(articolo apparso su Prima Pagina del 21 dicembre 2014)
Il fascismo al potere consolidò una versione rinforzata
del mito del duce, facendo leva su nuove componenti, ma anche su quegli
elementi che erano stati definiti da un certo immaginario collettivo durante la
militanza socialista di Mussolini (idolatrato quale simbolo e incarnazione dell’ideale
rivoluzionario) e nel corso della successiva fase post-interventista (quando ad
essere coinvolte erano state soprattutto alcune frange di intellettuali, che
avevano riconosciuto nel figlio del fabbro di Predappio l’uomo nuovo capace di
assumere il ruolo di rinnovatore nazionale contro il vecchio e parassitario
sistema politico giolittiano).
Volendo riassumere le principali caratteristiche che
connotarono il mito mussoliniano negli anni del regime, potrebbe essere
sufficiente asserire che il duce, senz’altro fino al 1940, fu considerato
essenzialmente un capo carismatico, un leader infallibile e un’intelligenza
superiore. Gli italiani infatti furono così presi dal culto di Mussolini che
spesso confondevano questo con il fascismo vero e proprio, tanto che le forme
di malcontento che trapelavano durante il Ventennio erano spesso rivolte contro
i gerarchi e gli apparati di regime, mai contro il duce. Come scrisse un
informatore della PS da Firenze nel 1939, «il partito mussoliniano costituisce
l’autentica maggioranza in Italia e si può ben dire che per quanto il Duce
stesso persista a parlare di Fascismo, l’italiano continua a comprendere sotto questa
denominazione soltanto ed esclusivamente “Mussolini”. Per la stragrande
maggioranza, un Fascismo senza Mussolini è incomprensibile, mentre sarebbe
magari comprensibile un Mussolini senza Fascismo».
Una componente decisiva nel determinare la popolarità del
mito mussoliniano fu senza dubbio il successo (reale o presunto poco importa)
che accompagnò la politica fascista fino all’entrata in guerra. «Avvenimenti
come la Conciliazione – sottolinea al riguardo Emilio Gentile nel suo Fascismo. Storia e interpretazione –, l’illusione
che il regime fascista avesse posto riparo a mali ben più gravi della
dittatura, la convinzione ingenua che Mussolini sapesse dove andare e dove
guidare il paese, un certo orgoglio patriottico che si infiammò soprattutto all’epoca
della guerra d’Etiopia, l’immagine di un duce moderato e saggio, salvatore
della pace all’epoca di Monaco, furono alcuni fattori che consentirono al mito
mussoliniano di crescere». In altre parole, che fosse per i risultati concreti
che conseguì, o per l’efficacia di una propaganda che andò sempre meglio
strutturandosi nel corso degli anni, Mussolini pareva una sorta di novello re
Mida capace di trasformare in oro tutto ciò che toccava. Il che giustificava,
da parte di un intero popolo, la scelta (che in realtà per molti scelta non
era…) di rinunciare a una porzione consistente della propria libertà, in cambio
della garanzia di avere un uomo pressoché infallibile al governo.
Specialmente nel corso degli anni
Trenta, Mussolini divenne oggetto di un vero e proprio culto religioso. Le
giovani generazioni, in particolare, lo idolatravano, plagiate da una
propaganda che riuscì nell’impresa di elevare il duce su un piedistallo di
fiducia incondizionata. Paradossalmente, persino le critiche rivolte di volta
in volta al regime risparmiavano Mussolini, giacché egli per sua stessa natura
era incarnazione di un ideale di giustizia capace di prevalere finanche sui
mali inflitti dal fascismo. Il duce, in definitiva, era il supremo protettore
degli interessi del popolo, di un popolo che, come si evince dalle parole
scritte nel 1934 da un giovane fascista, era disposto a divinizzarlo: «Tu sei
il nostro padre, Tu ci insegni a vivere, Tu sei la stella che illumina il
nostro cammino. Tu ci insegni a lavorare, a combattere, a morire con orgoglio e
soddisfazione; finché tu vivrai non avremo paura di nessuno. Tutti dovranno
piegarsi alla Tua volontà. Tu non hai mai sbagliato. Tu hai sempre ragione».
Ma il mito di Mussolini non fu solo
questo. Se infatti per la gente comune il duce era come un grande padre della
patria, per i fascisti egli era prima di tutto il capo di un movimento
politico, il fondatore di un partito, di un regime e di un’idea. A differenza
di quella popolare, questa versione del mito tardò ad affermarsi: per molti fascisti
della prima ora, infatti, almeno fino al 1921 il vero duce fu D’Annunzio, l’eroico
poeta armato cui si doveva in gran parte la scelta interventista del 1915.
Mussolini era sì rispettato e stimato, ma la sua leadership non venne
immediatamente (e universalmente) riconosciuta, soprattutto dagli esponenti più
in vista dello squadrismo. In concreto, furono proprio le spaccature e le
divisioni interne al movimento fascista a favorire l’ascesa di Mussolini e del
suo mito, il quale veniva esaltato quale unico punto di riferimento capace di
mettere tutti d’accordo. «Nello scontro delle correnti – rileva Gentile –,
tutti finivano per fare appello a Mussolini [...]. Il mito del ‘duce’ si
affermò come risultante dello scontro. Anche negli anni del regime, il mussolinismo
poté giovarsi delle rivalità politiche o personali fra i gerarchi: il ‘duce’
aveva il ruolo supremo del mediatore e del giudice, era l’unica fonte dell’autorità».
Solo dopo avere superato le iniziali
contestazioni il mito del duce si affermò e si impose universalmente. Il
principale fondatore del culto fu Augusto Turati (segretario del PNF dal 1926
al 1930), il quale per primo pianificò la progressiva divinizzazione di
Mussolini, inteso quale «solo pilota cui nessuna ciurma può sostituirsi». Passo
dopo passo, emerse quella che potrebbe definirsi la “necessità” del duce,
imprescindibile simbolo di coesione di un movimento altrimenti frammentato e
insostituibile garante dei supremi interessi della nazione. In altre parole,
Mussolini divenne in tutto e per tutto il capo, e il suo mito si connotò sempre
più come indispensabile strumento pedagogico per alimentare la fede nella
religione fascista. Concetto, quest’ultimo, che è bene espresso da queste
parole estratte dal Breviario dell’Avanguardista
del 1928: «Tu non sei, Avanguardista, se non perché prima di te, con te e dopo
di te, Egli e soltanto Egli è».
Emilio Gentile sottolinea che negli
anni del consenso al regime il mito del duce si dilatò a tal punto che «il
numero degli attributi conferiti a Mussolini fu probabilmente superiore a
quello degli attributi conferiti ad altri ‘grandi uomini’ in ogni epoca: egli
era la somma e la sintesi d’ogni tipo di ‘grandezza’ [...]; egli era anche
nella schiera dei profeti, novello Cristo, “delegato di Dio”, punto di
congiunzione fra il divino e l’umano». Anche tra i gerarchi, abbandonate le
incomprensioni del primo fascismo, il culto di Mussolini divenne un’autentica
ossessione, a prescindere dall’opportunismo che inevitabilmente fu alla base di
molte manifestazioni di piaggeria. In molti scritti privati, non destinati
quindi direttamente al duce o al pubblico, Mussolini appare a tutti gli effetti
una personalità straordinaria, un uomo dal carisma irresistibile, addirittura –
come scrisse Giovanni Giuriati, che fu segretario del PNF nel biennio 1930-31 –
«il ‘Veltro’ vaticinato da Dante».
Anche quando la guerra minò le basi
del suo mito e della sua credibilità, Mussolini continuò ad ossessionare molti
italiani che in lui avevano riconosciuto una ragione di vita. Scrisse per
esempio Giuseppe Bottai nel 1941: «Qualche cosa, che più di vent’anni mi
batteva nel cuore s’arresta di colpo: un Amore, una fedeltà, una dedizione.
Ora, sono solo, senza il mio Capo [...]. Un Capo è tutto nella vita d’un uomo:
origine e fine, causa e scopo, punto di partenza e traguardo; se cade, dentro
si fa una solitudine atroce». Parole, queste del ministro dell’Educazione
nazionale, che testimoniano della profonda crisi di un uomo che, nelle drammatiche
difficoltà di un conflitto che stava sbriciolando ogni certezza, vedeva
crollare molto più di un mito, ovvero il senso stesso di un’intera esistenza.
Lo stesso Mussolini, giunto all’acme
della propria parabola politica, divenne prigioniero del suo stesso mito. «Egli
– nota Gentile – si immedesimò con il proprio mito, facendo di sé un’astrazione,
e anche fisicamente si atteggiò a immagine di una figura sovrumana nella
banalità del presente, dove individui e popoli potevano solo ammirare la sua ‘grandezza’
ma non potevano percepire la dimensione della sua impenetrabile natura». Il
risultato di questa iperplasia del culto di sé fu l’attribuzione ai soli
italiani (indegni e mediocri) della responsabilità di avere portato il paese
alla sconfitta militare: «È la materia che mi manca. Anche Michelangelo aveva
bisogno del marmo per fare le sue statue. Se avesse avuto soltanto dell’argilla,
sarebbe stato soltanto un ceramista».
Mussolini, in altre parole, si
credeva investito della missione di guidare il popolo italiano, ma era animato
da un profondo disprezzo verso gli uomini a sua disposizione, del tutto
inadeguati – così credeva – rispetto alla grandezza della sua persona. La frustrazione
che lo assillò negli ultimi anni, la convinzione, cioè, che agli italiani
mancassero le qualità eroiche necessarie a vincere un epocale scontro di
civiltà, fu per il duce stesso le vera sentenza di morte del suo mito. Venuto meno
il successo (ingrediente fondamentale di ogni costruzione propagandistica),
Mussolini tornò ad essere semplicemente un uomo.
Appuntamento ogni fine settimana su Prima Pagina con la rubrica Cose d'altri tempi
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