(articolo apparso su Prima Pagina del 7 dicembre 2014)
Ercole III, ultimo duca estense e predecessore di
Francesco IV, che inaugurò la dinastia degli Austria-Este, è spesso ricordato
essenzialmente per una curiosità: era un uomo bonario, allegro, per certi versi
un po’ comico per via del pronunciato naso aquilino, e, soprattutto, amava
mescolarsi con la gente comune ed esprimersi in dialetto. Ercole era cioè una
di quelle persone che oggi non esiteremmo a definire simpatiche, forse
addirittura accattivanti, anche se – come è stato scritto da Luciano Chiappini
– la sua figura sembrava «impersonare, nel profilo fin troppo mite, modesto,
bonaccione, il tramonto consapevole e rassegnato della dinastia».
Alla luce di queste considerazioni, c’è poco da stupirsi
che al sovrano estense erede del grande Francesco III si sia interessato un
appassionato cultore delle tradizioni e del dialetto di Modena quale Sandro
Bellei, che nel suo ultimo libro Il duca
Nasone (Edizioni Il Fiorino, 2014) ha tracciato un breve profilo dal quale
emerge un Ercole III effettivamente burlone, dalla battuta sempre pronta,
arguto nel saper prendere le avversità della vita con la giusta ironia. È un
duca, quello di Bellei, che quasi compiaciuto ostenta la propria perfetta
padronanza del dialetto, utilizzato per le più banali osservazioni («Devo farmi
togliere un molare che ormai è marcio, ma
éd Garuti, al dintésta ch’a-m tàia anch i cavî, a-n me fid piò»), ma persino
per dare ordini ai sottoposti («Rebucci,
urdnê subét che Umberto, al fiól dal marangòun, al pòrta in prèsia a Sasól ’na
làttra ch’a-v darò fra pòch»). Un Ercole, in sostanza, “popolare”, alieno
da ogni formalismo, insofferente nei confronti dell’etichetta di corte, di
fatto il protagonista perfetto di una biografia “non autorizzata”, come precisa
Bellei nel sottotitolo.
Ercole III divenne duca nel 1780, all’età di cinquantatre
anni, di fatto dopo un’intera vita trascorsa ad interessarsi «sól al stanèli e ai divertimèint». Suo
padre, Francesco III, gli aveva combinato il matrimonio con Maria Teresa Cybo
Malaspina, erede del ducato di Massa e Carrara, che in tal modo era stato
incamerato entro i domini estensi. Si trattava però di un’unione assolutamente
infelice, un po’ per il carattere autoritario e bacchettone della consorte, un
po’ per la sfacciataggine di Ercole, le cui attenzioni per le donne e
soprattutto per l’amante “ufficiale” Chiara Marini (avvenente cantante lirica,
da tutti conosciuta a Modena come “la Chiarina”) risultavano eccessive persino
per l’elastica mentalità cortigiana dell’epoca. I rapporti tra i due erano così
tesi che la duchessa aveva finito per abbandonare il marito, di fatto
trasferendosi nella residenza ducale di Reggio; ed Ercole, quando Maria Teresa
venne a mancare nel dicembre del 1790, subito si adoperò per legalizzare l’unione
con la Marini attraverso un matrimonio morganatico.
Rispetto al padre, sovrano autorevole che nutriva
ambiziosi progetti per lo Stato estense, Ercole era un duca più dimesso, quasi
allergico alle costrizioni del cerimoniale e un tantino impacciato quando si
trattava di affrontare con risolutezza le delicate questioni di politica
estera. Forse il suo comportamento era espressione di un’inconscia ribellione
al dispotico genitore, il quale – tra le altre cose, al fine di garantire una
qualche forma di sopravvivenza della dinastia, considerato che Ercole non aveva
eredi e, dati i burrascosi rapporti con la moglie, era più che ipotizzabile che
non ne avrebbe avuti in futuro – lo aveva costretto contro la sua volontà ad
acconsentire al matrimonio tra la figlia Maria Beatrice (che aveva solo tre
anni quando venne promessa in sposa) e Ferdinando d’Asburgo-Lorena, figlio dell’imperatrice
d’Austria Maria Teresa. O forse, per altro verso, il duca era semplicemente
animato da una sorta di disincantato realismo, che – scrive Bellei – gli aveva
fatto mettere «da pèrt tótti gli
ambiziòun» e che doveva essere all’origine di decisioni quali quella di
smantellare le costose difese della capitale, perché tanto – sosteneva –
fortificata o no, «chi vól ocuper Mòdna
a-n gh ha ménga da fèr tanta fadiga».
Ma Ercole, a dispetto della sua apparente faciloneria,
non fu un sovrano del tutto inetto e sprovveduto. Influenzato dalle opere del
Muratori, nei primi anni di governo si dotò di una Camera dei Conti (che doveva
vigilare su entrate ed uscite dello Stato), fondò l’Accademia di Belle Arti, favorì
l’acquisto di numerosi volumi destinati alla Biblioteca Estense (divenuta una
delle più prestigiose della penisola), fece costruire strade e ponti sul
Secchia e sul Panaro, istituì il catasto, si impegnò per far fronte all’imponente
aumento demografico sollecitando il passaggio a colture intensive al fine di
migliorare le rese, varò una riforma annonaria per liberalizzare il commercio
del grano e, cosa alquanto gradita ai sudditi, riuscì in breve tempo a ridurre
di un terzo la pressione fiscale (che sotto Francesco III aveva raggiunto
livelli difficilmente sostenibili). Con tutta evidenza, siamo al cospetto di un
tipico esempio di sovrano illuminato, pur con tutte le debolezze dell’uomo-Ercole
III di cui si è detto. Al riguardo lo storico Pompeo Litta, genealogista dell’epoca,
riferisce che l’ultimo duca di casa d’Este «governò mirando soprattutto all’economia.
Fu molto economo nella sua vita privata e dalla sua corte fu bandito il lusso;
il suo erario non era mai esausto, ma questo denaro non si toglieva tutto alla
circolazione poiché lo somministrava con tenue compenso ai pubblici corpi».
Questi innegabili successi di politica interna non
valsero però a contrastare efficacemente il contagio rivoluzionario diffusosi
in Francia nel 1789 e destinato ad estendersi a macchia d’olio sotto l’urto
delle baionette francesi. Ercole si illuse di poter arginare la minaccia
giacobina legandosi strettamente all’imperatore d’Austria, cui senza esitare
inviò cannoni, munizioni ed ingenti somme di denaro, concedendo persino che
reclute del proprio esercito venissero arruolate in quello asburgico. Ma allorché
il Bonaparte si fece minaccioso, avanzando nella penisola a suon di vittorie,
il duca si vide costretto ad abbandonare Modena, nella quale lasciò un
Consiglio di Reggenza. Partì la sera del 7 maggio 1796, diretto verso Venezia
(dove fu in seguito raggiunto da imbarcazioni cariche d’oro e di oggetti
preziosi) e ignaro che il suo esilio si sarebbe protratto fino alla morte.
Nella città lagunare Ercole poteva contare sulla
protezione dell’ambasciata austriaca; ma ciò nondimeno fu raggiunto da un
distaccamento francese e costretto a consegnare ben 200.000 zecchini d’oro
(corrispondenti ad oltre sei quintali), che i transalpini erano certi egli
avesse in buona parte sottratto alle casse pubbliche dello Stato estense (e non
quindi prelevato dal solo suo patrimonio personale). In cambio, Ercole ottenne
un lasciapassare per raggiungere Trieste; in seguito proseguì per Vienna, per
poi stabilirsi, infine, nella più tranquilla Treviso, controllata dagli
austriaci.
Nel frattempo da Modena, all’indomani della partenza del
duca, la Reggenza aveva inviato un plenipotenziario a Napoleone per trattare l’armistizio
(di fatto una resa). Le condizioni imposte dai francesi furono durissime: 7,5
milioni di franchi, derrate, munizioni, polvere da sparo e, dulcis in fundo, una ventina di quadri
della prestigiosa galleria estense. Difficile soddisfare una tale richiesta, «anche perché – ha
scritto Luigi Amorth – il Duca, che si era portato con sé tre milioni di lire
modenesi tolti dai dodici del pubblico erario, faceva orecchie da mercante ad
ogni richiesta d’aiuto», preferendo decretare prestiti forzosi.
La politica di Ercole era tuttavia destinata al fallimento. Il 28 maggio
il Consiglio Generale di Reggio, dopo aver istituito una Guardia Civica,
approvò la stesura di un promemoria che affermava i diritti di libertà della
città rispetto al potere estense. Di lì alla vera e propria rivoluzione il
passo era breve. Il 25 agosto, nella Piazza Maggiore fu piantato un albero
della libertà, simbolo – riferisce una cronaca dell’epoca – «d’un’aperta
ribbellione al Duca», nonché dell’assunzione dei poteri da parte del Senato di
Reggio. Era l’atto di nascita della Repubblica Reggiana.
Anche a Modena, nel frattempo, questi fatti accesero la miccia
rivoluzionaria. Il 29 agosto duecento soldati ducali dovettero usare la forza
per rimuovere un albero della libertà eretto nell’attuale Piazza Grande. Per
impedire che la situazione degenerasse, fu concessa tuttavia un’amnistia e
pubblicato un editto nel quale il duca rassicurava che avrebbe saldato il
debito con i francesi. Ma – spiega Amorth – «erano solo promesse: ché l’esule
sovrano, sordo da quel tale orecchio, protestava che i Francesi avevano violato
l’armistizio coll’assecondare la ribellione di Reggio».
Di tutt’altro avviso era ovviamente Napoleone, che non a sé, ma ad Ercole
III imputava il mancato rispetto del trattato, dal momento che i tempi concessi
per il pagamento del tributo non erano da quest’ultimo stati rispettati. Il 4
ottobre, pertanto, il Bonaparte denunciò l’armistizio, prendendo «sotto la
protezione dell’Armata Francese li Popoli di Modena, e di Reggio» e dichiarando
«nemico della Francia qualsivoglia attentasse alla proprietà, ed ai diritti di
questi Popoli». Entrate rapidamente nella capitale estense, il 7 ottobre le
truppe francesi innalzarono l’albero della libertà (un pioppo ornato di
tricolori francesi e berretto frigio) di fronte alla Ghirlandina, ingiungendo
inoltre «a tutti indistintamente» di indossare «la Coccarda tricolorata, [...]
distintivo di quella Protezione che dall’Armata Francese è generosamente
accordata a questi Popoli». Il giorno seguente fu soppressa la Reggenza
estense, in sostituzione della quale si procedette alla nomina di un Comitato
di Governo di sette cittadini, all’elezione di nuovi membri della Municipalità
e all’istituzione di una Guardia Civica.
Le vicende che seguirono sono tutte legate all’epopea
napoleonica. Per rivedere un Estense alla guida di Modena si dovette attendere
il crollo del Bonaparte e l’avvento al potere, nel 1814, di Francesco IV,
nipote di Ercole III. A quella data, dalle parti della Ghirlandina il duca
“nasone” era ormai uno sbiadito ricordo: spentosi in esilio il 14 ottobre di
undici anni prima, egli sembrava appartenere ad un tempo (quello antecedente la
rivoluzione) lontano e definitivamente tramontato. Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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