(articolo apparso su Prima Pagina del 25 gennaio 2015)
«C’è una cosa che voglio mettere in chiaro: sono convinto
che la persecuzione contro i cristiani oggi sia più forte che nei primi secoli
della Chiesa. E non è una fantasia: lo dicono i numeri».
A usare queste precise parole non è stato, pochi mesi or
sono, un opinionista qualsiasi, ma papa Francesco in persona, in un’intervista rilasciata
al quotidiano di Barcellona «La Vanguardia» e integralmente riprodotta su «L’Osservatore
Romano» lo scorso 13 giugno. Di questo intervento del pontefice, uno stralcio è
citato in apertura di un significativo volume uscito da non molte settimane: Il libro nero della condizione dei cristiani
nel mondo (Mondadori 2014), a cura di Jean-Michel di Falco, Timothy
Radcliffe e Andrea Riccardi. Si tratta di una corposa miscellanea di saggi
(circa una settantina) che raccoglie contributi di numerosi autori di diverse
nazionalità e che intende tracciare un quadro il più possibile esaustivo delle
persecuzioni che i cristiani stanno subendo in tutto il mondo. In questa sede,
a livello introduttivo, prenderemo in esame l’intervento di John Allen (vaticanista
americano del «Boston Globe»), che tenta di far
luce sulle
cause che stanno all’origine di quella che egli considera una vera e propria
«guerra globale».
Le prime riflessioni di Allen prendono spunto da un
recente fatto di cronaca. Nel maggio dello scorso anno, Meriam Yahia Ibrahim
Ishag, ventisettenne sudanese, è stata condannata a morte con l’accusa di
apostasia dall’islam. Figlia di un musulmano che l’ha abbandonata quando era ancora
una bambina, Meriam è stata cresciuta cristianamente dalla madre etiope e ha
successivamente sposato un cristiano. Un tribunale islamico, tuttavia, ha
stabilito che la giovane avrebbe avuto l’obbligo di professare la religione del
padre e che la sua «conversione» (anche se Meriam è sempre stata esclusivamente
cristiana) è da considerarsi illegale in base alla legge della sharia. Scrive Allen: «Le sono stati
concessi tre giorni per abiurare la sua fede, ma si è rifiutata di farlo ed è
stata rinchiusa nel carcere federale femminile di Omdurman, insieme al figlio
Martin di venti mesi. Durante la prigionia ha dato alla luce una bambina. […]
In teoria Meriam avrebbe dovuto essere punita con cento frustate subito dopo il
parto per aver sposato un cristiano, e dopo due anni, in caso di mancata abiura
del cristianesimo, con l’impiccagione per il reato di apostasia».
Fortunatamente il caso ha avuto enorme risonanza
mediatica, e le pressioni internazionali a più livelli hanno infine portato
alla scarcerazione di Meriam. Il punto però, rileva Allen, è che l’episodio non
va considerato un dramma isolato ed eccezionale – cosa che invece molti sono
indotti a credere –, bensì come il prodotto di una «guerra globale contro i
cristiani» che tende inspiegabilmente a passare sotto silenzio.
Alcuni dati statistici aiutano a chiarire la tesi del
vaticanista del «Boston Globe».
– A Baghdad, delle 65 chiese cristiane presenti, circa
40 sono state bombardate almeno una volta dal 2003 (anno di inizio della
cosiddetta Seconda guerra del Golfo). Più in generale, per quanto concerne
l’Iraq, all’epoca della Prima guerra del Golfo (1991) la comunità cristiana era
composta da almeno 1,5 milioni di persone; oggi si calcola che il numero sia
sceso a 500.000 unità (o addirittura a 150.000 secondo stime ritenute più
realistiche).
– Nello Stato di Orissa (India nordorientale), nel 2008
una serie di sommosse è terminata con l’uccisione di 500 cristiani (molti dei
quali massacrati a colpi di machete da fondamentalisti indù), il ferimento di
altre migliaia e la distruzione di 5000 abitazioni e 350 fra chiese e scuole.
– In Birmania (paese a netta maggioranza buddista), i
gruppi etnici chin e karen (di fede cristiana) sono considerati dissidenti dal
regime e tenacemente perseguitati mediante intimidazioni continue, arresti,
condanne a lavori forzati e uccisioni.
– In Nigeria, il movimento islamico Boko Haram ha da anni
preso di mira la popolazione cristiana, ed è ritenuto responsabile della morte
di quasi 3000 persone dal 2009. I suoi seguaci dichiarano apertamente di voler
estirpare la presenza cristiana da alcune aree del paese.
– In Corea del Nord, si stima che circa un quarto della
popolazione cristiana (tra le 20 e le 40.000 persone) sia rinchiuso in campi di
lavoro per essersi rifiutato di aderire al culto di Kim Il-sung. Secondo altri
conteggi, a partire dal 1953 (anno dell’armistizio che consolidò la divisione
della penisola coreana) circa 300.000 cristiani sono spariti nel nulla,
presumibilmente morti.
I dati qui riportati offrono solo una
panoramica parziale delle persecuzioni che i cristiani subiscono in tutto il
mondo. Basti aggiungere, infatti, che secondo alcuni recenti calcoli il totale
dei morti cristiani in un anno si aggira intorno alle 7000 unità e che nel 2012
il Pew Forum on Religion and Public Life di Washington DC ha stimato che i cristiani
sono soggetti a varie forme di vessazione in ben 139 paesi, ovvero in quasi tre
quarti delle società del pianeta.
Resta a questo punto da chiedersi:
perché proprio i cristiani? L’opinione più diffusa tiene conto sostanzialmente
del conflitto sempre più aspro tra fede e secolarismo e del cosiddetto «scontro
di civiltà», che contrappone la cristianità all’islam radicale. Ma occorre
tenere presenti soprattutto quattro fattori fondamentali, che a parere degli
esperti di discriminazione religiosa rivestono un ruolo decisivo:
– Il numero. Molto banalmente, i cristiani sono i più
perseguitati perché decisamente più numerosi dei seguaci di altre religioni
(nel 2014, i cristiani sono circa 2,3 miliardi, seguiti dai musulmani, che
ammontano a 1,7 miliardi).
– Le zone di crescita. Il cristianesimo, infatti, è in
ascesa in molte regioni che si trovano fuori dall’Occidente, nelle quali la sua
espansione è percepita come una minaccia (è il caso, per esempio, della Cina,
dove lo Stato è retto da un partito unico ed è ufficialmente ateo).
– Le etnie. In molte parti del mondo i cristiani
costituiscono allo stesso tempo una minoranza religiosa ed etnica, con tutti i
rischi che questa condizione comporta. Il caso dei gruppi chin e karen in
Birmania è un esempio di come l’emarginazione possa rapidamente tramutarsi in
persecuzione.
– L’identificazione con l’Occidente. È forse la causa
principale. In molti paesi, infatti, l’equazione cristiano = filo-europeo o
filo-americano alimenta l’odio verso una religione considerata ostile in quanto
espressione di una cultura nemica. È il caso, ad esempio, dell’Iraq, dove –
sottolinea Allen – «i fondamentalisti islamici talvolta hanno visto le Chiese
cristiane come teste di ponte per l’influenza “crociata”, sebbene la
cristianità in Iraq, in realtà, abbia radici storiche molto più profonde
dell’islam».
Ultima questione, che resta sempre un po’ in sospeso, è
quella relativa al silenzio che circonda le persecuzioni dei cristiani nel
mondo. Perché se ne parla così poco, soprattutto entro i confini del cosiddetto
Occidente? Allen prende in esame diversi fattori, ma due in particolare
risultano decisivi: l’evidente ostilità nei confronti della religione (essa
stessa considerata portatrice di intolleranza, tanto che molti laici tendono ad
associare al cristianesimo concetti quali repressione – basti pensare
all’Inquisizione o alle Crociate –, conservatorismo e
ottusità) e la diffusa indifferenza rispetto a problematiche che paiono
lontane, troppo distanti emotivamente oppure difficilmente svincolabili
dall’immagine di singoli casi (come quello di Meriam) che inevitabilmente
finiscono per essere considerati eccezionali. «I nuovi
martiri – scrive al riguardo Allen – spesso vanno incontro alla morte in luoghi
come Sri Lanka, Maldive e Sudan, che molti occidentali faticherebbero a
individuare sulla carta geografica […]. La guerra contro i cristiani, inoltre,
è incredibilmente complessa e difficile da interpretare. Non esiste un rimedio
semplice, come lo è stato disinvestire dalle azioni sudafricane durante il
regime dell’apartheid […]. Ogni situazione deve essere analizzata
singolarmente; ciò che potrebbe funzionare per contrastare l’estremismo
buddista in Bangladesh rischierebbe di non essere adatto per lottare contro i
narcoterroristi in Colombia».
Occorre dunque prendere coscienza dell’esistenza di una
vera e propria guerra globale che provoca la morte di migliaia di cristiani
ogni anno. Non è tollerabile, infatti, che una società come la nostra non sia
informata su uno sterminio di queste proporzioni, anche perché è del tutto
evidente – e il caso di Meriam lo dimostra – che il primo passo da compiere per
trovare una soluzione ai problemi è conoscerli. Sapere che in diverse aree del
pianeta ci sono moltissimi martiri che sacrificano la propria
vita in nome della fede vorrà pur dire qualcosa in un mondo che sembra
aver perso ogni valore e pare chiudersi sempre più in se stesso! Si ricordi,
del resto, che la parola martire significa testimone: e i testimoni necessitano
di orecchie disposte ad ascoltare.
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica Cose d'altri tempi
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