martedì 11 novembre 2014

La storia sempre “contro” dei giornalisti e l’ossessione tipicamente italiana per i complotti

(articolo apparso su Prima Pagina del 25 ottobre 2014)

Da diversi anni, ormai, è in corso una singolare contrapposizione tra gli storici di professione (ovvero i professori universitari) e i giornalisti prestati alla storiografia. I primi – va da sé – si comportano con i secondi come farebbe un fratello maggiore nei confronti del minore: sono costantemente preoccupati, cioè, che non facciano troppo di testa loro e che seguano i consigli di chi con la storia si guadagna il pane. Quanto ai giornalisti, invece, essi hanno spesso la presunzione di voler scrivere una storia “contro”, inedita, che i professori – non è dato sapere per quale ragione – avrebbero interesse a tenere segreta, come a voler celare una verità scomoda e imbarazzante. Si tratta di una prassi oramai consolidata, ben messa in luce da Mario Isnenghi (docente di Storia contemporanea): «Nei meccanismi dissociativi di oggi, così nei confronti del Risorgimento come dell’antifascismo e della Resistenza, è d’uso stigmatizzare “storie ufficiali” e “vulgate” che, a rigore, non serve neppure tratteggiare: basta battezzarle così per liquidarle».
In questo, ci sentiamo di concordare con Isnenghi. Non è affatto vero che nelle aule universitarie la storia si insegna male, o meglio: non è vero che si insegna male dappertutto, che i professori al giorno d’oggi non valgono niente, che le cosiddette verità scomode vengono taciute, e così via. Esistono docenti preparati, disponibili e – cosa più importante – tutt’altro che ottusi, politicamente parlando. Anzi, oggi più di ieri – dopo la fine di quella che Pietro Scoppola definì «repubblica dei partiti» – è possibile parlare liberamente in aula, senza timore che un commento un po’ stonato (revisionista?) venga censurato o, peggio, procuri insulti o alzate di mani. Poi è ovvio: ci sono professori e professori. Come in ogni categoria, c’è il più bravo e il meno bravo; ma sostenere che i libri di storia (quelli scritti da professionisti) siano tutti scadenti e reticenti è una stupidaggine.
Piuttosto, c’è da chiedersi se i contributi storiografici firmati da giornalisti o non addetti ai lavori siano sempre attendibili, rigorosi e fondati su una scrupolosa ricerca documentaria. Anche qui è sbagliato fare di tutte le erbe un fascio. Esistono “dilettanti” che danno alle stampe volumi pregevoli e, al contrario, autori di autentica spazzatura. E, va detto, in questa categoria, i primi sono molto meno numerosi dei secondi, se non altro per una ragione del tutto ovvia: se cerchiamo un bravo storico, è più facile che lo troviamo tra chi si occupa del passato a tempo pieno, così come accade per qualsiasi altro mestiere. Se infatti ho bisogno, per esempio, di un falegname, mi rivolgo preferibilmente a un professionista o a uno che intaglia il legno per hobby? Spesso e volentieri, quindi, un libro senza note, magari con un titolo a sensazione e scritto da un semplice appassionato che nella vita non ha mai varcato la soglia di un archivio, si rivela essere nient’altro che una congerie di banalità e imprecisioni.
C’è, infine, un ultimo mito da sfatare. Non è vero che la cosiddetta “storia ufficiale” sia impossibilitata – per fantomatiche questioni di casta, per servilismo, per opportunismo – ad affrontare determinati argomenti “tabù”. Queste sono solo leggende diffuse ad arte da chi, come certi dilettanti, cerca una scorciatoia per affermarsi in quello stesso mondo che apertamente denigra. Possibile, infatti, come ha giustamente rilevato Giovanni De Luna (docente di Storia contemporanea), che la storia dei quotidiani sia sempre «nuova» e in grado di fare emergere retroscena loschi e poco indagati? È veramente credibile che i docenti (soprattutto, per ovvi motivi, quelli di storia contemporanea) ordiscano complotti per occultare dinamiche e processi storici potenzialmente pericolosi per il mondo della politica? Per un mondo, poi, che quando esce un libro, firmato da un giornalista, stracolmo di accuse alla casta (collusione con la mafia, corruzione, leggi ad personam, vitalizi esorbitanti, e via dicendo) opta sempre per un imbarazzato silenzio, come se l’opinione pubblica non fosse cosa di cui curarsi. Davvero, cioè, possiamo e vogliamo credere che il passato sia chiuso a chiave, tenuto al sicuro lontano dalle destabilizzanti penne degli storici di professione, e, invece, il presente sia libero e accessibile a chiunque voglia parlar male del politico di turno? Che – per esempio – il Risorgimento o la Resistenza siano ancora un campo minato, in un tempo nel quale infangare l’intero Parlamento sembra essere diventato il primo sport nazionale?
Siamo seri, su. Anche perché i libri di storia, scritti da storici, esistono, e a decine. Quali sarebbero, poi, questi argomenti tabù? Stando a quanto si legge oggigiorno, il Risorgimento, la guerra civile e la guerra fredda (ma non solo, ovviamente) sarebbero da riscrivere. Ma è davvero così? O forse fa comodo credere che sia così, magari per vendere un certo tipo di storia secondo le esigenze della politica? È bene sapere, infatti, che gli storici di professione non costituiscono un blocco omogeneo: anche tra loro c’è chi la pensa bianco e chi nero. Come tutti, si confrontano, si scontrano e discutono. Talvolta persino litigano!
Il punto è che nel nostro paese viviamo ormai con l’assillo del complotto. Forse proprio perché nessuno si fida più della politica e, soprattutto, dei suoi interpreti (in certi casi francamente indifendibili), siamo tutti un po’ propensi a dubitare, per partito preso, di tutto ciò che è bollato come istituzionale, o come “ufficiale”, nel caso della ricerca storica. Ed ecco quindi che prendono piede alcune interpretazioni maliziose, costantemente alla ricerca – ha scritto Angelo d’Orsi (docente di Storia del pensiero politico) – «del sensazionale, o ancora meglio del maleodorante, del putrescente»; le quali, quando non si fondano su fatti e avvenimenti inventati di sana pianta, giungono a conclusioni maliziose e, soprattutto, incuranti del pericolo più insidioso che minaccia ogni studioso (serio) del passato: l’anacronismo. Quando infatti si vuole fare un uso strumentale della storia (o anche, più banalmente, quando non si presta la dovuta attenzione), una tecnica efficace è quella di giudicare i fatti di ieri con le categorie mentali dell’oggi. Ad esempio: avrebbe senso infierire sulla figura di Arthur Schopenhauer, accusandolo di essere stato un uomo ottuso semplicemente perché – come moltissimi uomini del suo tempo – non stimava granché le donne dal punto di vista intellettuale? Chiaro che sarebbe fuori luogo, giacché applicheremmo al XIX secolo un giudizio che si adatterebbe ad un ipotetico Schopenhauer del 2014.
Altro esempio, per il quale riportiamo le acute osservazioni di Mario Isnenghi a proposito dei plebisciti risorgimentali: «C’è un abisso – certo – fra la parola d’ordine mazziniana del suffragio universale per eleggere nel 1849 un’Assemblea Costituente che avrebbe dovuto scegliere la forma istituzionale dello Stato, e quello che è veramente avvenuto: i plebisciti unanimisti, senza una effettiva alternativa, e quelle cifre imbarazzanti. Nessuna riserva, da parte mia, nell’apprezzare moralmente quei pochissimi che ebbero il fegato di dire “no” [...]. Ma anche nessuna esitazione a riconoscere comunque in quei plebisciti l’espressione – sfigurata – di un grande principio radicalmente innovativo: un uomo, un voto. E tu non puoi – erede esplicito o tacito dei Borboni, del granduca, del papa-re o della Serenissima – irridere alle modalità operative dei plebisciti perché probabilmente in quelle votazioni ci sono stati dei brogli, omettendo che era proprio il voto, il principio stesso di chiamare tutto il popolo a votare, a costituire il motivo di scandalo all’epoca e la discriminante tra il vecchio e il nuovo».
A ben vedere, quindi, il vero problema non riguarda i libri di storia in quanto tali, ma la loro diffusione e l’uso che ne viene fatto. Gli storici di professione hanno versato fiumi d’inchiostro per spiegare dinamiche ed avvenimenti: se esistono zone d’ombra, esse sono casomai dovute a carenze, non a complotti. Ciò che manca davvero, in Italia, è la volontà di documentarsi sul passato, cioè, detto banalmente, la voglia di leggere la storia, quella scritta da chi (docente, giornalista o appassionato che sia) il passato cerca di prenderlo sul serio. Certo, un ostacolo ingombrante c’è, eccome se c’è: ed è l’oggettiva complessità dei libri di storia, spesso ostici per il lettore sprovvisto degli strumenti necessari per orientarsi nell’universo della saggistica. Ma un conto è affermare che un volume dato alle stampe da un docente universitario rimarrà sempre un prodotto d’elite; altra cosa è rassegnarsi ad affidare la divulgazione – che pure è indispensabile – a pennivendoli che non si fanno scrupoli a manipolare il passato per convenienze di parte. Parlare chiaro – come pretendono di fare certi autori allergici alle note a piè di pagina – non offre alcuna garanzia (anzi: c’è da essere sospettosi!) sulla qualità del prodotto che si ha tra le mani.
Occorre pertanto fare chiarezza su cosa ci si aspetta dalla storia, poiché è evidente che se la si studia con secondi fini allora qualsiasi manipolazione diventa possibile. Un dato, però, è certo: in Italia non abbiamo bisogno di scrivere in continuazione nuovi volumi infarciti di presunte clamorose rivelazioni; casomai, dovremmo sforzarci di leggere e diffondere i libri, seri, che già esistono. Solo in quest’ottica, infatti, è possibile interrogarsi sull’esistenza di vulgate e chiedersi come mai alcuni argomenti sono più conosciuti di altri. Per quale motivo, per esempio, i manuali scolastici trascurano alcune vicende? Perché a scuola si leggono più o meno sempre gli stessi libri? Per quale ragione alcune giornate della memoria sono sempre in prima pagina, mentre altre non fanno notizia? Queste sono le domande da porre. Il resto è un finto e pretestuoso problema.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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