(articolo apparso su Prima Pagina del 25 ottobre 2014)
Da diversi anni, ormai, è in corso una singolare
contrapposizione tra gli storici di professione (ovvero i professori
universitari) e i giornalisti prestati alla storiografia. I primi – va da sé –
si comportano con i secondi come farebbe un fratello maggiore nei confronti del
minore: sono costantemente preoccupati, cioè, che non facciano troppo di testa
loro e che seguano i consigli di chi con la storia si guadagna il pane. Quanto
ai giornalisti, invece, essi hanno spesso la presunzione di voler scrivere una
storia “contro”, inedita, che i professori – non è dato sapere per quale
ragione – avrebbero interesse a tenere segreta, come a voler celare una verità
scomoda e imbarazzante. Si tratta di una prassi oramai consolidata, ben messa
in luce da Mario Isnenghi (docente di Storia contemporanea): «Nei meccanismi
dissociativi di oggi, così nei confronti del Risorgimento come dell’antifascismo
e della Resistenza, è d’uso stigmatizzare “storie ufficiali” e “vulgate” che, a
rigore, non serve neppure tratteggiare: basta battezzarle così per liquidarle».
In questo, ci sentiamo di concordare con Isnenghi. Non è
affatto vero che nelle aule universitarie la storia si insegna male, o meglio:
non è vero che si insegna male dappertutto, che i professori al giorno d’oggi
non valgono niente, che le cosiddette verità scomode vengono taciute, e così
via. Esistono docenti preparati, disponibili e – cosa più importante – tutt’altro
che ottusi, politicamente parlando. Anzi, oggi più di ieri – dopo la fine di
quella che Pietro Scoppola definì «repubblica dei partiti» – è possibile
parlare liberamente in aula, senza timore che un commento un po’ stonato
(revisionista?) venga censurato o, peggio, procuri insulti o alzate di mani.
Poi è ovvio: ci sono professori e professori. Come in ogni categoria, c’è il
più bravo e il meno bravo; ma sostenere che i libri di storia (quelli scritti
da professionisti) siano tutti scadenti e reticenti è una stupidaggine.
Piuttosto, c’è da chiedersi se i contributi storiografici
firmati da giornalisti o non addetti ai lavori siano sempre attendibili,
rigorosi e fondati su una scrupolosa ricerca documentaria. Anche qui è
sbagliato fare di tutte le erbe un fascio. Esistono “dilettanti” che danno alle
stampe volumi pregevoli e, al contrario, autori di autentica spazzatura. E, va
detto, in questa categoria, i primi sono molto meno numerosi dei secondi, se
non altro per una ragione del tutto ovvia: se cerchiamo un bravo storico, è più
facile che lo troviamo tra chi si occupa del passato a tempo pieno, così come
accade per qualsiasi altro mestiere. Se infatti ho bisogno, per esempio, di un
falegname, mi rivolgo preferibilmente a un professionista o a uno che intaglia
il legno per hobby? Spesso e volentieri, quindi, un libro senza note, magari
con un titolo a sensazione e scritto da un semplice appassionato che nella vita
non ha mai varcato la soglia di un archivio, si rivela essere
nient’altro che una congerie di banalità e imprecisioni.
C’è, infine, un ultimo mito da
sfatare. Non è vero che la cosiddetta “storia ufficiale” sia impossibilitata –
per fantomatiche questioni di casta, per servilismo, per opportunismo – ad
affrontare determinati argomenti “tabù”. Queste sono solo leggende diffuse ad
arte da chi, come certi dilettanti, cerca una scorciatoia per affermarsi in
quello stesso mondo che apertamente denigra. Possibile, infatti, come ha
giustamente rilevato Giovanni De Luna (docente di Storia contemporanea), che la
storia dei quotidiani sia sempre «nuova» e in grado di fare emergere retroscena
loschi e poco indagati? È veramente credibile che i docenti (soprattutto, per
ovvi motivi, quelli di storia contemporanea) ordiscano complotti per occultare
dinamiche e processi storici potenzialmente pericolosi per il mondo della
politica? Per un mondo, poi, che quando esce un libro, firmato da un giornalista,
stracolmo di accuse alla casta (collusione con la mafia, corruzione, leggi ad personam, vitalizi esorbitanti, e via
dicendo) opta sempre per un imbarazzato silenzio, come se l’opinione pubblica
non fosse cosa di cui curarsi. Davvero, cioè, possiamo e vogliamo credere che
il passato sia chiuso a chiave, tenuto al sicuro lontano dalle destabilizzanti
penne degli storici di professione, e, invece, il presente sia libero e
accessibile a chiunque voglia parlar male del politico di turno? Che – per esempio
– il Risorgimento o la Resistenza siano ancora un campo minato, in un tempo nel
quale infangare l’intero Parlamento sembra essere diventato il primo sport
nazionale?
Siamo seri, su. Anche perché i libri di
storia, scritti da storici, esistono, e a decine. Quali sarebbero, poi, questi
argomenti tabù? Stando a quanto si legge oggigiorno, il Risorgimento, la guerra
civile e la guerra fredda (ma non solo, ovviamente) sarebbero da riscrivere. Ma
è davvero così? O forse fa comodo credere che sia così, magari per vendere un
certo tipo di storia secondo le esigenze della politica? È bene sapere,
infatti, che gli storici di professione non costituiscono un blocco omogeneo:
anche tra loro c’è chi la pensa bianco e chi nero. Come tutti, si confrontano,
si scontrano e discutono. Talvolta persino litigano!
Il punto è che nel nostro paese viviamo
ormai con l’assillo del complotto. Forse proprio perché nessuno si fida più
della politica e, soprattutto, dei suoi interpreti (in certi casi francamente
indifendibili), siamo tutti un po’ propensi a dubitare, per partito preso, di
tutto ciò che è bollato come istituzionale, o come “ufficiale”, nel caso della
ricerca storica. Ed ecco quindi che prendono piede alcune interpretazioni
maliziose, costantemente alla ricerca – ha scritto Angelo d’Orsi (docente di
Storia del pensiero politico) – «del sensazionale, o ancora meglio del
maleodorante, del putrescente»; le quali, quando non si fondano su fatti e
avvenimenti inventati di sana pianta, giungono a conclusioni maliziose e,
soprattutto, incuranti del pericolo più insidioso che minaccia ogni studioso (serio)
del passato: l’anacronismo. Quando infatti si vuole fare un uso strumentale
della storia (o anche, più banalmente, quando non si presta la dovuta
attenzione), una tecnica efficace è quella di giudicare i fatti di ieri con le
categorie mentali dell’oggi. Ad esempio: avrebbe senso infierire sulla figura
di Arthur Schopenhauer, accusandolo di essere stato un uomo ottuso
semplicemente perché – come moltissimi uomini del suo tempo – non stimava
granché le donne dal punto di vista intellettuale? Chiaro che sarebbe fuori
luogo, giacché applicheremmo al XIX secolo un giudizio che si adatterebbe ad un
ipotetico Schopenhauer del 2014.
Altro esempio, per il quale
riportiamo le acute osservazioni di Mario Isnenghi a proposito dei plebisciti
risorgimentali: «C’è un abisso – certo – fra la parola d’ordine mazziniana del
suffragio universale per eleggere nel 1849 un’Assemblea Costituente che avrebbe
dovuto scegliere la forma istituzionale dello Stato, e quello che è veramente
avvenuto: i plebisciti unanimisti, senza una effettiva alternativa, e quelle
cifre imbarazzanti. Nessuna riserva, da parte mia, nell’apprezzare moralmente
quei pochissimi che ebbero il fegato di dire “no” [...]. Ma anche nessuna
esitazione a riconoscere comunque in quei plebisciti l’espressione – sfigurata –
di un grande principio radicalmente innovativo: un uomo, un voto. E tu non puoi
– erede esplicito o tacito dei Borboni, del granduca, del papa-re o della
Serenissima – irridere alle modalità operative dei plebisciti perché
probabilmente in quelle votazioni ci sono stati dei brogli, omettendo che era
proprio il voto, il principio stesso di chiamare tutto il popolo a votare, a
costituire il motivo di scandalo all’epoca e la discriminante tra il vecchio e
il nuovo».
A ben vedere, quindi, il vero problema
non riguarda i libri di storia in quanto tali, ma la loro diffusione e l’uso
che ne viene fatto. Gli storici di professione hanno versato fiumi d’inchiostro
per spiegare dinamiche ed avvenimenti: se esistono zone d’ombra, esse sono
casomai dovute a carenze, non a complotti. Ciò che manca davvero, in Italia, è
la volontà di documentarsi sul passato, cioè, detto banalmente, la voglia di
leggere la storia, quella scritta da chi (docente, giornalista o appassionato
che sia) il passato cerca di prenderlo sul serio. Certo, un ostacolo
ingombrante c’è, eccome se c’è: ed è l’oggettiva complessità dei libri di
storia, spesso ostici per il lettore sprovvisto degli strumenti necessari per
orientarsi nell’universo della saggistica. Ma un conto è affermare che un
volume dato alle stampe da un docente universitario rimarrà sempre un prodotto
d’elite; altra cosa è rassegnarsi ad affidare la divulgazione – che pure è
indispensabile – a pennivendoli che non si fanno scrupoli a manipolare il
passato per convenienze di parte. Parlare chiaro – come pretendono di fare
certi autori allergici alle note a piè di pagina – non offre alcuna garanzia
(anzi: c’è da essere sospettosi!) sulla qualità del prodotto che si ha tra le
mani.
Occorre pertanto fare chiarezza su
cosa ci si aspetta dalla storia, poiché è evidente che se la si studia con
secondi fini allora qualsiasi manipolazione diventa possibile. Un dato, però, è
certo: in Italia non abbiamo bisogno di scrivere in continuazione nuovi volumi
infarciti di presunte clamorose rivelazioni; casomai, dovremmo sforzarci di
leggere e diffondere i libri, seri, che già esistono. Solo in quest’ottica,
infatti, è possibile interrogarsi sull’esistenza di vulgate e chiedersi come
mai alcuni argomenti sono più conosciuti di altri. Per quale motivo, per
esempio, i manuali scolastici trascurano alcune vicende? Perché a scuola si
leggono più o meno sempre gli stessi libri? Per quale ragione alcune giornate
della memoria sono sempre in prima pagina, mentre altre non fanno notizia? Queste
sono le domande da porre. Il resto è un finto e pretestuoso problema.
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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