martedì 2 dicembre 2014

L’ascesa del razzismo nella crisi globale

(articolo apparso su Prima Pagina del 30 novembre 2014)

Introduzione di Luigi Malavasi Pignatti Morano

Lo scorso giovedì 13 novembre, presso il teatro dell’Istituto Sacro Cuore di Modena, il professor Pietro Basso (docente di Teorie Sociologiche all’Università Ca’ Foscari di Venezia) ha tenuto un’interessante conferenza dal titolo L’ascesa del razzismo nella crisi globale.
L’aspetto più interessante dell’intervento – che ha ovviamente posto l’accento sui rapporti di oppressione che sono alla base della pretesa “superiorità” dei bianchi rispetto ai neri – è stata la suddivisione del razzismo in tre forme fondamentali: istituzionale, dottrinale e popolare. Contrariamente a quanto comunemente si pensa – ha spiegato il professor Basso –, il razzismo non sale dagli ignoranti, ma scende dagli Stati e dalle necessità del mercato. Le forme più rozze di intolleranza popolare sono quindi essenzialmente la conseguenza e non – com’è più comodo credere – la causa di un certo tipo di politica, spesso avallata (e qui si entra nel razzismo dottrinale) da certe categorie di presunti intellettuali. Detto altrimenti, lo sfruttamento e la diffusione di stereotipi e pregiudizi sono le due facce di una sola medaglia e costituiscono l’arma di cui si serve la nostra società per perpetuare, potenzialmente all’infinito, i propri privilegi.
Il razzismo – acuitosi con tutta evidenza in questi ultimi anni di forte recessione economica – rappresenta pertanto la formula magica (Basso ha usato proprio questa specifica espressione) che consente di scaricare sugli elementi più deboli della società la responsabilità del disagio crescente in conseguenza della crisi. Poco importa, infatti, che gli immigrati costituiscano una risorsa imprescindibile per la nostra economia (tanto che se per assurdo dall’oggi al domani abbandonassero in massa la penisola – e si parla di circa 5 milioni di lavoratori –, l’Italia precipiterebbe nella graduatoria dei paesi più ricchi al mondo): ostacolare la loro integrazione – ha precisato provocatoriamente Basso – conviene ai cosiddetti poteri forti, che in questo modo ottengono il duplice effetto di mantenere alto il livello di sfruttamento di cospicue minoranze e di abbassare quello dei diritti di tutti.
Si tratta di una tesi indubbiamente “forte” – come si suol dire –, ma non priva di fascino, oltre che di una certa autorevolezza. È innegabile infatti che l’intolleranza vada di pari passo con l’ignoranza – verrebbe da dire indotta – che sembra permeare l’intera nostra società. Senza dubbio la conoscenza (anche banalmente quella geografica: chi può negare, a essere onesti, che talvolta si incontrano persone provenienti da aree del mondo che i più avrebbero difficoltà ad individuare su una cartina?) è un’arma potente contro gli stereotipi, proprio perché costringe ad andare oltre il pregiudizio. Ma la domanda a cui è difficile sottrarsi è: oggi come oggi, la conoscenza è sufficiente a consentire una convivenza pacifica e spontanea dei popoli? Perché un conto è il razzismo di chi difende con convinzione (o arroganza?) la propria superiorità culturale; altra cosa è il razzismo, potremmo dire istintivo o inconscio, di chi sarebbe anche propenso a mostrare disponibilità nell’accoglienza, ma è frenato dalla paura.
Ecco, forse dalle parole del professor Basso è possibile trarre la conclusione che è sempre bene diffidare di chi si serve di potenti mezzi di comunicazione per veicolare determinati messaggi. Ma occorre anche essere realisti: prima che, sull’autobus o in treno, un italiano decida di sedersi indifferentemente accanto a un bianco o a un nero, dovranno trascorrere ancora molti anni. Certo è, però, che tra qualche generazione – basta leggere numeri e statistiche – avremo milioni di concittadini che difficilmente si chiameranno Mario o Giovanni. Cosa pensano, di questo, i membri più giovani della nostra società? Prendiamo in considerazione le riflessioni di alcuni studenti dell’Istituto Sacro Cuore di Modena.


Pro di Francesca Adani, Maria Teresa Guidi e Beatrice Sitta

«Non esiste alcuna valida alternativa all’integrazione»

Per cogliere al meglio le problematiche attuali è necessario partire dalle radici. Il relatore ha chiarito che il problema non nasce dagli ignoranti bensì dagli stati e dalle necessità del mercato. Si apre così la grande parentesi del capitalismo da lui ampiamente argomentata e si crea un forte collegamento tra questo fenomeno e quello del razzismo, proponendolo come una matrice da cui nel corso della storia sono state coniate le problematiche di diversità sociale e culturale. Il professor Basso ha reso noto a tutti che l'intolleranza induce allo sfruttamento delle classi sociali più basse, con il conseguente arricchimento del ceto più alto a scapito dei ceti medi. Il dato su cui riflettere è che questa situazione migliora lo status sociale della classe più ricca e soprattutto l’andamento dell’economia.
Questo meccanismo porta gli immigrati ad essere indispensabili per la nostra attività economica, nonostante in molti non la pensino allo stesso modo.
Si potrebbe però ribattere alle molte accuse degli italiani mostrando loro che il settore primario non verrebbe scelto da molti lavoratori. I dati illustrano, infatti, che una percentuale di stranieri pari all’89,9% per gli uomini e al 10,1% per le donne svolge attività in questo ramo.
Un altro argomento molto rilevante è il fenomeno, poco presente, dell’integrazione in Italia. Come abbiamo potuto constatare assistendo a una conferenza riguardante i Sikh tenutasi lo scorso 6 novembre presso l’Istituto Sacro Cuore, queste etnie vivono nel nostro paese come negli antichi ghetti: parlano la loro lingua, mantengono la loro cultura e sono estraniate dalla nostra società.
La loro integrazione è ostacolata dallo stato e dai nostri pregiudizi: l’idea comune è che la maggior parte dei crimini siano commessi soprattutto dagli immigrati, anche se i dati che il professore ha fornito durante l’assemblea dimostrano il contrario. Occorre poi tenere presente che, per diverse etnie vittime dei luoghi comuni, la percentuale di detenuti è irrisoria e che il più delle volte è la criminalità organizzata italiana a gestire/sfruttare gli immigrati come forza lavoro a basso costo. Non c’è da stupirsi più di tanto, perciò, se chi lucra sulla prostituzione o sullo spaccio di stupefacenti si serve di non italiani – che fanno il lavoro sporco, rischiando tutti i giorni la galera – per intercettare clienti e consumatori (quelli sì molto spesso italiani).
In definitiva, non esiste alcuna valida alternativa all’integrazione (anche perché l’immigrazione non è certo un fenomeno che si possa arginare). Ed è evidente che se le istituzioni (sul modello americano) favorissero l’istruzione degli stranieri sulla base della nostra lingua e della nostra cultura, l’inserimento di questi ultimi all’interno della società risulterebbe più semplice e spontaneo.
In conclusione l’unica arma per combattere le intolleranze, le discriminazioni, i pregiudizi e il disagio sarebbe l’impegno comune dei cittadini, dello stato e anche degli immigrati stessi.


Contro di Matteo Talami, Isabell Albinelli, Maria Vittoria Abati e Aurora Vandelli

«Non crediamo alla favola dell’integrazione ad ogni costo»

La conferenza del professor Basso ha affrontato temi complessi con un linguaggio – forse un tantino accademico – non sempre del tutto accessibile per noi ragazzi che ancora non abbiamo alle spalle studi storici approfonditi. Risulta perciò complicato, dal nostro punto di vista, contestare le argomentazioni di un docente che a noi è sembrato interessato a stimolare più che altro il pubblico degli adulti, con buona pace degli studenti.
La sensazione diffusa, in sostanza, è che gli addetti ai lavori – non dimentichiamo che il professor Basso è direttore del Master “Immigrazione. Fenomeni migratori e trasformazioni sociali” – si perdano in troppi sofismi, e finiscano col trascurare i problemi concreti che attanagliano la popolazione. Perché va bene parlare di integrazione, di radici pluridecennali del fenomeno-immigrazione, del fatto che un secolo fa erano gli italiani ad abbandonare in massa il loro paese, della miseria quale principale motore che spinge interi popoli a salutare per sempre la terra d’origine; ma occorre anche dare risposte a quanti si sentono minacciati dalle cosiddette “orde” di clandestini.
A nostro parere, inoltre, l’integrazione va vissuta da ambo le parti. Non solo, cioè, gli italiani, ma anche gli immigrati devono adattarsi ad un mondo che cambia e che mette in contatto culture apparentemente inconciliabili. Quanto poi ai pregiudizi, essi derivano sì in parte dall’ignoranza, ma sono anche la conseguenza di un diffuso e crescente disagio. Non è possibile tacciare di razzismo una persona solo perché manifesta difficoltà a confrontarsi con un mondo che avverte sempre più come una minaccia. Anche perché è normale, nei periodi di crisi, chiudersi un po’ a riccio a difesa dei propri interessi.
C’è infine lo spinoso problema del lavoro. Gli immigrati costano meno e danno l’impressione di porre un freno all’occupazione. Certo non sono loro i responsabili di questa anomalia del nostro sistema, ma non bisogna commettere l’errore di criminalizzare quanti esternano un certo malcontento che, inevitabilmente, si riversa anche sugli stranieri per bene. È la politica, infatti, che dovrebbe dare risposte, garantendo agevolazioni a chi opera secondo le regole e facilitando l’integrazione di quanti sbarcano nel nostro paese con le migliori intenzioni. Solo in questo modo sarà possibile instaurare un regime di pacifica e costruttiva convivenza. Noi non crediamo alla favola dell’integrazione ad ogni costo: ma non per questo ci sentiamo razzisti.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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