(articolo apparso su Prima Pagina del 30 novembre 2014)
Introduzione di Luigi Malavasi Pignatti Morano
Lo scorso giovedì 13 novembre, presso il teatro dell’Istituto
Sacro Cuore di Modena, il professor Pietro Basso (docente di Teorie
Sociologiche all’Università Ca’ Foscari di Venezia) ha tenuto un’interessante
conferenza dal titolo L’ascesa del
razzismo nella crisi globale.
L’aspetto più interessante dell’intervento – che ha
ovviamente posto l’accento sui rapporti di oppressione che sono alla base della
pretesa “superiorità” dei bianchi rispetto ai neri – è stata la suddivisione del
razzismo in tre forme fondamentali: istituzionale, dottrinale e popolare. Contrariamente
a quanto comunemente si pensa – ha spiegato il professor Basso –, il razzismo
non sale dagli ignoranti, ma scende dagli Stati e dalle necessità del
mercato. Le forme più rozze di intolleranza popolare sono quindi essenzialmente
la conseguenza e non – com’è più comodo credere – la causa di un certo tipo di
politica, spesso avallata (e qui si entra nel razzismo dottrinale) da certe
categorie di presunti intellettuali. Detto altrimenti, lo sfruttamento e la
diffusione di stereotipi e pregiudizi sono le due facce di una sola medaglia e
costituiscono l’arma di cui si serve la nostra società per perpetuare,
potenzialmente all’infinito, i propri privilegi.
Il razzismo – acuitosi con tutta evidenza in questi
ultimi anni di forte recessione economica – rappresenta pertanto la formula magica (Basso ha usato proprio
questa specifica espressione) che consente di scaricare sugli elementi più
deboli della società la responsabilità del disagio crescente in conseguenza
della crisi. Poco importa, infatti, che gli immigrati costituiscano una risorsa
imprescindibile per la nostra economia (tanto che se per assurdo dall’oggi al
domani abbandonassero in massa la penisola – e si parla di circa 5 milioni di
lavoratori –, l’Italia precipiterebbe nella graduatoria dei paesi più ricchi al
mondo): ostacolare la loro integrazione – ha precisato provocatoriamente Basso
– conviene ai cosiddetti poteri forti, che in questo modo ottengono il duplice
effetto di mantenere alto il livello di sfruttamento di cospicue minoranze e di
abbassare quello dei diritti di tutti.
Si tratta di una tesi indubbiamente “forte” – come si
suol dire –, ma non priva di fascino, oltre che di una certa autorevolezza. È
innegabile infatti che l’intolleranza vada di pari passo con l’ignoranza –
verrebbe da dire indotta – che sembra permeare l’intera nostra società. Senza
dubbio la conoscenza (anche banalmente quella geografica: chi può negare, a
essere onesti, che talvolta si incontrano persone provenienti da aree del mondo
che i più avrebbero difficoltà ad individuare su una cartina?) è un’arma
potente contro gli stereotipi, proprio perché costringe ad andare oltre il
pregiudizio. Ma la domanda a cui è difficile sottrarsi è: oggi come oggi, la
conoscenza è sufficiente a consentire una convivenza pacifica e spontanea dei
popoli? Perché un conto è il razzismo di chi difende con convinzione (o
arroganza?) la propria superiorità culturale; altra cosa è il razzismo,
potremmo dire istintivo o inconscio, di chi sarebbe anche propenso a mostrare
disponibilità nell’accoglienza, ma è frenato dalla paura.
Ecco, forse dalle parole del professor Basso è possibile
trarre la conclusione che è sempre bene diffidare di chi si serve di potenti
mezzi di comunicazione per veicolare determinati messaggi. Ma occorre anche
essere realisti: prima che, sull’autobus o in treno, un italiano decida di
sedersi indifferentemente accanto a un bianco o a un nero, dovranno trascorrere
ancora molti anni. Certo è, però, che tra qualche generazione – basta leggere
numeri e statistiche – avremo milioni di concittadini che difficilmente si
chiameranno Mario o Giovanni. Cosa pensano, di questo, i membri più giovani
della nostra società? Prendiamo in considerazione le riflessioni di alcuni
studenti dell’Istituto Sacro Cuore di Modena.
Pro di Francesca Adani, Maria Teresa Guidi e Beatrice Sitta
«Non esiste alcuna valida alternativa all’integrazione»
Per cogliere al meglio le problematiche attuali è
necessario partire dalle radici. Il relatore ha chiarito che il problema non
nasce dagli ignoranti bensì dagli stati e dalle necessità del mercato. Si apre
così la grande parentesi del capitalismo da lui ampiamente argomentata e si
crea un forte collegamento tra questo fenomeno e quello del razzismo,
proponendolo come una matrice da cui nel corso della storia sono state coniate
le problematiche di diversità sociale e culturale. Il professor Basso ha reso
noto a tutti che l'intolleranza induce allo sfruttamento delle classi sociali
più basse, con il conseguente arricchimento del ceto più alto a scapito dei
ceti medi. Il dato su cui riflettere è che questa situazione migliora lo status
sociale della classe più ricca e soprattutto l’andamento dell’economia.
Questo meccanismo porta gli immigrati ad essere
indispensabili per la nostra attività economica, nonostante in molti non la
pensino allo stesso modo.
Si potrebbe però ribattere alle molte accuse degli
italiani mostrando loro che il settore primario non verrebbe scelto da molti
lavoratori. I dati illustrano, infatti, che una percentuale di stranieri pari
all’89,9% per gli uomini e al 10,1% per le donne svolge attività in questo
ramo.
Un altro argomento molto rilevante è il fenomeno, poco
presente, dell’integrazione in Italia. Come abbiamo potuto constatare assistendo
a una conferenza riguardante i Sikh tenutasi lo scorso 6 novembre presso l’Istituto
Sacro Cuore, queste etnie vivono nel nostro paese come negli antichi ghetti:
parlano la loro lingua, mantengono la loro cultura e sono estraniate dalla
nostra società.
La loro integrazione è ostacolata dallo stato e dai
nostri pregiudizi: l’idea comune è che la maggior parte dei crimini siano
commessi soprattutto dagli immigrati, anche se i dati che il professore ha
fornito durante l’assemblea dimostrano il contrario. Occorre poi tenere
presente che, per diverse etnie vittime dei luoghi comuni, la percentuale di
detenuti è irrisoria e che il più delle volte è la criminalità organizzata
italiana a gestire/sfruttare gli immigrati come forza lavoro a basso costo. Non
c’è da stupirsi più di tanto, perciò, se chi lucra sulla prostituzione o sullo
spaccio di stupefacenti si serve di non italiani – che fanno il lavoro sporco, rischiando
tutti i giorni la galera – per intercettare clienti e consumatori (quelli sì
molto spesso italiani).
In definitiva, non esiste alcuna valida alternativa all’integrazione
(anche perché l’immigrazione non è certo un fenomeno che si possa arginare). Ed
è evidente che se le istituzioni (sul modello americano) favorissero l’istruzione
degli stranieri sulla base della nostra lingua e della nostra cultura, l’inserimento
di questi ultimi all’interno della società risulterebbe più semplice e
spontaneo.
In conclusione l’unica arma per combattere le
intolleranze, le discriminazioni, i pregiudizi e il disagio sarebbe l’impegno
comune dei cittadini, dello stato e anche degli immigrati stessi.
Contro di Matteo Talami, Isabell
Albinelli, Maria Vittoria Abati e Aurora Vandelli
«Non crediamo alla favola dell’integrazione
ad ogni costo»
La conferenza del professor Basso ha affrontato temi
complessi con un linguaggio – forse un tantino accademico – non sempre del
tutto accessibile per noi ragazzi che ancora non abbiamo alle spalle studi
storici approfonditi. Risulta perciò complicato, dal nostro punto di vista,
contestare le argomentazioni di un docente che a noi è sembrato interessato a
stimolare più che altro il pubblico degli adulti, con buona pace degli
studenti.
La sensazione diffusa, in sostanza, è che gli addetti ai
lavori – non dimentichiamo che il professor Basso è direttore del Master
“Immigrazione. Fenomeni migratori e trasformazioni sociali” – si perdano in
troppi sofismi, e finiscano col trascurare i problemi concreti che attanagliano
la popolazione. Perché va bene parlare di integrazione, di radici pluridecennali
del fenomeno-immigrazione, del fatto che un secolo fa erano gli italiani ad
abbandonare in massa il loro paese, della miseria quale principale motore che
spinge interi popoli a salutare per sempre la terra d’origine; ma occorre anche
dare risposte a quanti si sentono minacciati dalle cosiddette “orde” di
clandestini.
A nostro parere, inoltre, l’integrazione va vissuta da
ambo le parti. Non solo, cioè, gli italiani, ma anche gli immigrati devono
adattarsi ad un mondo che cambia e che mette in contatto culture apparentemente
inconciliabili. Quanto poi ai pregiudizi, essi derivano sì in parte dall’ignoranza,
ma sono anche la conseguenza di un diffuso e crescente disagio. Non è possibile
tacciare di razzismo una persona solo perché manifesta difficoltà a confrontarsi
con un mondo che avverte sempre più come una minaccia. Anche perché è normale,
nei periodi di crisi, chiudersi un po’ a riccio a difesa dei propri interessi.
C’è infine lo spinoso problema del lavoro. Gli immigrati
costano meno e danno l’impressione di porre un freno all’occupazione. Certo non
sono loro i responsabili di questa anomalia del nostro sistema, ma non bisogna
commettere l’errore di criminalizzare quanti esternano un certo malcontento
che, inevitabilmente, si riversa anche sugli stranieri per bene. È la politica,
infatti, che dovrebbe dare risposte, garantendo agevolazioni a chi opera
secondo le regole e facilitando l’integrazione di quanti sbarcano nel nostro
paese con le migliori intenzioni. Solo in questo modo sarà possibile instaurare
un regime di pacifica e costruttiva convivenza. Noi non crediamo alla favola
dell’integrazione ad ogni costo: ma non per questo ci sentiamo razzisti.
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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