volta dal 2003 (anno di inizio della cosiddetta Seconda guerra del Golfo). Più in generale, per quanto concerne l’Iraq, all’epoca della Prima guerra del Golfo (1991) la comunità cristiana era composta da almeno 1,5 milioni di persone; oggi si calcola che il numero sia sceso a 500.000 unità (o addirittura a 150.000 secondo stime ritenute più realistiche).
– Nello Stato di Orissa (India nordorientale), nel 2008 una serie di sommosse è terminata con l’uccisione di 500 cristiani (molti dei quali massacrati a colpi di machete da fondamentalisti indù), il ferimento di altre migliaia e la distruzione di 5000 abitazioni e 350 fra chiese e scuole.
– In Birmania (paese a netta maggioranza buddista), i gruppi etnici chin e karen (di fede cristiana) sono considerati dissidenti dal regime e tenacemente perseguitati mediante intimidazioni continue, arresti, condanne a lavori forzati e uccisioni.
– In Nigeria, il movimento islamico Boko Haram ha da anni preso di mira la popolazione cristiana, ed è ritenuto responsabile della morte di quasi 3000 persone dal 2009. I suoi seguaci dichiarano apertamente di voler estirpare la presenza cristiana da alcune aree del paese.
– In Corea del Nord, si stima che circa un quarto della popolazione cristiana (tra le 20 e le 40.000 persone) sia rinchiuso in campi di lavoro per essersi rifiutato di aderire al culto di Kim Il-sung. Secondo altri conteggi, a partire dal 1953 (anno dell’armistizio che consolidò la divisione della penisola coreana) circa 300.000 cristiani sono spariti nel nulla, presumibilmente morti.
I dati qui riportati offrono solo una panoramica parziale delle persecuzioni che i cristiani subiscono in tutto il mondo. Basti aggiungere, infatti, che secondo alcuni recenti calcoli il totale dei morti cristiani in un anno si aggira intorno alle 7000 unità e che nel 2012 il Pew Forum on Religion and Public Life di Washington DC ha stimato che i cristiani sono soggetti a varie forme di vessazione in ben 139 paesi, ovvero in quasi tre quarti delle società del pianeta.
Resta a questo punto da chiedersi: perché proprio i cristiani? L’opinione più diffusa tiene conto sostanzialmente del conflitto sempre più aspro tra fede e secolarismo e del cosiddetto «scontro di civiltà», che contrappone la cristianità all’islam radicale. Ma occorre tenere presenti soprattutto quattro fattori fondamentali, che a parere degli esperti di discriminazione religiosa rivestono un ruolo decisivo:
– Il numero. Molto banalmente, i cristiani sono i più perseguitati perché decisamente più numerosi dei seguaci di altre religioni (nel 2014, i cristiani sono circa 2,3 miliardi, seguiti dai musulmani, che ammontano a 1,7 miliardi).
– Le zone di crescita. Il cristianesimo, infatti, è in ascesa in molte regioni che si trovano fuori dall’Occidente, nelle quali la sua espansione è percepita come una minaccia (è il caso, per esempio, della Cina, dove lo Stato è retto da un partito unico ed è ufficialmente ateo).
– Le etnie. In molte parti del mondo i cristiani costituiscono allo stesso tempo una minoranza religiosa ed etnica, con tutti i rischi che questa condizione comporta. Il caso dei gruppi chin e karen in Birmania è un esempio di come l’emarginazione possa rapidamente tramutarsi in persecuzione.
– L’identificazione con l’Occidente. È forse la causa principale. In molti paesi, infatti, l’equazione cristiano = filo-europeo o filo-americano alimenta l’odio verso una religione considerata ostile in quanto espressione di una cultura nemica. È il caso, ad esempio, dell’Iraq, dove – sottolinea Allen – «i fondamentalisti islamici talvolta hanno visto le Chiese cristiane come teste di ponte per l’influenza “crociata”, sebbene la cristianità in Iraq, in realtà, abbia radici storiche molto più profonde dell’islam».
Ultima questione, che resta sempre un po’ in sospeso, è quella relativa al silenzio che circonda le persecuzioni dei cristiani nel mondo. Perché se ne parla così poco, soprattutto entro i confini del cosiddetto Occidente? Allen prende in esame diversi fattori, ma due in particolare risultano decisivi: l’evidente ostilità nei confronti della religione (essa stessa considerata portatrice di intolleranza, tanto che molti laici tendono ad associare al cristianesimo concetti quali repressione – basti pensare all’Inquisizione o alle Crociate –, conservatorismo e ottusità) e la diffusa indifferenza rispetto a problematiche che paiono lontane, troppo distanti emotivamente oppure difficilmente svincolabili dall’immagine di singoli casi (come quello di Meriam) che inevitabilmente finiscono per essere considerati eccezionali. «I nuovi martiri – scrive al riguardo Allen – spesso vanno incontro alla morte in luoghi come Sri Lanka, Maldive e Sudan, che molti occidentali faticherebbero a individuare sulla carta geografica […]. La guerra contro i cristiani, inoltre, è incredibilmente complessa e difficile da interpretare. Non esiste un rimedio semplice, come lo è stato disinvestire dalle azioni sudafricane durante il regime dell’apartheid […]. Ogni situazione deve essere analizzata singolarmente; ciò che potrebbe funzionare per contrastare l’estremismo buddista in Bangladesh rischierebbe di non essere adatto per lottare contro i narcoterroristi in Colombia».
Occorre dunque prendere coscienza dell’esistenza di una vera e propria guerra globale che provoca la morte di migliaia di cristiani ogni anno. Non è tollerabile, infatti, che una società come la nostra non sia informata su uno sterminio di queste proporzioni, anche perché è del tutto evidente – e il caso di Meriam lo dimostra – che il primo passo da compiere per trovare una soluzione ai problemi è conoscerli. Sapere che in diverse aree del pianeta ci sono moltissimi martiri che sacrificano la propria vita in nome della fede vorrà pur dire qualcosa in un mondo che sembra aver perso ogni valore e pare chiudersi sempre più in se stesso! Si ricordi, del resto, che la parola martire significa testimone: e i testimoni necessitano di orecchie disposte ad ascoltare.

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domenica 18 gennaio 2015

Don Primo Mazzolari: parroco di Bozzolo, «parroco d’Italia»

(articolo apparso su Prima Pagina del 18 gennaio 2015)

Gli anni Trenta e il trasferimento a Bozzolo coincidono, per don Primo Mazzolari, con l’inizio di una stagione di prolifica produzione letteraria, inaugurata da un breve scritto di presentazione ai nuovi fedeli, intitolato Il mio parroco. Nel complesso, sono anni duri, con il regime che si consolida, la povertà che affligge pressoché l’intero territorio entro il quale il sacerdote lombardo si trova ad operare e l’emergere di aspri contrasti – che caratterizzeranno l’intero prosieguo della sua esistenza – con la gerarchia ecclesiastica.
Emblematico, oltre che motivo di scandalo, è il caso de La più bella avventura, originale rilettura della parabola del figliol prodigo incentrata sulla figura del fratello maggiore. Il volume viene pubblicato nel 1934 dopo aver ricevuto l’imprimatur della curia bresciana, ma è condannato l’anno seguente dal Sant’Uffizio, che lo giudica «erroneo» e ne impone il ritiro dal commercio. Il motivo del provvedimento è facilmente intuibile: per Mazzolari, il prodigo è un peccatore che si mostra comunque coraggioso nel seguire il proprio istinto, mentre il fratello maggiore è fondamentalmente un ignavo che segue la regola del quieto vivere. Morale: la Chiesa non può rimanere inerte e godere degli agi della propria casa, ma deve aprirsi a chi da essa si è allontanato facendo il possibile per recuperarlo.
Come precisa nella lettera di sottomissione inviata a Roma, Mazzolari aveva inteso «gettare un ponte ai lontani», ma è frainteso. Al suo vescovo, monsignor Cazzani, confida di sentirsi come un «vigilato speciale»; nondimeno obbedisce, pur palesando di non comprendere le ragioni che stanno all’origine del provvedimento di censura. Ciò che don Primo non può sapere è che la condanna per La più bella avventura è la prima di una lunga serie. Nel 1937, allorché Mazzolari pubblica un articolo intitolato I cattolici italiani e il comunismo (nel quale l’ideologia marxista è condannata per le conclusioni materialiste cui necessariamente approda, ma non per le premesse – povertà, ingiustizia, sfruttamento – che ne costituiscono il motore), al Sant’Uffizio si sostituisce il regime: lo scritto è infatti prontamente sequestrato con l’accusa di diffondere una «prosa demagogica e disfattista», e don Primo è apertamente minacciato da Roberto Farinacci su «Regime fascista».
Mazzolari non è però per nulla disposto a farsi da parte, ed anzi guadagna fama in tutta la penisola grazie alla sua instancabile attività di conferenziere. Negli anni precedenti la Seconda guerra mondiale il prete cremonese tiene numerosi discorsi, collabora alle principali testate cattoliche nazionali e contemporaneamente riesce nell’arduo compito di non perdere di vista il quotidiano impegno pastorale. Nel frattempo gli eventi si susseguono a ritmo incalzante: guerra d’Etiopia (cui don Primo dà il proprio sostegno non certo in nome dell’imperialismo fascista, ma poiché si convince che il conflitto costituisca un’occasione per alleviare le sofferenze del popolo italiano, ridotto in miseria dall’arroganza delle grandi potenze del continente europeo), guerra di Spagna e infine il secondo conflitto mondiale. Mazzolari vi giunge avvolto in un clima di sospetti e calunnie (tanto il regime, quanto il Sant’Uffizio gli bloccano in questa fase diversi scritti, tra cui il volume del 1943 Impegno con Cristo, destinato – scrive Bruno Bignami – a diventare «documento simbolo della Resistenza per l’invito a vivere la fede come impegno disinteressato per il bene dell’uomo»), e, dopo il crollo del fascismo, è presto costretto a toccare con mano il dramma della guerra civile.
Don Primo si prodiga sin da subito per favorire il movimento partigiano delle Fiamme verdi (di matrice cattolica) e si attiva per nascondere i perseguitati, tra cui diversi ebrei. L’intraprendenza espone però il sacerdote cremonese al rischio di una delazione: e infatti puntuali arrivano i primi avvertimenti, finché Mazzolari (febbraio 1944) non viene arrestato, successivamente liberato e poi nuovamente sospettato di collaborazionismo, tanto da essere costretto a nascondersi per sfuggire alla cattura. Vivrà in clandestinità, praticamente murato vivo in una stanzetta della sua canonica a Bozzolo, fino ai giorni della Liberazione.
Il dopoguerra si apre per don Primo all’insegna di una fondamentale parola d’ordine: riconciliazione. Per il prete lombardo, supremo compito del buon cristiano diviene – in quel drammatico frangente storico – l’educazione al perdono: ed egli per primo si premura di dare il buon esempio cercando con ogni mezzo di impedire le vendette politiche e mostrando pietà nei confronti dei fascisti sui quali ricade il pericolo di una giustizia sommaria. La sua sfida è quella della fraternità a tutti i costi, che deve esprimersi attraverso il comune impegno per la ricostruzione – materiale, ma soprattutto morale – del paese.
È questa, in sostanza, la suprema motivazione che sta alla base dell’impegno politico di Mazzolari: il forte desiderio di rimboccarsi le maniche per voltare pagina in un clima di ottimistico rinnovamento culturale, all’insegna della ritrovata libertà e della democrazia. Don Primo è convinto che l’umanità debba passare attraverso una «rivoluzione cristiana», ovvero mettersi nelle condizioni di aprirsi ai «lontani», ai poveri e agli emarginati mediante un dialogo incessante imperniato sull’amore del prossimo. Significativamente, Rivoluzione cristiana è proprio il titolo di un’opera tra le più belle dell’intera produzione mazzolariana, portata a termine durante il periodo della clandestinità ma pubblicata postuma nel 1967. In essa si legge: «Il mondo o lo si costruisce sull’egoismo, o lo si costruisce sull’amore […]. Se, invece di stimolare e garantire gli impulsi egoistici dell’uomo, avessimo stimolato e organizzato il suo bisogno d’amore; se ogni sforzo e ogni nostra invenzione li avessimo posti a servizio dell’amore per suscitare l’amore, qualcosa di meno belluino ci sarebbe nel mondo».
Mazzolari si impegna in politica proprio per gettare le basi della rivoluzione cristiana che ha in mente. Da subito si schiera per la DC, sia nelle elezioni per la Costituente (1946), sia in quelle – decisive per il futuro dell’Italia – del 1948. La sua, però, non è una scelta di campo che esclude il dialogo con gli avversari: nei confronti del comunismo – di cui, come detto, respinge categoricamente il materialismo – l’atteggiamento di don Primo è sostanzialmente di potenziale apertura, nel senso che egli crede che il cristianesimo possa costituire, al riguardo, un terreno di incontro, una sorta di casa (si noti come nel pensiero del prete cremonese torni costantemente la riflessione sulla parabola del figliol prodigo) che deve accogliere chiunque intenda farvi ritorno dopo un periodo di smarrimento.
Mazzolari non esita pertanto a scendere in piazza e ad esporsi in prima persona per tenere comizi durante la campagna elettorale (risale a quel periodo il pubblico confronto con il conterraneo Guido Miglioli, ex deputato popolare approdato nelle file del Fronte popolare). Collabora a «Democrazia» (settimanale della DC lombarda) e nel 1949 fonda il battagliero quindicinale «Adesso», pensato per sollecitare un profondo rinnovamento della Chiesa, per la quale – sostiene – è giunta l’ora dell’abbandono del conservatorismo. Il periodico affronta tutti i temi che più stanno a cuore a don Primo: la difesa dei poveri, il dialogo con i «lontani», il complicato confronto con i comunisti, il problema della pace e della bomba atomica in un’epoca di contrapposizioni globali. In sostanza, tutti argomenti “scomodi” che inevitabilmente finiscono per allarmare la gerarchia ecclesiastica, la quale puntualmente torna a farsi sentire: nel 1951 a Mazzolari è fatto divieto di scrivere e di predicare fuori della sua diocesi senza il permesso dei superiori (ma don Primo contravverrà alle disposizioni, continuando a pubblicare su «Adesso» celandosi dietro diversi pseudonimi); tre anni dopo dal Sant’Uffizio giunge l’ordine di non predicare al di fuori della sua parrocchia, di non rilasciare più interviste e di astenersi dallo scrivere «su materie sociali», con la motivazione che gli articoli e i discorsi del prete lombardo «offrono elementi di propaganda dei comunisti contro la Chiesa e provocano divisioni nel campo cattolico».
Nel frattempo, tenendo sempre presente la cura d’anime a Bozzolo, Mazzolari dà comunque alle stampe diverse opere, tra cui La pieve sull’argine (di carattere autobiografico, uscito nel 1952), Tu non uccidere (apparso anonimo nel 1955: si tratta di un testo tra i più conosciuti della produzione mazzolariana, incentrato sulla correlazione pace-giustizia) e I preti sanno morire (opuscolo pubblicato nel 1958 che affronta il delicato tema dei sacerdoti uccisi durante la Resistenza). Sono gli ultimi anni di don Primo, caratterizzati da una sostanziale riconciliazione con l’autorità ecclesiastica. Nel novembre del 1957 è infatti chiamato da monsignor Montini, allora arcivescovo di Milano, a predicare nel capoluogo lombardo all’interno di un’iniziativa straordinaria di interventi pastorali, la «Missione al popolo»; il 5 febbraio 1959, infine, Mazzolari è ricevuto in Vaticano da Giovanni XXIII, che nell’occasione pronuncia una frase destinata a diventare celebre: «Ecco la tromba dello Spirito Santo in terra mantovana». Esattamente due mesi dopo, il 5 aprile, don Primo è colpito da emorragia cerebrale durante la predicazione nella chiesa di San Pietro a Bozzolo: trasportato in ospedale, muore la domenica successiva, il 12 aprile.
Dalle pagine del suo testamento spirituale si può leggere una riflessione che pare la sintesi dell’intera vicenda terrena del prete cremonese: «Nei tempi difficili in cui ebbi la ventura di vivere, un’appassionata ricerca sui metodi dell’apostolato è sempre una testimonianza d’amore, anche quando le esperienze […] pare non convengano agli interessi immediati ella Chiesa». In questo suo voler essere profeta, nell’apertura verso ciò che va oltre la canonica e la comunità dei fedeli, don Primo Mazzolari incarna la figura di un sacerdote universale, parroco di un piccolo paese di campagna ma allo stesso tempo capace di far sentire la propria voce anche in lontananza. Per questo – dice bene Bruno Bignami – fu anche, e soprattutto, «parroco d’Italia».

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Don Primo Mazzolari: la vocazione, la Grande Guerra e i dieci anni di ministero a Cicognara

(articolo apparso su Prima Pagina dell'11 gennaio 2015)

Una cosa è certa: don Primo Mazzolari, interventista, antifascista, saggista prolifico e sovente in contrasto con la gerarchia ecclesiastica, non fu un sacerdote qualunque o un semplice «prete da sagre» paragonabile al protagonista di Casa d’altri di Silvio D’Arzo. Fu, al contrario, un personaggio costantemente in tensione con il suo tempo, un uomo d’azione che mai avrebbe derogato ai propri principi morali, un intellettuale colto, dalle vastissime letture e capace di mostrarsi profetico in alcune sue lungimiranti previsioni. Normale, pertanto, che a questa eccezionale e controversa figura siano stati dedicati negli anni numerosi studi, tra i quali in questa sede si segnala il recente volume biografico di Bruno Bignami (Don Primo Mazzolari, parroco d’Italia, EDB 2014), fondamentale per chiunque tenti un primo, documentato approccio con la vita e le opere del celebre parroco di Bozzolo.
Primo Mazzolari nasce a Boschetto, nel Cremonese, il 13 gennaio 1890 da Pierluigi, un contadino piccolo affittuario, e Grazia Bolli, «donna profondamente religiosa, ma non bigotta». Primogenito di cinque figli (dopo di lui nascono infatti Colombina, Giuseppe, Pierina e Giuseppina), all’età di dieci anni Primo deve trasferirsi con la famiglia a Verolanuova, vicino Brescia, per esigenze legate al lavoro del padre. Concluse le elementari, nel 1902 – sorretto da una precoce vocazione – entra nel seminario di Cremona, all’epoca caratterizzato da un eccezionale fervore intellettuale grazie soprattutto all’intraprendenza del vescovo Geremia Bonomelli, che per le sue posizioni conciliatoriste in merito all’annosa «questione romana» e la sensibilità rispetto alle più scottanti problematiche sociali è sospettato di modernismo.
Terminati gli studi, nel 1912 Mazzolari è ordinato sacerdote, dopodiché viene inviato per qualche mese a Spinadesco e, successivamente, presso la parrocchia natale di Boschetto. L’anno seguente è nominato professore di latino al ginnasio del seminario di Cremona, ma già nell’estate del 1914 accetta di recarsi in Svizzera per seguire gli emigranti italiani di ritorno dalla Germania in seguito allo scoppio del primo conflitto mondiale. Di fronte alla possibilità che anche l’Italia entri in guerra, si mostra sin da subito favorevole: il suo è infatti un interventismo convinto, che scaturisce dal duplice desiderio di veder trionfare giustizia e libertà sull’imperialismo austro-tedesco e di consegnare alla patria le contese «terre irredente». Ma ci sono anche altre ragioni che stanno alla base delle convinzioni del giovane don Primo: a suo parere – anche se presto deve ricredersi – la guerra può costituire un momento catartico capace di spazzare via valori e illusioni che allontanano dal Vangelo. «Forseché una folata di vento gagliardo non scoperchia più azzurro in un minuto che un’aura dolce in un intero giorno?», annota significativamente in quei giorni nel suo diario.
Animato da un forte senso del dovere, nel novembre del 1915 Mazzolari è chiamato alle armi e parte per Genova in qualità di soldato semplice: nella città ligure, e in seguito a Cremona, è impiegato nei servizi di sanità militare. Sin da subito – complice anche l’immediata morte in combattimento del fratello Giuseppe – comprende che la guerra non è altro che una disumana carneficina; nondimeno, desideroso di condividere le esperienze atroci dei soldati in prima linea, chiede e ottiene di essere trasferito al fronte. Nel 1918 diviene così cappellano militare dei reparti dell’esercito italiano inviati in Francia, e il suo servizio si protrarrà fino a buona parte del 1920: a guerra finita i reparti cui appartiene sono infatti inviati, con compiti di riorganizzazione, prima nei territori del confine italiano, poi in Alta Slesia, per garantire il regolare svolgimento del plebiscito per l’assegnazione della regione (contesa tra Germania e Polonia), come previsto dai trattati di pace.
Rientrato in Italia, Mazzolari riesce ad ottenere dal nuovo vescovo Giovanni Cazzani che gli venga assegnato un incarico pastorale. È così nominato delegato vescovile nella parrocchia della SS. Trinità a Bozzolo (ottobre 1920) e, poco dopo, parroco a Cicognara, frazione di Viadana (dicembre 1921): entrambi i paesi sono nel Mantovano, ma dipendono dalla diocesi di Cremona.
Nella cura d’anime don Primo presta particolare attenzione alla predicazione – che riesce a rendere accessibile a tutti attraverso un linguaggio semplice, frutto di profonda riflessione –, diventando in breve un vero e proprio maestro dell’arte omiletica. A suo parere, la Chiesa deve andare incontro al popolo e farsi capire penetrando nella vita quotidiana delle persone. Scrive al riguardo Bruno Bignami: «Mazzolari si accorge che, se l’incarnazione e la condivisione della vita della gente sono risorse straordinarie della parrocchia tradizionale, occorre però inventarsi un cambio di marcia. Si tratta di interpretare il vissuto della propria gente, di fare della Chiesa una “cosa viva”, di presentare la comunità cristiana come luogo attraente perché casa di tutti. Da qui alcune proposte pastorali, in ascolto della gente di Cicognara: le feste del grano e dell’uva, il 1° maggio cristiano, il 31 dicembre con la sintesi dell’anno trascorso. […] La pastorale di Mazzolari […] non cala dall’alto un messaggio sopra la testa delle persone, ma parte dal cuore, dal vissuto quotidiano per elevarlo e trasformarlo con l’adesione al messaggio evangelico».
Al centro della vita parrocchiale don Primo pone la questione educativa: la Chiesa deve cioè formare gli uomini, abituandoli ad ascoltare la coscienza, intesa quale voce di Dio che risuona all’interno di ogni cuore. Istituisce pertanto una biblioteca parrocchiale, promuove corsi serali e letture di classici, da Dante al Manzoni. Il suo scopo è abituare i fedeli a ragionare in libertà, in aperto contrasto con la politica del fascismo, volta ad irreggimentare una società ritenuta incapace di camminare con le proprie gambe.
L’avversione al regime da parte di Mazzolari non può essere, ovviamente, manifesta, ma si esprime attraverso una pastorale aperta al dialogo con chi sta «fuori» rispetto alla comunità cristiana, e tramite alcuni gesti dall’alto valore simbolico, come il rifiuto di cantare il Te Deum dopo il fallito attentato a Mussolini da parte di Tito Zaniboni (1925) e la decisione di non votare nel plebiscito del 1929 (che sancisce il trionfo politico del Capo del governo per via dei Patti Lateranensi). Anche nei confronti della conciliazione Mazzolari non nasconde le proprie perplessità. «La Chiesa non ebbe mai tanta libertà in Italia come durante la rottura dei rapporti tra Stato e Chiesa», annota in quei giorni nel suo diario, mettendo ben a fuoco un problema di fondo: ovvero che il Concordato è stato concesso dal regime in cambio della pretesa (implicita, ma chiaramente riconoscibile) di avocare a sé la futura educazione della gioventù. «Cosa guadagna la Chiesa con questa riconosciuta sovranità o indipendenza territoriale? Che alla garanzia morale di tutto il mondo viene sostituita la garanzia di un uomo e di un partito».
Per don Primo, dunque, la Chiesa non ha bisogno «di privilegi, ma di libertà». Ma la libertà, delle istituzioni come dei singoli individui, non è negoziabile con il fascismo, che difatti prontamente reagisce. Mazzolari è più volte “segnalato” dalle autorità per i suoi discorsi e le sue prese di posizione, fino al giorno in cui riceve un supremo avvertimento: la notte del 2 agosto 1931 un gruppetto di fascisti esplode alcuni colpi di pistola contro la finestra della canonica. L’intimidazione è forte, nondimeno don Primo ha la forza di resistere al ricatto: «Non chiederò mai a nessuno di rinunciare ai propri principi; ma pretendo che nessuno mi venga ad imporre tale sacrifizio», scrive al vescovo subito dopo l’accaduto.
Sono gli ultimi giorni di don Mazzolari a Cicognara. Nell’estate del 1932 è infatti nominato arciprete di Bozzolo, dove le due parrocchie di SS. Trinità e di San Pietro sono da poco state unificate. A dispetto di alcuni maligni pettegolezzi – secondo i quali don Primo sarebbe stato allontanato da Cicognara per punizione, a causa dei suoi eccessi –, l’incarico nella nuova parrocchia è molto delicato (Bozzolo è al centro di un territorio frammentato, punto di riferimento di molteplici località rurali dove è facilmente avvertibile un progressivo distacco dalla religione), e richiede quindi notevoli capacità. Si aggiunga inoltre che a Bozzolo Mazzolari è anche vicario foraneo, il che – suggerisce Bignami – testimonia del fatto che la nomina è senz’altro avvenuta «all’interno di un clima di fiducia», e rappresenta a tutti gli effetti una “promozione”.
Il nuovo incarico coincide con l’inizio di una nuova fase nella vita del prete lombardo. Una fase nella quale don Primo accompagnerà l’azione pastorale con un’intensa attività pubblicistica e si aprirà al mondo attraverso una sentita partecipazione alla vita politica. (Continua)

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«Il quinto Francesco»: il dramma di un sovrano costretto all’esilio, la tragedia di una famiglia travolta dalla guerra

(articolo apparso su Prima Pagina del 4 gennaio 2015)

Quella per l’unità d’Italia fu una guerra civile? Tecnicamente, esiste una sola risposta possibile: no. La cosiddetta seconda guerra d’indipendenza fu combattuta dal Piemonte di Vittorio Emanuele II, alleato della Francia di Napoleone III, contro l’Austria, potenza egemone nella penisola; l’obiettivo iniziale era l’espansione a est dello Stato sabaudo, non certo l’unificazione di una nazione italiana che come tale non era mai esistita (e forse, guardando il presente, non esiste neppure oggi…). Poi però le guerre sono imprevedibili: Cavour non pensava di arrivare a Firenze – figurarsi a Napoli, o a Palermo! –, ma alla notizia che era scoppiata una guerra contro gli Asburgo le popolazioni di Toscana ed Emilia furono animate da improvviso fermento, di fatto “consigliando” ai sovrani figli della Restaurazione di abbandonare le rispettive capitali (Leopoldo II di Toscana lasciò Firenze il 27 aprile, seguito – dopo la sconfitta austriaca a Magenta – da Luisa Maria di Parma il 9 giugno e da Francesco V d’Austria-Este l’11 giugno). Ed è qui che la guerra si complica. Con i duchi prudentemente partiti per l’esilio, l’esercito franco-piemontese trionfante e la benevola neutralità dell’Inghilterra, ogni famiglia deve scegliere da che parte stare. Certo, molti si mostrano cauti, cercando di non sbilanciarsi troppo in attesa che si ritorni alla normalità; ma c’è anche chi sente il dovere di prendere una decisione: o col Savoia, o con i vecchi sovrani (il che significa, in concreto, con l’Austria). E allora si deve tornare alla domanda da cui siamo partiti: se accadde che in una stessa famiglia vi furono partigiani dell’uno e dell’altro schieramento, è lecito affermare che alla base del Risorgimento vi fu uno scontro fratricida, una guerra civile?
Nei fatti, il percorso accidentato che portò all’unificazione della penisola fu caratterizzato anche da un aspro conflitto tra italiani, che vide il suo acme in quella che le generazioni postrisorgimentali avrebbero ribattezzato – con evidente faziosità – lotta al brigantaggio. Occorre però essere cauti nell’emettere sentenze: perché il confine tra brigante e patriota (o, in maniera analoga – volendo evocare ricordi più recenti –, tra bandito e partigiano) è labile, e basta davvero poco per passare da una categoria a quella opposta. A ben vedere, è tutta una questione di prospettive: un soldato della Brigata Estense che resta fedele al suo sovrano in esilio è al contempo un patriota modenese e un italiano ribelle nei confronti del Regno sabaudo. Così come Mazzini è un terrorista fino al 1861 (era considerato a tutti gli effetti il Bin Laden dell’epoca), e un padre della patria dopo.
Non è facile dunque giudicare, anche perché il rischio di cadere nell’anacronismo è alto. La storia, certo, ha emesso il suo verdetto, e oggi – che ci piaccia o no – a Modena siamo italiani e non più sudditi del duca. Ma un conto è leggere gli avvenimenti sui libri, altra cosa è viverli, col rischio di prendere posizione dalla parte sbagliata (o giusta ma perdente, secondo i punti di vista), fermo restando che si può essere sconfitti e avere allo stesso tempo un forte senso dell’onore. Ecco allora che forse l’atteggiamento più corretto è quello della comprensione, che prevede che si riconoscano ai vinti i giusti meriti, oltre che una certa dignità. Comprensione che naturalmente non annulla – sia chiaro – il dovere storico di dare un peso alle scelte dei diversi protagonisti (giacché non avrebbe senso ignorare il corso degli eventi e mettere tutti sullo stesso piano), ma che va intesa come sforzo di mantenere un certo salutare distacco rispetto al passato.
La premessa è d’obbligo allorché si voglia prendere in esame un libro come Il quinto Francesco di Roberto Vaccari (Edizioni Artestampa 2014), incentrato sul dramma di una guerra che divide due fratelli (uno filo-duchista, l’altro mazziniano) e costringe all’esilio – che risulterà definitivo – il sovrano estense, tutto sommato un buon governante, moderato e non privo di un certo acume politico. Quello di Vaccari è un romanzo storico che segue due filoni paralleli: Francesco V d’Austria-Este da una parte – con il suo addio a Modena, il sofferto esilio e l’epopea dei soldati della Brigata Estense rimasti coraggiosamente fedeli al loro sovrano decaduto – e la famiglia Melotti dall’altra – un padre ricco commerciante, pragmaticamente propenso a difendere l’ordine costituito, e due figli (Erio e Paolo), rispettivamente ufficiale dell’esercito del duca e volontario sotto le bandiere dei Savoia.
Il lettore è pertanto trasportato all’interno di una tragedia collettiva, che coinvolge gli uomini di potere come le persone di umili origini. Molto ben riuscita è senz’altro la descrizione dello stato d’animo di Melotti, incredulo e soprattutto spaesato di fronte a una guerra piombatagli addosso come un fulmine a ciel sereno, ma allo stesso tempo consapevole che non sempre è possibile sottrarsi alla responsabilità di difendere con coerenza le proprie idee. I suoi due figli, del resto, non sentono ragioni: è l’onore – dicono – che impone loro il sacrificio degli interessi personali. Patrioti e briganti a seconda dei punti di vista, per Melotti Erio e Paolo hanno entrambi valide ragioni: «Non ti dirò di tornare vincitore – raccomanda al secondogenito mazziniano prima della sua partenza per il Piemonte – perché tradirei tuo fratello. Ma chiunque vincerà la sfida, voglio che vi rispettiate. Lui sta facendo il suo dovere forse più di te. Promettimi che lo riabbraccerai non appena il mondo tornerà a girare nel verso giusto». E ancora, riflettendo sulla causa che sta a cuore a Paolo: «Italia, che strano suono pronunciato in casa sua, una parola leggera e insana, un concetto che brucia nei cuori degli idealisti e dei fannulloni. Una terribile speranza che ha già condotto a morte molti uomini. Eppure oggi Melotti sente che quanto va farneticando il figlio può non essere del tutto sbagliato».
I fratelli Melotti si comportano con onore e senso del dovere, anche se la guerra finisce inesorabilmente per dividerli. Erio, in particolare, dà prova di grande coraggio accettando di seguire il suo duca in esilio: per lui conta il giuramento, anche a costo di farsi trascinare nel baratro della sconfitta. La sua diviene la storia degli oltre tremila volontari che andarono a comporre la Brigata Estense, come vennero chiamate le truppe che – unicamente per devozione – abbandonarono Modena l’11 giugno 1859 determinate a condividere fino all’ultimo il destino del loro sovrano. A nulla valsero le lusinghe (come gli avanzamenti di carriera prospettati dal dittatore Farini a quanti avessero disertato per confluire nell’esercito sabaudo) e le intimidazioni dei piemontesi: solo pochi uomini cedettero e accettarono di rientrare in patria, ma, nel complesso, il numero degli effettivi della Brigata aumentò per il costante afflusso di giovani volontari. Identico esito ebbe il decreto di amnistia emanato da Vittorio Emanuele II il 21 settembre 1862, che minacciava la confisca dei beni e la perdita dei diritti civili a quanti non avessero fatto ritorno nel territorio del Regno d’Italia entro sei mesi: in tutto abbandonarono Francesco V solo 12 ufficiali e circa 160 soldati, nonostante il duca, per risparmiare inutili sacrifici ai suoi uomini, avesse autorizzato il congedo.
Lo scioglimento della Brigata avvenne solo su sentenza dell’Imperatore, datata 14 agosto 1863, quando ormai era chiaro che, con il consolidamento dell’unità d’Italia, Francesco V non sarebbe mai rientrato in possesso del suo Stato. A Cartigliano Veneto, il 24 settembre, tutti i soldati furono decorati con una medaglia recante su un lato la scritta Fidelitati et constantiae in adversis. Alcuni di loro – è il caso di Erio – scelsero di prendere servizio nell’esercito imperiale austriaco.
Per il più anziano dei fratelli Melotti la possibilità di rientrare a Modena – retrocessa da capitale di un Stato a secondaria città di provincia – non è dunque contemplata. Neppure Paolo – giunto appositamente a Cartigliano per indurlo a ragionare – riesce a smuoverlo dalle sue ostinate convinzioni: Erio ha scelto la sua strada, e – schiavo com’è del senso dell’onore – congeda bruscamente il fratello. «L’asserzione di Erio è pacata – chiarisce la voce narrante –, forte e malinconica allo stesso tempo. Le parole irrevocabili hanno il segno inequivocabile dell’errore, perché di colpo sembrano confermare quanto Paolo ha supposto: la causa per cui Erio porta la divisa è morta, ed è solo per il grande orgoglio che uomini come lui si isolano. Quando alla ragione si sostituisce l’orgoglio, e questo sopraffà la volontà, non esiste aggio per riprendere il controllo: tutto è deciso dallo spirito caustico della vanità. La vanità impedisce di vedere la giustezza delle proporzioni. Si dovrebbe avere il coraggio di ammetterlo e chinare la testa, invece di lasciarsi andare alla frustrazione, un dolce veleno che scalda le membra e il cuore fino a ubriacare».
Nel romanzo, Erio e Paolo non si vedranno più dopo l’incontro di Cartigliano. Stessa sorte il destino riservò a Francesco V nei confronti di Modena: sorto ufficialmente il Regno d’Italia sulle ceneri degli Stati preunitari, il duca estense dovette rassegnarsi a considerare per sempre perduta la sua vecchia capitale. In esilio, a Vienna, morì il 20 novembre 1875. È sepolto nella Cripta Imperiale della Chiesa dei Cappuccini, mausoleo degli Asburgo, nonché abituale luogo di pellegrinaggio di qualche modenese incuriosito o nostalgico.

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sabato 3 gennaio 2015

I bambini nella Grande Guerra: efficace (e spregiudicato) strumento di propaganda

(articolo apparso su Prima Pagina del 28 dicembre 2014)

Dal momento che la Prima guerra mondiale fu una «guerra totale», essa coinvolse anche l’intero mondo dell’infanzia, sul quale ebbe profonde ripercussioni. Il tema del coinvolgimento dei bambini nella catastrofe del conflitto del 1914-1918 si è affacciato solo di recente nella storiografia (tanto internazionale quanto italiana), ma è oramai diventato – si potrebbe dire – di stretta attualità soprattutto perché nell’uso propagandistico di una certa immagine dell’infanzia e nell’insieme delle strategie pedagogiche approntate dai vari governi per plasmare le giovani generazioni mentre erano in corso le ostilità sono stati individuati gli incunaboli di quella politica totalitaria che si sarebbe consolidata in molti paesi dopo la pace di Versailles. L’argomento, dunque, assume una certa rilevanza, se non altro in considerazione del fatto che molti storici sono ormai concordi nel considerarlo di vitale importanza per comprendere – nello specifico caso italiano – i processi che portarono al consolidamento di un regime, come quello fascista, che godette a lungo di un vasto consenso di massa.
Al riguardo, uno studioso particolarmente attento su questo tema è da anni Antonio Gibelli, specialista della Grande Guerra, autore di un pregevolissimo volume dall’eloquente titolo Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò (Einaudi 2005) e curatore della voce I bambini, facente parte del (fresco di stampa) Dizionario storico della Prima guerra mondiale (Laterza 2014), diretto da Nicola Labanca. Su quest’ultimo contributo, in particolare, ci si soffermerà in questa sede.
L’analisi di Gibelli parte da una considerazione fondamentale, ancorché ovvia: il numero dei bambini italiani che dovettero concretamente fare i conti con l’esperienza della guerra fu elevatissimo. Scrive infatti lo storico: «La guerra fu un’esperienza intensamente vissuta all’interno di famiglie di ogni ceto sociale. Le famiglie italiane censite nel 1911 erano circa 7.700.000 e gli uomini arruolati nell’Esercito poco meno di 6 milioni, sicché, supponendo arbitrariamente che il carico della mobilitazione si distribuisse in maniera uniforme, si può immaginare che in termini statistici 4/5 delle famiglie italiane avesse un reclutato tra i suoi membri». In concreto, ciò significava che pressoché ogni bambino della penisola ebbe un parente (il padre, un fratello, uno zio…) costretto ad abbandonare il proprio nucleo familiare per esigenze di guerra; e che, sempre secondo approssimazioni statistiche, le vedove, calcolando il loro numero nella percentuale di un terzo dei caduti, furono circa 200.000 (il che, contando due figli di media per coppia, voleva dire che 400.000 bambini rimasero orfani a causa del conflitto).
Le conseguenze di questa immane tragedia non furono però soltanto di natura affettiva e personale. La perdita (o anche solo il temporaneo allontanamento) di così tanti uomini sui fronti di guerra fu alla base di un autentico stravolgimento di abitudini consolidate che riguardavano, in particolar modo, l’ambiente di lavoro. Ovunque, nelle campagne, nelle officine, negli uffici, le donne rimpiazzarono gli uomini (per non parlare delle decine di migliaia di minori che furono impiegati nelle industrie dichiarate di interesse bellico), col risultato che furono sottratti tempo e risorse all’educazione dei figli, non di rado – tra l’altro – nati in assenza del padre. Ne conseguì – precisa Gibelli – che «la scuola dell’obbligo venne investita di nuovi compiti quali l’assistenza e la custodia dei figli dei richiamati e la promozione della mobilitazione patriottica dei più piccoli. La cura dell’infanzia venne così assunta per la prima volta come un compito e un dovere nazionale, perciò gli scolari furono organicamente inseriti nel processo di nazionalizzazione delle masse».
La mobilitazione dell’infanzia (chiamata a partecipare emotivamente, non meno che fattivamente, al conflitto) risulta evidente anche solo osservando alcune immagini della propaganda di guerra. Gibelli ne prende in esame due. La prima è tratta dalla copertina della rivista «Numero» del 29 luglio 1917 (significativamente, il periodo era quello dell’arruolamento dei ragazzi nati nel 1899): un’Italia in veste di mamma prosperosa nutre al seno i propri figli, i quali, dopo aver sorbito il latte, si incamminano indossando una divisa militare, diretti verso un simbolico confine identificato come «carsico pendio» (ovvero l’altopiano del Carso, teatro di ripetuti scontri tra l’esercito italiano e quello austro-ungarico). Il disegno – il cui autore è il noto illustratore Augusto Majani – alludeva evidentemente alla giovane età dei richiamati, ma allo stesso tempo voleva indicare nella lotta armata un destino ineluttabile per il vasto mondo dell’infanzia maschile, come a dire che la guerra era una realtà, un dato di fatto, e bisognava pur combatterla con tutte le risorse umane disponibili.
La seconda immagine è una fotografia pubblicitaria delle officine Meccaniche Carminati di Voghera (risalente al 1916-1917), la quale – nota Gibelli – «presentava affiancati una “granata d’acciaio da 152”, affusolato e luccicante proiettile, e un bambino paffuto, candidamente vestito, il capo incoronato da lunghi riccioli biondi che lo facevano assomigliare a un angioletto, la mano sinistra appoggiata alla punta della granata, quasi a suggerirne il paragone con la figura umana. Umanizzazione dell’ordigno e assimilazione del bambino ai codici della distruzione sembrano andare di pari passo». In altre parole, viene meno il diaframma che, secondo logica, dovrebbe separare l’infanzia dal mondo degli adulti: e la ragione è che la guerra totale non conosce privilegi d’età.
All’origine di questa strumentalizzazione di una certa immagine dell’infanzia risiedeva l’evidente volontà di condizionare il mondo degli adulti, a partire dal presupposto che ogni cosa – persino i bambini – potesse fornire utili spunti per la propaganda nazionalista. Nello specifico, il principio della difesa e della protezione dei più giovani – ai quali, attraverso la vittoria militare, bisognava garantire un futuro – fu presentato come la più nobile (e ovvia) delle cause per le quali valesse la pena sacrificare la vita, una sorta di supremo deterrente pensato per scongiurare l’eventualità che sul patriottismo prevalesse l’egoismo. Non stupisce, pertanto, che la propaganda diffondesse immagini di bambini vittime di un nemico barbarico e incapace di umanità: l’infanzia, infatti, doveva apparire in costante pericolo per suscitare forti sentimenti di riprovazione, e niente doveva sembrare più terrificante di un esercito – quale quello austro-ungarico – pressoché completamente disumanizzato.
Nota al riguardo Gibelli: «I toni sono spesso cruenti e trucidi: gli infanti sono ghermiti da soldati che esibiscono un ghigno feroce, esposti alle violenze, abbandonati a se stessi accanto a madri anch’esse violentate e uccise. Le immagini veicolano un sentimento di pietà e un bisogno di protezione che devono sfociare in odio, desiderio di vendetta, impulso alla resistenza. Richiami primordiali, evocazioni di istinti primari di difesa, al cui centro si situano precisamente i più indifesi, ossia i bambini e le bambine, servono a creare i presupposti per l’accettazione del sacrificio prolungato e del lutto».
A fronte di questa crudezza nel presentare i potenziali tragici costi della guerra, occorreva però evitare di diffondere pericolosi allarmismi (giacché un nemico che non fosse altro che un mostro poteva risultare inquietante). Ed ecco allora che alla demonizzazione si accompagnò la ridicolizzazione dell’austriaco, spesso ritratto in pose goffe e impacciate. Si cercava, in sostanza, di edulcorare l’immagine del conflitto, e a tal fine, ancora una volta, tornarono utili i bambini, raffigurati in scene domestiche e rassicuranti accanto ai padri soldati in permesso, in un contesto nel quale la guerra veniva indirettamente “sdrammatizzata”come un dato di fatto universalmente accettato.
Ma i minori non furono soltanto soggetti passivi e strumentali della propaganda. Al contrario, essi presto divennero destinatari di messaggi affidati alla penna di scrittori per l’infanzia (si pensi a Luigi Bertelli, detto Vamba, e al suo «Giornalino della Domenica», ma anche a un classico come Cuore di De Amicis), alla scuola, a periodici quali il «Corriere dei piccoli» e persino al mondo dei giocattoli, cui era affidato il compito di “addomesticare” il conflitto attraverso la riproduzione, banalizzata, degli armamenti e delle attrezzature militari. In tempo di guerra la parola d’ordine rivolta a tutti i ragazzi divenne quella della parsimonia (per evitare gli sprechi), dell’obbedienza agli adulti (metafora del rispetto delle gerarchie nell’esercito), della disponibilità a fare piccoli sacrifici quotidiani (per esempio non consumare le suole delle scarpe giocando alla corda o utilizzare stoffa per vestire le bambole). Al contempo, accanto a moniti e raccomandazioni – pensati per suscitare una sorta di inconscio e indiretto senso di colpa –, si proponevano modelli eroici da seguire, tutti incentrati sul valore militare e sull’altruismo, sull’esempio di personaggi quali la piccola vedetta lombarda o il tamburino sardo.
In sostanza, conclude Gibelli, «si può dire che il mondo dell’infanzia, abbattuto lo steccato che nella tradizione ottocentesca lo voleva separato da quello adulto e protetto dai suoi conflitti, venne invece direttamente interpellato e coinvolto a fare la sua parte, come soggetto sociale autonomo, dotato di sue responsabilità, secondo i principi della guerra totale, che non poteva trascurare alcuna energia né ammettere alcuna defezione». In nuce, erano già quindi ben presenti i cardini della successiva politica fascista, che avrebbe fatto della giovinezza (si pensi tra l’altro al celebre inno del partito) un vero e proprio mito nazionale.

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