(articolo apparso su Prima Pagina del 27 dicembre 2014)
È opinione piuttosto diffusa che la Grande Guerra abbia
aperto le porte dell’emancipazione all’universo femminile italiano, ma va detto
che in sede di analisi storiografica questa immagine del primo conflitto
mondiale è andata progressivamente sbiadendosi. Se però parlare di autentica
emancipazione pare, in effetti, una forzatura, è pur sempre lecito attribuire
alla Grande Guerra un ruolo decisivo nel favorire un certo protagonismo
femminile sulla scena politico-sociale del paese. Scrive al riguardo Beatrice
Pisa, autrice del breve saggio Italiane
in tempo di guerra (facente parte della miscellanea ‒ a cura di Daniele
Menozzi, Giovanna Procacci e Simonetta Soldani ‒ dal titolo Un paese in guerra. La mobilitazione civile
in Italia (1914-1918), Edizioni Unicopli 2010): «Molta impressione desta la
presenza di donne nelle officine di guerra, alla guida di tram, nelle campagne,
nonché nelle vesti di postine, telegrafiste, tagliaboschi, mentre la capacità
femminile di fare fronte alle nuove responsabilità all’interno delle famiglie
prive di presenze maschili desta ammirazione, stupore, ma anche allarme e preoccupazione».
Già prima dello scoppio del conflitto, in particolare a
Milano e a Roma, alcuni gruppi di donne facenti capo al cosiddetto
associazionismo assistenziale si organizzano per far fronte all’eventualità di
una guerra che pare imminente. In breve, in vari centri sorgono comitati
finalizzati alle gestione dei soccorsi e del lavoro da compiere in sostituzione
degli uomini, partiti per il fronte, mentre – più la guerra appare probabile – inizia
a diffondersi un sincero sentimento patriottico. Il fenomeno della crescente
partecipazione femminile alla vita della comunità interessa in maniera più
vivace il Nord e il Centro, mentre è tardivo ed episodico nelle aree
meridionali della penisola, dove ben più radicati sono pregiudizi e proibizioni.
Scoppiata la guerra – sottolinea la Pisa –, le iniziative
si moltiplicano: «Si riutilizzano rifiuti, si riorganizzano avanzi: si
rabbercia, si ricicla, si riutilizza tutto, dai vestiti vecchi, ai brandelli di
tappeti, alle stuoie [...]. Ogni cosa serve a confezionare capi per il freddo
[...]. Sono le donne che per prime propongono e organizzano posti di ristoro
alle stazioni, assistenza agli emigranti e ai profughi che affluiscono subito
in grande quantità nel Paese».
Non sempre, però, le reazioni dell’opinione pubblica sono
positive, più che altro perché il fenomeno è troppo nuovo per non suscitare
sconcerto nella società dell’epoca. Sotto accusa finisce quello che prontamente
viene giudicato un attivismo eccessivo del mondo femminile, che rischia – in
parole povere – di far uscire troppo spesso di casa la donna, con conseguente
abbandono delle pratiche domestiche e familiari. Nemmeno le impiegate nel ramo
assistenziale riescono a schivare i giudizi malevoli di chi ritiene che esse
facciano un uso strumentale della guerra allo scopo di mettersi in mostra, con
evidenti secondi fini (su tutti, quello di voler avvantaggiarsi nella battaglia
per la parità dei sessi). Quanto poi ai numerosi comitati sorti in tutta la
penisola, va detto che essi presto si convincono di rappresentare – per quanto
attiene alle politiche sociali – le forze più moderne e avanzate della nazione,
spingendosi fino a criticare apertamente l’operato del governo riguardo a temi
delicati quali la gestione dell’emergenza-profughi e l’interessamento verso i
prigionieri italiani. Il che, va da sé, certo non facilita l’accettazione del
nuovo protagonismo femminile.
La nascita delle associazioni favorisce inoltre
l’elaborazione di proposte e rivendicazioni politiche, in parte solo abbozzate
e destinate ad essere riprese nel dopoguerra, in parte invece chiaramente
studiate per incidere sul presente. Tra queste, quella più significativa è
sicuramente la battaglia interventista, che per prime vede coinvolte alcune
donne della capitale, riunite – a partire dal 20 dicembre 1914 – in un Comitato nazionale femminile per
l’intervento e aventi come punto di riferimento la rivista «Unità
italiana», di stampo mazziniano. Il gruppo resta compatto fino all’ingresso
dell’Italia in guerra, poi si spacca a causa dell’estremismo di alcune
suffragiste, che fondano una seconda rivista («L’Unità d’Italia») e assumono
una marcata connotazione ideologica antitedesca, dal sapore neanche troppo
velatamente razzista.
L’aspetto più interessante di questa esperienza è il
legame tra interventismo e suffragismo, intesi quasi come le due facce di una
stessa medaglia. Scrive infatti la Pisa: «Scegliendo di definirsi interventiste
proprio in quanto femministe, in quanto donne che fanno politica, queste
attiviste spezzano il legame tradizionale fra pacifismo e suffragismo e
avanzano dure critiche verso quelle che si dichiarano contrarie alla guerra.
Esse condannano il vago umanitarismo che confonde assalitori e assaliti che,
notano, finisce per essere una dimostrazione di ‘inettitudine’ politica capace
di squalificare per lunghissimi anni le donne come amministratrici della cosa
pubblica. Il suffragismo italiano, ormai interventista e antitedesco per la sua
quasi totalità, reputa coerente con il suo taglio altamente politico non
dimenticare la dimensione rivendicazionista femminista».
Al di là dell’associazionismo, anche le esponenti più
colte dell’universo femminile partecipano al dramma emotivo della Grande
Guerra, influenzate da un nazionalismo che con gli anni si fa sempre più
contagioso. Molto attive sono per esempio le maestre (che si dedicano
alacremente alla propaganda patriottica), numerose donne appartenenti alla
categoria delle intellettuali (saggiste, poetesse, romanziere, giornaliste, le
quali spesso si servono delle loro riviste per sostenere il paese in guerra) e
persino alcune socialiste (si pensi ad Anna Kuliscioff e Margherita Sarfatti),
che finiscono per abbandonare il neutralismo del «né aderire, né sabotare».
Con tutta evidenza, si tratta di un protagonismo inedito
e sconvolgente per l’arretrata società italiana dell’epoca, certo non abituata
e non sempre disposta ad accettare un mondo nel quale le donne si occupano di
politica e svolgono mansioni tradizionalmente maschili. Assai più che negli
altri paesi, infatti, gli industriali italiani sono riluttanti ad assumere
manodopera femminile, tanto che nel 1918, al momento del massimo sforzo per la
produzione bellica, le donne nelle fabbriche non superano le 200.000 unità (a
fronte delle 600.000 che lavorano a domicilio). E poco importa, al riguardo,
che la propaganda si sforzi di dipingere l’impiego femminile come prova suprema
di coesione nazionale: una classe operaia composta anche di donne è per molti
inquietante, al punto che rapidamente si diffondono vivaci polemiche sulle
«operaie dalle calze di seta» e sulle impiegate che indossano abiti provocanti.
Di fatto, le donne si fanno notare un po’ dappertutto.
Nelle campagne (dove suppliscono come possono alla carenza di forza lavoro e si
segnalano per la partecipazione a dimostrazioni contro il caro vita), nel vasto
settore della produzione del vestiario militare (supportato dalla moltiplicazione
dei corsi di cucito), nelle industrie di guerra (al riguardo – sottolinea la
Pisa – l’immagine «di mani femminili che toccano e producono strumenti di morte
fa molta impressione»), negli uffici: ovunque si registra un’impennata della
presenza femminile. Tra i diversi ambiti di lavoro, il settore impiegatizio
sarebbe quello in grado di offrire, potenzialmente, le migliori prospettive di
emancipazione. Ma l’occasione, nota la Pisa, viene sostanzialmente persa:
«Poche si impegnano contro la mentalità diffusa che vede le impiegate negli
uffici solo come delle sostitute per il tempo di guerra, delle ‘donne
surrogato’ che, a parità di lavoro e di orario, prendono uno stipendio
nettamente inferiore a quello maschile, con la scusa che esso serve solo per
“spese superflue di vanità personale”».
Eppure, al di là di queste considerazioni, va precisato
che le donne che si associano in tempo di guerra sono consapevoli che il
conflitto rappresenta una preziosa opportunità. A prescindere da alcune frange
che subiscono l’attrazione del nazionalismo più estremo, buona parte del mondo
femminile si astiene da ogni valutazione critica sulle cause della guerra,
avendo come obiettivo quello di sfruttare l’occasione che si presenta per dare
un contributo nella società e far sentire la propria presenza in senso
patriottico. Prevale cioè, specialmente nelle prime fasi del conflitto, la
logica ‘del fare’, non scevra peraltro di un certo nazionalismo destinato a
farsi sempre più intenso negli ultimi anni di guerra. In sostanza, più il
conflitto diviene aspro, più l’universo femminile perde di vista le ragioni
profonde che erano state alla base del primo associazionismo, finendo per assecondare
una certa logica secondo la quale, in nome del comune sforzo bellico, l’inedito
protagonismo sociale delle donne non è altro che una temporanea necessità
contingente. Come infatti sottolinea la Pisa, «nel momento in cui le donne, per
sostenere il Paese durante lo sforzo bellico, si concentrano sull’esaltazione
dell’eroismo, della morte in battaglia e partecipano alla lacerante lotta
contro il nemico interno, allora esse stesse finiscono per tradire e cancellare
la dimensione civile e quella femminile». Il che «sembra dare ragione a quella
parte della storiografia che ha concluso che le vicende belliche rinverdiscono
il mito della donna salvifica e consolatrice, da una parte, e dell’uomo
guerriero dall’altra, molto più di quanto non offrano possibilità di
realizzazione personale alle donne e di affermazione come genere».
Appuntamento ogni fine settimana su Prima Pagina con la rubrica Cose d'altri tempi
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