martedì 25 novembre 2014

«La Domenica dei fanciulli» e la propaganda di guerra per l’infanzia

(articolo apparso su Prima Pagina del 23 novembre 2014)

In occasione del centenario dello scoppio della Grande Guerra sono decine i volumi apparsi nelle librerie per celebrare degnamente questa importante ricorrenza storica e storiografica. Tra i tanti, si è scelto qui di seguito di prendere in considerazione un lavoro senz’altro non troppo noto, curato da Daniele Menozzi, Giovanna Procacci e Simonetta Soldani. Si tratta di una miscellanea di saggi uscita nel 2010 per Unicopli e intitolata Un paese in guerra. La mobilitazione civile in Italia (1914-1918): in tutto quindici contributi, tra i quali indubbiamente significativo è quello, a firma di Laura Guidi, di cui si occupa il presente articolo, ovvero «Maledetto chi parla di pace...». La Grande Guerra sulle pagine di una rivista per l’infanzia.
Il saggio analizza la propaganda di guerra rivolta ai ragazzi attraverso lo studio di una singola rivista, uscita dal 1900 al 1920, intitolata «La Domenica dei fanciulli». Il punto di partenza dell’indagine è bene illustrato dall’autrice: «Il nazionalismo del primo Novecento, destinato a culminare nel primo conflitto mondiale, generò una pedagogia volta a manipolare l’immaginario, i comportamenti, i giochi e l’intero processo di formazione di bambini e bambine allo scopo di farne le cellule precoci e malleabili di progetti nazionali di potenza ed espansione territoriale, sorretti da un pervasivo militarismo e dalla valorizzazione della guerra come condizione sana e normale intorno a cui far ruotare l’intera vita sociale».
Con l’entrata in guerra dell’Italia (ma anche, in un primo momento e in forme differenti, durante il conflitto coloniale in Libia), la vera priorità nell’educazione militaresca dei giovani divenne la costruzione propagandistica di un nemico che legittimasse e rendesse comprensibile la decisione di mandare migliaia di uomini al fronte. Non si trattava però di un nemico qualsiasi, bensì di un nemico assoluto, per sua stessa natura mostruoso e inconciliabile con la comunità – idealizzata – del popolo italiano. Solo veicolando questo genere di messaggi si poteva infatti sperare che i bambini “elaborassero” l’idea di un conflitto che metteva in serio pericolo (quando non stroncava) la vita dei loro padri spediti nelle trincee. In sostanza, se si imbracciava il fucile, era per respingere il “barbaro” che ancora occupava territori che – secondo giustizia – sarebbero spettati all’Italia.
In questo contesto, «La Domenica dei fanciulli» offre una preziosa testimonianza del drastico cambiamento che, in coincidenza con lo scoppio della guerra, interessò messaggi e immagini destinati all’educazione dei giovani. Il mondo protetto (tipicamente borghese) dell’infanzia, nel quale dovevano prevalere valori quali la fratellanza, il rispetto dei ruoli e soprattutto – si pensi anche a Cuore di De Amicis – la solidarietà (del ricco verso il povero, del sano verso l’invalido, e via dicendo), cedette il passo ad una realtà in cui venivano esaltati principalmente l’eroismo, il coraggio e il sacrificio, e dalla quale – come anticipato – emergeva minaccioso lo spettro del nemico. Un nemico – scrive Laura Guidi – presente in ogni pagina, in ogni racconto o poesia, tanto che è lecito affermare che «il mondo rappresentato dalla rivista è, dall’ingresso dell’Italia in guerra, dominato dalla sua presenza e dal dovere non solo di combatterlo, ma di odiarlo».
Al riguardo, è importante sottolineare che l’immagine dei paesi e dei combattenti stranieri subì una drastica trasformazione all’indomani dell’ingresso dell’Italia in guerra. Fino a tutto il 1914, infatti, prevalse una descrizione distaccata del conflitto, rispetto al quale tutte le nazioni – ad eccezione dell’«eroico» Belgio invaso – avevano interessi, più o meno nobili, da difendere. Poi, con l’entrata in guerra dell’Italia, quella che era stata considerata un spietata «lotta fratricida» improvvisamente divenne una sorta di crociata per il completamento del Risorgimento, con la conseguenza che le pagine della rivista si popolarono di bruti e assassini (tutti appartenenti, s’intende, agli Imperi centrali, espressione di una razza malvagia e sanguinaria). 
Accanto agli esempi negativi identificati con il nemico erano proposti modelli inarrivabili di eroismo infantile, i quali – è stato notato – spesso ottenevano l’effetto di colpevolizzare i bambini, facendoli sentire inadeguati e desiderosi di riscatto. Scrive al riguardo Laura Guidi: «Il bambino viene visto come il combattente di domani, la bambina come ausiliaria di soldati. Il sangue dei caduti vale a spronare entrambi al sacrificio patriottico. Agli esempi inimitabili di ragazzi-soldato si affiancano modelli di patriottismo più accessibili, come quello rappresentato dal piccolo Sandro, protagonista del racconto L’eroe: un bambino che rinuncia alla cartella nuova per aiutare i profughi, compiendo la sua personale battaglia sul fronte interno».
Col passare delle settimane a partire dal maggio del 1915, venne meno persino il rimpianto per la pace perduta: la guerra, in sostanza, era una realtà con la quale bisognava familiarizzare, tanto più che essa era senza dubbio alcuno “giusta”, poiché combattuta contro un nemico disumano (e disumanizzato). In nome del sacrosanto irredentismo (che si estendeva indiscriminatamente fino alla rivendicazione di un po’ tutte le terre adriatiche), ogni azione di guerra era percepita come legittima. Nessuna pietà, nessun tipo di rimorso potevano indurre a mostrare compassione per il soldato austro-tedesco ucciso. «Il nemico – sottolinea la Guidi – ormai è l’Altro assoluto, il non-uomo, la cui morte viene descritta in toni che escludono qualsiasi possibilità di quell’empatia e pietas che vengono profuse invece a piene mani verso gatti e cagnolini. Di più: morte e sofferenze del nemico sono fonte legittima e doverosa di esultanza».
Contro un siffatto avversario, nessuna pace che non coincidesse con una netta vittoria era da prendere in considerazione, come bene illustrava una poesia apparsa sulla rivista nel 1918: «Questa è l’ora solenne che il pravo / Cittadino disvela e l’ignaro / Che amor patrio nel petto non ha: / Sia da tutti segnato col dito, / Dagli onesti sfregiato e fuggito / Chi per vincer, sé tutto non dà. / Cara Patria, io son per te: / Viva l’Italia! Viva il Re! [...] / Maledetto chi parla di pace, / Se il fratello che geme o che giace / Vendicato da’ suoi non sarà».
Il nazionalismo, in sostanza, doveva penetrare nei sentimenti e persino nei gesti più insignificanti della vita di tutti i giorni. Per i bambini, ciò significava compiere il proprio dovere, ubbidire a insegnanti e genitori e mostrarsi disponibili con i compagni di scuola in difficoltà. Tra italiani doveva esserci solidarietà, a tutti i livelli, giacché si combatteva una guerra totale. Ma, ancora una volta, l’elemento chiave che consentiva di tenere unito l’intero popolo d’Italia era la minaccia rappresentata dall’austro-tedesco: «Il nemico – precisa Laura Guidi – è, nello stereotipo dominante, maschio e adulto: un uomo in armi, al quale tuttavia non viene riconosciuto il ruolo di soldato di una diversa patria. Non era soldato il combattente libico, assimilato piuttosto a un ribelle o a un delinquente; tanto meno lo sono l’austriaco o il tedesco, considerati barbari in lotta contro la civiltà. Le loro truppe non vengono chiamate ‘eserciti’, ma ‘orde’. La loro non è violenza disciplinata di un’armata, ma la crudeltà sanguinaria che nasce da istinti feroci e atavici».
Anche nell’aspetto fisico gli austro-tedeschi erano raffigurati come repellenti, al limite del mostruoso, dal momento che nei loro confronti si voleva suscitare un senso di orrore e ribrezzo. Perciò, nulla di male se soffrivano la fame o morivano di stenti: in quanto appartenenti ad una razza intrinsecamente malvagia – perché il nemico non aveva un volto definito: era semplicemente un’impersonale figura di barbaro –, coloro che si battevano per soffocare le legittime aspirazioni alla libertà dell’Italia non avevano diritto ad alcuna forma di rispetto e di umanità. In casi estremi, persino i bambini austriaci o tedeschi venivano considerati nemici indegni di pietà, anche se di gran lunga prevalente era la tendenza – nota la Guidi – ad «eludere l’intricata e contraddittoria relazione tra lo stereotipo della bontà e purezza infantile e quello di un popolo intrinsecamente e per sua natura abietto».
La Grande Guerra, in sostanza, costituì un evento drammatico ed emotivamente coinvolgente per milioni di bambini, per i quali fu appositamente inventato un linguaggio capace di colpire l’immaginazione e di penetrare nelle coscienze. Un linguaggio aggressivo, manicheo ed esaltante che molti di loro avrebbero ritrovato, oramai adolescenti o adulti, durante gli anni del fascismo.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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