(articolo apparso su Prima Pagina del 18 gennaio 2015)
Gli anni Trenta e il trasferimento a Bozzolo coincidono,
per don Primo Mazzolari, con l’inizio di una stagione di prolifica produzione
letteraria, inaugurata da un breve scritto di presentazione ai nuovi fedeli,
intitolato Il mio parroco. Nel
complesso, sono anni duri, con il regime che si consolida, la povertà che
affligge pressoché l’intero territorio entro il quale il sacerdote lombardo si
trova ad operare e l’emergere di aspri contrasti – che caratterizzeranno
l’intero prosieguo della sua esistenza – con la gerarchia ecclesiastica.
Emblematico, oltre che motivo di scandalo, è il caso de La più bella avventura, originale rilettura
della parabola del figliol prodigo incentrata sulla figura del fratello
maggiore. Il volume viene pubblicato nel 1934 dopo aver ricevuto l’imprimatur della curia bresciana, ma è
condannato l’anno seguente dal Sant’Uffizio, che lo giudica «erroneo» e ne
impone il ritiro dal commercio. Il motivo del provvedimento è facilmente
intuibile: per Mazzolari, il prodigo è un peccatore che si mostra comunque
coraggioso nel seguire il proprio istinto, mentre il fratello maggiore è fondamentalmente
un ignavo che segue la regola del quieto vivere. Morale: la Chiesa non può
rimanere inerte e godere degli agi della propria casa, ma deve aprirsi a chi da
essa si è allontanato facendo il possibile per recuperarlo.
Come precisa nella lettera di sottomissione inviata a
Roma, Mazzolari aveva inteso «gettare un ponte ai lontani», ma è frainteso. Al
suo vescovo, monsignor Cazzani, confida di sentirsi come un «vigilato
speciale»; nondimeno obbedisce, pur palesando di non comprendere le ragioni che
stanno all’origine del provvedimento di censura. Ciò che don Primo non può
sapere è che la condanna per La più bella
avventura è la prima di una lunga serie. Nel 1937, allorché Mazzolari
pubblica un articolo intitolato I
cattolici italiani e il comunismo (nel quale l’ideologia marxista è
condannata per le conclusioni materialiste cui necessariamente approda, ma non
per le premesse – povertà, ingiustizia, sfruttamento – che ne costituiscono il
motore), al Sant’Uffizio si sostituisce il regime: lo scritto è infatti
prontamente sequestrato con l’accusa di diffondere una «prosa demagogica e disfattista»,
e don Primo è apertamente minacciato da Roberto Farinacci su «Regime fascista».
Mazzolari non è però per nulla disposto a farsi da parte,
ed anzi guadagna fama in tutta la penisola grazie alla sua instancabile
attività di conferenziere. Negli anni precedenti la Seconda guerra mondiale il
prete cremonese tiene numerosi discorsi, collabora alle principali testate
cattoliche nazionali e contemporaneamente riesce nell’arduo compito di non
perdere di vista il quotidiano impegno pastorale. Nel frattempo gli eventi si
susseguono a ritmo incalzante: guerra d’Etiopia (cui don Primo dà il proprio
sostegno non certo in nome dell’imperialismo fascista, ma poiché si convince
che il conflitto costituisca un’occasione per alleviare le sofferenze del
popolo italiano, ridotto in miseria dall’arroganza delle grandi potenze del
continente europeo), guerra di Spagna e infine il secondo conflitto mondiale.
Mazzolari vi giunge avvolto in un clima di sospetti e calunnie (tanto il
regime, quanto il Sant’Uffizio gli bloccano in questa fase diversi scritti, tra
cui il volume del 1943 Impegno con Cristo,
destinato – scrive Bruno Bignami – a diventare «documento simbolo della Resistenza
per l’invito a vivere la fede come impegno disinteressato per il bene dell’uomo»),
e, dopo il crollo del fascismo, è presto costretto a toccare con mano il dramma
della guerra civile.
Don Primo si prodiga sin da subito per favorire il
movimento partigiano delle Fiamme verdi (di matrice cattolica) e si attiva per
nascondere i perseguitati, tra cui diversi ebrei. L’intraprendenza espone però
il sacerdote cremonese al rischio di una delazione: e infatti puntuali arrivano
i primi avvertimenti, finché Mazzolari (febbraio 1944) non viene arrestato,
successivamente liberato e poi nuovamente sospettato di collaborazionismo,
tanto da essere costretto a nascondersi per sfuggire alla cattura. Vivrà in
clandestinità, praticamente murato vivo in una stanzetta della sua canonica a
Bozzolo, fino ai giorni della Liberazione.
Il dopoguerra si apre per don Primo all’insegna di una
fondamentale parola d’ordine: riconciliazione. Per il prete lombardo, supremo
compito del buon cristiano diviene – in quel drammatico frangente storico –
l’educazione al perdono: ed egli per primo si premura di dare il buon esempio
cercando con ogni mezzo di impedire le vendette politiche e mostrando pietà nei
confronti dei fascisti sui quali ricade il pericolo di una giustizia sommaria.
La sua sfida è quella della fraternità a tutti i costi, che deve esprimersi
attraverso il comune impegno per la ricostruzione – materiale, ma soprattutto
morale – del paese.
È questa, in sostanza, la suprema motivazione che sta
alla base dell’impegno politico di Mazzolari: il forte desiderio di rimboccarsi
le maniche per voltare pagina in un clima di ottimistico rinnovamento
culturale, all’insegna della ritrovata libertà e della democrazia. Don Primo è
convinto che l’umanità debba passare attraverso una «rivoluzione cristiana»,
ovvero mettersi nelle condizioni di aprirsi ai «lontani», ai poveri e agli
emarginati mediante un dialogo incessante imperniato sull’amore del prossimo. Significativamente,
Rivoluzione cristiana è proprio il
titolo di un’opera tra le più belle dell’intera produzione mazzolariana,
portata a termine durante il periodo della clandestinità ma pubblicata postuma
nel 1967. In essa si legge: «Il mondo o lo si costruisce sull’egoismo, o lo si
costruisce sull’amore […]. Se, invece di stimolare e garantire gli impulsi
egoistici dell’uomo, avessimo stimolato e organizzato il suo bisogno d’amore;
se ogni sforzo e ogni nostra invenzione li avessimo posti a servizio dell’amore
per suscitare l’amore, qualcosa di meno belluino ci sarebbe nel mondo».
Mazzolari si impegna in politica proprio per gettare le
basi della rivoluzione cristiana che ha in mente. Da subito si schiera per la
DC, sia nelle elezioni per la Costituente (1946), sia in quelle – decisive per
il futuro dell’Italia – del 1948. La sua, però, non è una scelta di campo che
esclude il dialogo con gli avversari: nei confronti del comunismo – di cui,
come detto, respinge categoricamente il materialismo – l’atteggiamento di don
Primo è sostanzialmente di potenziale apertura, nel senso che egli crede che il
cristianesimo possa costituire, al riguardo, un terreno di incontro, una sorta
di casa (si noti come nel pensiero del prete cremonese torni costantemente la
riflessione sulla parabola del figliol prodigo) che deve accogliere chiunque
intenda farvi ritorno dopo un periodo di smarrimento.
Mazzolari non esita pertanto a scendere in piazza e ad
esporsi in prima persona per tenere comizi durante la campagna elettorale
(risale a quel periodo il pubblico confronto con il conterraneo Guido Miglioli,
ex deputato popolare approdato nelle file del Fronte popolare). Collabora a «Democrazia»
(settimanale della DC lombarda) e nel 1949 fonda il battagliero quindicinale
«Adesso», pensato per sollecitare un profondo rinnovamento della Chiesa, per la
quale – sostiene – è giunta l’ora dell’abbandono del conservatorismo. Il
periodico affronta tutti i temi che più stanno a cuore a don Primo: la difesa
dei poveri, il dialogo con i «lontani», il complicato confronto con i
comunisti, il problema della pace e della bomba atomica in un’epoca di
contrapposizioni globali. In sostanza, tutti argomenti “scomodi” che
inevitabilmente finiscono per allarmare la gerarchia ecclesiastica, la quale
puntualmente torna a farsi sentire: nel 1951 a Mazzolari è fatto divieto di
scrivere e di predicare fuori della sua diocesi senza il permesso dei superiori
(ma don Primo contravverrà alle disposizioni, continuando a pubblicare su
«Adesso» celandosi dietro diversi pseudonimi); tre anni dopo dal Sant’Uffizio
giunge l’ordine di non predicare al di fuori della sua parrocchia, di non
rilasciare più interviste e di astenersi dallo scrivere «su materie sociali»,
con la motivazione che gli articoli e i discorsi del prete lombardo «offrono
elementi di propaganda dei comunisti contro la Chiesa e provocano divisioni nel
campo cattolico».
Nel frattempo, tenendo sempre presente la cura d’anime a
Bozzolo, Mazzolari dà comunque alle stampe diverse opere, tra cui La pieve sull’argine (di carattere
autobiografico, uscito nel 1952), Tu non
uccidere (apparso anonimo nel 1955: si tratta di un testo tra i più
conosciuti della produzione mazzolariana, incentrato sulla correlazione
pace-giustizia) e I preti sanno morire
(opuscolo pubblicato nel 1958 che affronta il delicato tema dei sacerdoti
uccisi durante la Resistenza). Sono gli ultimi anni di don Primo,
caratterizzati da una sostanziale riconciliazione con l’autorità ecclesiastica.
Nel novembre del 1957 è infatti chiamato da monsignor Montini, allora
arcivescovo di Milano, a predicare nel capoluogo lombardo all’interno di
un’iniziativa straordinaria di interventi pastorali, la «Missione al popolo»;
il 5 febbraio 1959, infine, Mazzolari è ricevuto in Vaticano da Giovanni XXIII,
che nell’occasione pronuncia una frase destinata a diventare celebre: «Ecco la
tromba dello Spirito Santo in terra mantovana». Esattamente due mesi dopo, il 5
aprile, don Primo è colpito da emorragia cerebrale durante la predicazione
nella chiesa di San Pietro a Bozzolo: trasportato in ospedale, muore la
domenica successiva, il 12 aprile.
Dalle pagine del suo testamento spirituale si può leggere
una riflessione che pare la sintesi dell’intera vicenda terrena del prete
cremonese: «Nei tempi difficili in cui ebbi la ventura di vivere,
un’appassionata ricerca sui metodi dell’apostolato è sempre una testimonianza
d’amore, anche quando le esperienze […] pare non convengano agli interessi
immediati ella Chiesa». In questo suo voler essere profeta, nell’apertura verso
ciò che va oltre la canonica e la comunità dei fedeli, don Primo Mazzolari
incarna la figura di un sacerdote universale, parroco di un piccolo paese di campagna
ma allo stesso tempo capace di far sentire la propria voce anche in lontananza.
Per questo – dice bene Bruno Bignami – fu anche, e soprattutto, «parroco
d’Italia».
Appuntamento ogni fine settimana su Prima Pagina con la rubrica Cose d'altri tempi
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