lunedì 22 dicembre 2014

Il mito di Mussolini: l’apogeo e il crollo

(articolo apparso su Prima Pagina del 21 dicembre 2014)

Il fascismo al potere consolidò una versione rinforzata del mito del duce, facendo leva su nuove componenti, ma anche su quegli elementi che erano stati definiti da un certo immaginario collettivo durante la militanza socialista di Mussolini (idolatrato quale simbolo e incarnazione dell’ideale rivoluzionario) e nel corso della successiva fase post-interventista (quando ad essere coinvolte erano state soprattutto alcune frange di intellettuali, che avevano riconosciuto nel figlio del fabbro di Predappio l’uomo nuovo capace di assumere il ruolo di rinnovatore nazionale contro il vecchio e parassitario sistema politico giolittiano).
Volendo riassumere le principali caratteristiche che connotarono il mito mussoliniano negli anni del regime, potrebbe essere sufficiente asserire che il duce, senz’altro fino al 1940, fu considerato essenzialmente un capo carismatico, un leader infallibile e un’intelligenza superiore. Gli italiani infatti furono così presi dal culto di Mussolini che spesso confondevano questo con il fascismo vero e proprio, tanto che le forme di malcontento che trapelavano durante il Ventennio erano spesso rivolte contro i gerarchi e gli apparati di regime, mai contro il duce. Come scrisse un informatore della PS da Firenze nel 1939, «il partito mussoliniano costituisce l’autentica maggioranza in Italia e si può ben dire che per quanto il Duce stesso persista a parlare di Fascismo, l’italiano continua a comprendere sotto questa denominazione soltanto ed esclusivamente “Mussolini”. Per la stragrande maggioranza, un Fascismo senza Mussolini è incomprensibile, mentre sarebbe magari comprensibile un Mussolini senza Fascismo».
Una componente decisiva nel determinare la popolarità del mito mussoliniano fu senza dubbio il successo (reale o presunto poco importa) che accompagnò la politica fascista fino all’entrata in guerra. «Avvenimenti come la Conciliazione – sottolinea al riguardo Emilio Gentile nel suo Fascismo. Storia e interpretazione –, l’illusione che il regime fascista avesse posto riparo a mali ben più gravi della dittatura, la convinzione ingenua che Mussolini sapesse dove andare e dove guidare il paese, un certo orgoglio patriottico che si infiammò soprattutto all’epoca della guerra d’Etiopia, l’immagine di un duce moderato e saggio, salvatore della pace all’epoca di Monaco, furono alcuni fattori che consentirono al mito mussoliniano di crescere». In altre parole, che fosse per i risultati concreti che conseguì, o per l’efficacia di una propaganda che andò sempre meglio strutturandosi nel corso degli anni, Mussolini pareva una sorta di novello re Mida capace di trasformare in oro tutto ciò che toccava. Il che giustificava, da parte di un intero popolo, la scelta (che in realtà per molti scelta non era…) di rinunciare a una porzione consistente della propria libertà, in cambio della garanzia di avere un uomo pressoché infallibile al governo.
Specialmente nel corso degli anni Trenta, Mussolini divenne oggetto di un vero e proprio culto religioso. Le giovani generazioni, in particolare, lo idolatravano, plagiate da una propaganda che riuscì nell’impresa di elevare il duce su un piedistallo di fiducia incondizionata. Paradossalmente, persino le critiche rivolte di volta in volta al regime risparmiavano Mussolini, giacché egli per sua stessa natura era incarnazione di un ideale di giustizia capace di prevalere finanche sui mali inflitti dal fascismo. Il duce, in definitiva, era il supremo protettore degli interessi del popolo, di un popolo che, come si evince dalle parole scritte nel 1934 da un giovane fascista, era disposto a divinizzarlo: «Tu sei il nostro padre, Tu ci insegni a vivere, Tu sei la stella che illumina il nostro cammino. Tu ci insegni a lavorare, a combattere, a morire con orgoglio e soddisfazione; finché tu vivrai non avremo paura di nessuno. Tutti dovranno piegarsi alla Tua volontà. Tu non hai mai sbagliato. Tu hai sempre ragione».
Ma il mito di Mussolini non fu solo questo. Se infatti per la gente comune il duce era come un grande padre della patria, per i fascisti egli era prima di tutto il capo di un movimento politico, il fondatore di un partito, di un regime e di un’idea. A differenza di quella popolare, questa versione del mito tardò ad affermarsi: per molti fascisti della prima ora, infatti, almeno fino al 1921 il vero duce fu D’Annunzio, l’eroico poeta armato cui si doveva in gran parte la scelta interventista del 1915. Mussolini era sì rispettato e stimato, ma la sua leadership non venne immediatamente (e universalmente) riconosciuta, soprattutto dagli esponenti più in vista dello squadrismo. In concreto, furono proprio le spaccature e le divisioni interne al movimento fascista a favorire l’ascesa di Mussolini e del suo mito, il quale veniva esaltato quale unico punto di riferimento capace di mettere tutti d’accordo. «Nello scontro delle correnti – rileva Gentile –, tutti finivano per fare appello a Mussolini [...]. Il mito del ‘duce’ si affermò come risultante dello scontro. Anche negli anni del regime, il mussolinismo poté giovarsi delle rivalità politiche o personali fra i gerarchi: il ‘duce’ aveva il ruolo supremo del mediatore e del giudice, era l’unica fonte dell’autorità».
Solo dopo avere superato le iniziali contestazioni il mito del duce si affermò e si impose universalmente. Il principale fondatore del culto fu Augusto Turati (segretario del PNF dal 1926 al 1930), il quale per primo pianificò la progressiva divinizzazione di Mussolini, inteso quale «solo pilota cui nessuna ciurma può sostituirsi». Passo dopo passo, emerse quella che potrebbe definirsi la “necessità” del duce, imprescindibile simbolo di coesione di un movimento altrimenti frammentato e insostituibile garante dei supremi interessi della nazione. In altre parole, Mussolini divenne in tutto e per tutto il capo, e il suo mito si connotò sempre più come indispensabile strumento pedagogico per alimentare la fede nella religione fascista. Concetto, quest’ultimo, che è bene espresso da queste parole estratte dal Breviario dell’Avanguardista del 1928: «Tu non sei, Avanguardista, se non perché prima di te, con te e dopo di te, Egli e soltanto Egli è».
Emilio Gentile sottolinea che negli anni del consenso al regime il mito del duce si dilatò a tal punto che «il numero degli attributi conferiti a Mussolini fu probabilmente superiore a quello degli attributi conferiti ad altri ‘grandi uomini’ in ogni epoca: egli era la somma e la sintesi d’ogni tipo di ‘grandezza’ [...]; egli era anche nella schiera dei profeti, novello Cristo, “delegato di Dio”, punto di congiunzione fra il divino e l’umano». Anche tra i gerarchi, abbandonate le incomprensioni del primo fascismo, il culto di Mussolini divenne un’autentica ossessione, a prescindere dall’opportunismo che inevitabilmente fu alla base di molte manifestazioni di piaggeria. In molti scritti privati, non destinati quindi direttamente al duce o al pubblico, Mussolini appare a tutti gli effetti una personalità straordinaria, un uomo dal carisma irresistibile, addirittura – come scrisse Giovanni Giuriati, che fu segretario del PNF nel biennio 1930-31 – «il ‘Veltro’ vaticinato da Dante».
Anche quando la guerra minò le basi del suo mito e della sua credibilità, Mussolini continuò ad ossessionare molti italiani che in lui avevano riconosciuto una ragione di vita. Scrisse per esempio Giuseppe Bottai nel 1941: «Qualche cosa, che più di vent’anni mi batteva nel cuore s’arresta di colpo: un Amore, una fedeltà, una dedizione. Ora, sono solo, senza il mio Capo [...]. Un Capo è tutto nella vita d’un uomo: origine e fine, causa e scopo, punto di partenza e traguardo; se cade, dentro si fa una solitudine atroce». Parole, queste del ministro dell’Educazione nazionale, che testimoniano della profonda crisi di un uomo che, nelle drammatiche difficoltà di un conflitto che stava sbriciolando ogni certezza, vedeva crollare molto più di un mito, ovvero il senso stesso di un’intera esistenza.
Lo stesso Mussolini, giunto all’acme della propria parabola politica, divenne prigioniero del suo stesso mito. «Egli – nota Gentile – si immedesimò con il proprio mito, facendo di sé un’astrazione, e anche fisicamente si atteggiò a immagine di una figura sovrumana nella banalità del presente, dove individui e popoli potevano solo ammirare la sua ‘grandezza’ ma non potevano percepire la dimensione della sua impenetrabile natura». Il risultato di questa iperplasia del culto di sé fu l’attribuzione ai soli italiani (indegni e mediocri) della responsabilità di avere portato il paese alla sconfitta militare: «È la materia che mi manca. Anche Michelangelo aveva bisogno del marmo per fare le sue statue. Se avesse avuto soltanto dell’argilla, sarebbe stato soltanto un ceramista».
Mussolini, in altre parole, si credeva investito della missione di guidare il popolo italiano, ma era animato da un profondo disprezzo verso gli uomini a sua disposizione, del tutto inadeguati – così credeva – rispetto alla grandezza della sua persona. La frustrazione che lo assillò negli ultimi anni, la convinzione, cioè, che agli italiani mancassero le qualità eroiche necessarie a vincere un epocale scontro di civiltà, fu per il duce stesso le vera sentenza di morte del suo mito. Venuto meno il successo (ingrediente fondamentale di ogni costruzione propagandistica), Mussolini tornò ad essere semplicemente un uomo.

Appuntamento ogni fine settimana su Prima Pagina con la rubrica Cose d'altri tempi

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