(articolo apparso su Prima Pagina del 28 dicembre 2014)
Dal momento che la Prima guerra mondiale fu una «guerra
totale», essa coinvolse anche l’intero mondo dell’infanzia, sul quale ebbe
profonde ripercussioni. Il tema del coinvolgimento dei bambini nella catastrofe
del conflitto del 1914-1918 si è affacciato solo di recente nella storiografia
(tanto internazionale quanto italiana), ma è oramai diventato – si potrebbe
dire – di stretta attualità soprattutto perché nell’uso propagandistico di una
certa immagine dell’infanzia e nell’insieme delle strategie pedagogiche
approntate dai vari governi per plasmare le giovani generazioni mentre erano in
corso le ostilità sono stati individuati gli incunaboli di quella politica
totalitaria che si sarebbe consolidata in molti paesi dopo la pace di
Versailles. L’argomento, dunque, assume una certa rilevanza, se non altro in
considerazione del fatto che molti storici sono ormai concordi nel considerarlo
di vitale importanza per comprendere – nello specifico caso italiano – i
processi che portarono al consolidamento di un regime, come quello fascista,
che godette a lungo di un vasto consenso di massa.
Al riguardo, uno studioso particolarmente attento su
questo tema è da anni Antonio Gibelli, specialista della Grande Guerra, autore
di un pregevolissimo volume dall’eloquente titolo Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò
(Einaudi 2005) e curatore della voce I
bambini, facente parte del (fresco di stampa) Dizionario storico della Prima guerra mondiale (Laterza 2014),
diretto da Nicola Labanca. Su quest’ultimo contributo, in particolare, ci si
soffermerà in questa sede.
L’analisi di Gibelli parte da una considerazione
fondamentale, ancorché ovvia: il numero dei bambini italiani che dovettero
concretamente fare i conti con l’esperienza della guerra fu elevatissimo.
Scrive infatti lo storico: «La guerra fu un’esperienza intensamente vissuta
all’interno di famiglie di ogni ceto sociale. Le famiglie italiane censite nel
1911 erano circa 7.700.000 e gli uomini arruolati nell’Esercito poco meno di 6
milioni, sicché, supponendo arbitrariamente che il carico della mobilitazione si
distribuisse in maniera uniforme, si può immaginare che in termini statistici
4/5 delle famiglie italiane avesse un reclutato tra i suoi membri». In
concreto, ciò significava che pressoché ogni bambino della penisola ebbe un
parente (il padre, un fratello, uno zio…) costretto ad abbandonare il proprio
nucleo familiare per esigenze di guerra; e che, sempre secondo approssimazioni
statistiche, le vedove, calcolando il loro numero nella percentuale di un terzo
dei caduti, furono circa 200.000 (il che, contando due figli di media per
coppia, voleva dire che 400.000 bambini rimasero orfani a causa del conflitto).
Le conseguenze di questa immane tragedia non furono però
soltanto di natura affettiva e personale. La perdita (o anche solo il
temporaneo allontanamento) di così tanti uomini sui fronti di guerra fu alla
base di un autentico stravolgimento di abitudini consolidate che riguardavano,
in particolar modo, l’ambiente di lavoro. Ovunque, nelle campagne, nelle
officine, negli uffici, le donne rimpiazzarono gli uomini (per non parlare
delle decine di migliaia di minori che furono impiegati nelle industrie
dichiarate di interesse bellico), col risultato che furono sottratti tempo e
risorse all’educazione dei figli, non di rado – tra l’altro – nati in assenza
del padre. Ne conseguì – precisa Gibelli – che «la scuola dell’obbligo venne
investita di nuovi compiti quali l’assistenza e la custodia dei figli dei
richiamati e la promozione della mobilitazione patriottica dei più piccoli. La
cura dell’infanzia venne così assunta per la prima volta come un compito e un
dovere nazionale, perciò gli scolari furono organicamente inseriti nel processo
di nazionalizzazione delle masse».
La mobilitazione dell’infanzia (chiamata a partecipare
emotivamente, non meno che fattivamente, al conflitto) risulta evidente anche
solo osservando alcune immagini della propaganda di guerra. Gibelli ne prende
in esame due. La prima è tratta dalla copertina della
rivista «Numero» del 29 luglio 1917 (significativamente, il periodo era quello
dell’arruolamento dei ragazzi nati nel 1899): un’Italia in veste di mamma
prosperosa nutre al seno i propri figli, i quali, dopo aver sorbito il latte,
si incamminano indossando una divisa militare, diretti verso un simbolico
confine identificato come «carsico pendio» (ovvero l’altopiano del Carso,
teatro di ripetuti scontri tra l’esercito italiano e quello austro-ungarico).
Il disegno – il cui autore è il noto illustratore Augusto Majani – alludeva
evidentemente alla giovane età dei richiamati, ma allo stesso tempo voleva
indicare nella lotta armata un destino ineluttabile per il vasto mondo
dell’infanzia maschile, come a dire che la guerra era una realtà, un dato di
fatto, e bisognava pur combatterla con tutte le risorse umane disponibili.
La seconda immagine è una fotografia pubblicitaria delle
officine Meccaniche Carminati di Voghera (risalente al 1916-1917), la quale –
nota Gibelli – «presentava affiancati una “granata d’acciaio da 152”,
affusolato e luccicante proiettile, e un bambino paffuto, candidamente vestito,
il capo incoronato da lunghi riccioli biondi che lo facevano assomigliare a un
angioletto, la mano sinistra appoggiata alla punta della granata, quasi a
suggerirne il paragone con la figura umana. Umanizzazione dell’ordigno e
assimilazione del bambino ai codici della distruzione sembrano andare di pari
passo». In altre parole, viene meno il diaframma che, secondo logica, dovrebbe
separare l’infanzia dal mondo degli adulti: e la ragione è che la guerra totale
non conosce privilegi d’età.
All’origine di questa strumentalizzazione di una certa
immagine dell’infanzia risiedeva l’evidente volontà di condizionare il mondo
degli adulti, a partire dal presupposto che ogni cosa – persino i bambini –
potesse fornire utili spunti per la propaganda nazionalista. Nello specifico,
il principio della difesa e della protezione dei più giovani – ai quali,
attraverso la vittoria militare, bisognava garantire un futuro – fu presentato
come la più nobile (e ovvia) delle cause per le quali valesse la pena
sacrificare la vita, una sorta di supremo deterrente pensato per scongiurare
l’eventualità che sul patriottismo prevalesse l’egoismo. Non stupisce,
pertanto, che la propaganda diffondesse immagini di bambini vittime di un
nemico barbarico e incapace di umanità: l’infanzia, infatti, doveva apparire in
costante pericolo per suscitare forti sentimenti di riprovazione, e niente
doveva sembrare più terrificante di un esercito – quale quello austro-ungarico
– pressoché completamente disumanizzato.
Nota al riguardo Gibelli: «I toni sono spesso cruenti e
trucidi: gli infanti sono ghermiti da soldati che esibiscono un ghigno feroce,
esposti alle violenze, abbandonati a se stessi accanto a madri anch’esse
violentate e uccise. Le immagini veicolano un sentimento di pietà e un bisogno
di protezione che devono sfociare in odio, desiderio di vendetta, impulso alla
resistenza. Richiami primordiali, evocazioni di istinti primari di difesa, al
cui centro si situano precisamente i più indifesi, ossia i bambini e le
bambine, servono a creare i presupposti per l’accettazione del sacrificio
prolungato e del lutto».
A fronte di questa crudezza nel presentare i potenziali
tragici costi della guerra, occorreva però evitare di diffondere pericolosi
allarmismi (giacché un nemico che non fosse altro che un mostro poteva
risultare inquietante). Ed ecco allora che alla demonizzazione si accompagnò la
ridicolizzazione dell’austriaco, spesso ritratto in pose goffe e impacciate. Si
cercava, in sostanza, di edulcorare l’immagine del conflitto, e a tal fine,
ancora una volta, tornarono utili i bambini, raffigurati in scene domestiche e
rassicuranti accanto ai padri soldati in permesso, in un contesto nel quale la
guerra veniva indirettamente “sdrammatizzata”come un dato di fatto
universalmente accettato.
Ma i minori non furono soltanto soggetti passivi e
strumentali della propaganda. Al contrario, essi presto divennero destinatari
di messaggi affidati alla penna di scrittori per l’infanzia (si pensi a Luigi
Bertelli, detto Vamba, e al suo «Giornalino della Domenica», ma anche a un
classico come Cuore di De Amicis),
alla scuola, a periodici quali il «Corriere dei piccoli» e persino al mondo dei
giocattoli, cui era affidato il compito di “addomesticare” il conflitto
attraverso la riproduzione, banalizzata, degli armamenti e delle attrezzature
militari. In tempo di guerra la parola d’ordine rivolta a tutti i ragazzi
divenne quella della parsimonia (per evitare gli sprechi), dell’obbedienza agli
adulti (metafora del rispetto delle gerarchie nell’esercito), della
disponibilità a fare piccoli sacrifici quotidiani (per esempio non consumare le
suole delle scarpe giocando alla corda o utilizzare stoffa per vestire le
bambole). Al contempo, accanto a moniti e raccomandazioni – pensati per
suscitare una sorta di inconscio e indiretto senso di colpa –, si proponevano
modelli eroici da seguire, tutti incentrati sul valore militare e
sull’altruismo, sull’esempio di personaggi quali la piccola vedetta lombarda o
il tamburino sardo.
In sostanza, conclude Gibelli, «si può dire che il mondo
dell’infanzia, abbattuto lo steccato che nella tradizione ottocentesca lo
voleva separato da quello adulto e protetto dai suoi conflitti, venne invece
direttamente interpellato e coinvolto a fare la sua parte, come soggetto
sociale autonomo, dotato di sue responsabilità, secondo i principi della guerra
totale, che non poteva trascurare alcuna energia né ammettere alcuna
defezione». In nuce, erano già quindi
ben presenti i cardini della successiva politica fascista, che avrebbe fatto
della giovinezza (si pensi tra l’altro al celebre inno del partito) un vero e
proprio mito nazionale.
Appuntamento ogni fine settimana su Prima Pagina con la rubrica Cose d'altri tempi
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