lunedì 15 dicembre 2014

Il mito di Mussolini: dalle origini all’avvento del fascismo

(articolo apparso su Prima Pagina del 14 dicembre 2014)

Il mito di Mussolini costituì una componente essenziale del fascismo, al punto che per molti italiani che vissero nel Ventennio esso rappresentava la vera e propria essenza del regime. Senza dubbio, Mussolini incarnò la figura esemplare del capo carismatico, del leader dominatore delle masse, del duce capace di guidare alla vittoria un intero popolo, e, innegabilmente, per queste sue caratteristiche fu sostenuto con ammirazione ed entusiasmo dai suoi seguaci. Ma come nacque e si consolidò questo mito?
Secondo alcune diffuse interpretazioni, il culto di Mussolini fu una spiacevole conseguenza dello scarso senso civico degli italiani (Piero Gobetti nel 1924 scrisse che il mussolinismo altro non era che un’ennesima prova dell’animo cortigiano degli abitanti della penisola) e/o il risultato di un’efficace e martellante azione propagandistica coordinata dal regime. Si tratta di considerazioni che contengono elementi di verità, ma che non sono sufficienti a spiegare in modo esauriente un fenomeno che, ben lungi dal costituire una peculiarità italiana, si connota inevitabilmente come l’esito di una consolidata tradizione politico-culturale. A partire infatti dalla metà del XIX secolo, si diffuse in tutta Europa il culto romantico del genio, e con esso la convinzione che la crescente partecipazione delle masse alla vita pubblica avrebbe creato i presupposti per l’ascesa di grandi uomini capaci di interpretare e manipolare a proprio vantaggio i sentimenti delle folle. Forte era, in particolare, il senso di smarrimento provocato da una modernità al contempo suadente e minacciosa, e, in assoluto, il timore che la civiltà occidentale potesse abbandonare valori e tradizioni secolari senza trovare, al loro posto, un’altrettanto valida ragione di vita. Specialmente per i ceti colti, la nascente società di massa rischiava pertanto di farsi portatrice di mediocrità a più livelli, a partire ovviamente da quello, assai delicato, della politica. In sostanza, come sottolinea Emilio Gentile (che al mito di Mussolini ha dedicato un lungo capitolo del suo Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza 2002), nell’Europa di inizio Novecento «molti giovani auspicavano, dall’avvento di uomini nuovi, la trasformazione della società per superare la mediocrità della società borghese, per combattere la banalità della democrazia liberale e preparare la nascita di un ordine nuovo».
La prima, fondamentale ragione del successo del mito di Mussolini risiede perciò nella diffusa convinzione che il duce rappresentasse un perfetto esempio di genio, incarnazione di un superuomo cui era non solo lecito, ma estremamente vantaggioso affidare il ruolo di guida della nazione. Ma in che modo si formò e come si evolse il mussolinismo?
 Innanzitutto è bene precisare che il mito di Mussolini ebbe varie espressioni, diverse tra loro ma tutte incentrate sul fascino carismatico del leader. La prima forma di culto della personalità del duce nacque in ambiente socialista, precisamente all’indomani del congresso nazionale del PSI di Reggio Emilia, tenutosi nel 1912. In quell’occasione Mussolini affascinò i delegati del partito con la sua oratoria aggressiva e scintillante, tanto da apparire, specie ai più giovani, come l’incarnazione dell’ideale rivoluzionario. Ma, ovviamente, il fascino si sarebbe presto esaurito se ad accompagnarlo non fosse giunto il successo: il che puntualmente avvenne con l’assunzione da parte del futuro duce della direzione dell’«Avanti!» (che con Mussolini aumentò sensibilmente la diffusione) e con il parallelo incremento del numero degli iscritti e delle sezioni.
La scelta dell’interventismo e la fondazione del «Popolo d’Italia» segnarono però il crollo del mussolinismo socialista. E fu un crollo totale, come rileva Gentile: «Il mito del rivoluzionario intransigente, apostolo dell’idea, milite integerrimo e capo fedele, fu sostituito da una sorta di contromito del politicamente opportunista, ambizioso per interesse, egocentrico, senza idee e ideali, corrotto dal desiderio di potere». Divenuto traditore della causa, Mussolini venne di fatto espulso dal pantheon dei miti socialisti, a riprova del fatto che «il prestigio di un mito dura solo se corrisponde e non entra in contrasto con le convinzioni e i valori propri del pubblico al quale si rivolge e che lo sostiene con la sua fiducia».
Mentre però veniva espulso dal PSI, Mussolini riuscì a impressionare alcuni intellettuali, specialmente quelli che facevano capo alla rivista «La Voce» e che propugnavano una riforma prima di tutto morale degli italiani, a loro dire corrotti da una democrazia liberale guidata da uomini fiacchi e inetti. Venne così a crearsi una seconda versione del mito, che richiamava alcuni attributi della prima (sincerità, fede, carattere) con l’aggiunta, però, di una componente fondamentale: l’idea che Mussolini costituisse il perfetto esempio di uomo nuovo. Egli era cioè – come scrisse Prezzolini – una figura capace di risaltare «in un mondo di mezze figure e di coscienze sfilacciate come elastici che han troppo servito»; era un rivoluzionario intransigente, disposto a pagare di persona (con l’espulsione dal partito socialista) pur di difendere i propri ideali; e, soprattutto, incarnava l’antigiolittismo, ovvero – nota Gentile – era «un simbolo di vitalità opposto a un simbolo di senescenza, un giovane di fede contro un vecchio scettico e cinico, un uomo “carico di avvenimenti” e che aveva in sé “tanta parte dei futuri destini d’Italia”, contro il vecchio burocrate assurto a simbolo di tutti i mali del passato che le nuove generazioni volevano eliminare».
Mussolini, in sostanza, divenne il campione di un’opposizione radicale al governo e al parlamentarismo, un mito in particolare per le giovani generazioni che sentivano il forte bisogno di attuare una riforma intellettuale e morale del popolo italiano. «In lui – scrisse Carlo Carrà nel novembre del 1914 – vi è il dramma di tutta la nostra generazione»: dramma da intendersi come crisi di valori, ma anche come volontà, frustrata, di nobilitare l’esistenza col sacrificio e con la dedizione a una causa. Mussolini, in altre parole, sembrò rappresentare l’archetipo del rinnovatore nazionale, e in tal senso il suo mito trasse giovamento dalla scelta interventista, dal momento che tutti gli antigiolittiani (i vociani, i sindacalisti rivoluzionari, i nazionalisti, i futuristi) erano per la guerra. Essi esultarono quando Mussolini abbandonò il PSI, e subito riconobbero in lui l’uomo nuovo, tanto che alcuni vociani entusiasti gli telegrafarono: «Partito socialista ti espelle. Italia ti accoglie».
Con tutta evidenza, in questa fase del suo sviluppo il mito di Mussolini intendeva esaltare prevalentemente le qualità morali del futuro duce, alle quali però si aggiungeva un elemento decisivo: la cultura. Si trattava, infatti, di un fattore di non poco conto, fondamentale motivo di raccordo tra il Mussolini socialista rivoluzionario e il Mussolini apprezzato dalle avanguardie e dagli intellettuali. Questi ultimi, in particolare, come ha sottolineato Gentile, «accreditarono il mito mussoliniano dell’uomo nuovo che non era solo un politico notevole ma anche un paladino delle lettere, delle arti e della filosofia, un temperamento che condensava in sé i tratti dell’uomo moderno e partecipava al ritmo della modernità».
A questo mito – decisamente elitario –, il fascismo dovette aggiungere alcuni importanti elementi in grado di renderlo accessibile alla gente comune, senza peraltro rinnegare le componenti ereditate dal socialismo e dall’interventismo. Nello specifico, il mito fascista fu essenzialmente il mito del capo, incarnazione di tutte le più elevate qualità morali, politiche e intellettuali, oltre che interprete e garante unico degli interessi supremi della nazione. Un mito che ebbe manifestazioni di massa inedite, differenti rispetto alle precedenti forme di esaltazione, e che venne diffuso in ogni angolo della penisola attraverso la cosiddetta «fabbrica del consenso», la macchina propagandistica del regime.
Il Mussolini fascista fu pertanto, in parte, un Mussolini del popolo, che appariva come l’uomo di umili origini che aveva portato la pace sociale e come un capo di governo finalmente giovane, energico, realista, dotato di uno stile moderno e di un’oratoria affascinante. Ma non fu, ovviamente, solo questo, nel senso che anche la borghesia e i ceti abbienti riconobbero in lui l’uomo della provvidenza, il salvatore che aveva sconfitto il bolscevismo e posto un freno all’anarchia. Di fatto, come scrisse Ferruccio Parri nel 1924, dopo la conquista del potere Mussolini fu posto su «un piedistallo di fiducia inconscia, di ammirazione ingenua e quasi fisica, di stupore estatico sul quale larga parte del popolo italiano contemplava il suo duce dinamico agitarsi e recitare».
(Continua)

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

Nessun commento:

Posta un commento