martedì 11 novembre 2014

L’attacco alla Russia del 1941 e i controversi rapporti tra Hitler e Stalin

(articolo apparso su Prima Pagina del 9 novembre 2014)

L’opinione corrente relativa all’attacco nazista all’Unione Sovietica del 22 giugno 1941 è che i russi furono colti completamente di sorpresa, dal momento che la decisione di Hitler di far marciare le sue truppe verso est rappresentava una clamorosa sconfessione degli accordi stipulati appena due anni prima e passati alla storia come patto Molotov-Ribbentrop. Innegabilmente c’è del vero in tutto questo, ma – secondo l’opinione dello storico americano John Lukacs, espressa nel volume 22 giugno 1941. L’attacco alla Russia, Corbaccio 2008 – i termini della questione vanno resi meno ambigui: chi fu colto di sorpresa fu essenzialmente Stalin, che di proposito ignorò tutti i segnali – che pure furono portati alla sua conoscenza – che lasciavano chiaramente intendere che la Germania stesse preparandosi per una guerra contro l’URSS.
Ambasciatori ed influenti uomini di governo di Inghilterra e Stati Uniti, ma anche membri dell’intelligence e della polizia politica sovietica, fecero il possibile per convincere il dittatore georgiano che di Hitler non c’era da fidarsi, facendogli peraltro notare l’ammassarsi minaccioso delle truppe del Reich in territorio polacco. Fino all’ultimo, però, Stalin non dette loro credito: la Germania era un paese alleato, ribatteva, e non sarebbe certo venuta meno agli accordi stipulati. La sua fiducia in Hitler, in altre parole, era totale, al punto che ancora il 17 giugno (cinque giorni prima dell’invasione), quando il commissario della sicurezza di Stato Merkulov depositò sulla sua scrivania un rapporto in cui si diceva che l’attacco tedesco sarebbe stato sferrato «da un momento all’altro», Stalin reagì con stizza, mandando letteralmente «a farsi fottere» la fonte di Merkulov, la quale altro non era – con tutta evidenza, dal suo punto di vista – che un «disinformatore».
Secondo Lukacs, la miopia di Stalin ha dell’incredibile: «Solo qualche settimana prima di giugno, le commissioni di confine congiunte tedesco-sovietiche avevano ispezionato e segnato le linee esatte di demarcazione, in particolare dove la frontiera non coincideva con un fiume. Attraverso le piatte, verdi e malinconiche pianure polacche era impossibile nascondere o anche solo confondere ciò che stava accadendo dalla parte tedesca, cioè la concentrazione di masse enormi di uomini e di migliaia di macchine belliche. Inoltre, come avviene a ogni confine, per quanto sorvegliato, c’era sempre un piccolo rivolo di uomini e donne che, per i più diversi scopi, lo superavano di nascosto; e tra questi non pochi erano le spie e i sabotatori». Significativamente, nei primi mesi del 1941 le incursioni clandestine in territorio sovietico si moltiplicarono, per non parlare dei frequenti sconfinamenti aerei. Ma Stalin non volle sentire ragioni: fino alla fine, le sue direttive furono di «non aprire il fuoco».
Un simile comportamento è difficilmente spiegabile se non si tiene conto di una questione fondamentale: ovvero che tra le ragioni che determinarono la guerra tra Germania e URSS, l’ideologia ebbe un ruolo secondario. Contrariamente a quanto più volte è stato detto e scritto, Hitler non attaccò Stalin poiché riteneva inevitabile una prova di forza per annientare il bolscevismo, ma, al contrario, diede l’ordine di varcare la frontiera sovietica essenzialmente per motivi strategici, legati agli obiettivi di lunga durata che si era prefisso all’inizio della Seconda guerra mondiale. Per il dittatore del Reich, infatti, tutto era subordinato alla politica: egli si accordò con Stalin finché ritenne opportuno servirsi dell’appoggio dei sovietici (con i quali progettò di smembrare la Polonia e l’Europa nord-orientale, opportunamente divisa in due «sfere d’influenza»), salvo poi cambiare drasticamente rotta quando si persuase che annientare l’URSS fosse il solo modo per costringere l’Inghilterra alla resa.
Scrivendo a Mussolini per informarlo dell’invasione della Russia, Hitler fu piuttosto esplicito riguardo ai suoi obiettivi militari: «[Le speranze dell’Inghilterra] si basano unicamente sul presupposto: Russia e America. Non abbiamo alcuna possibilità di eliminare l’America. Ma è sicuramente in nostro potere eliminare la Russia». Il Fuhrer riteneva pertanto – e le sue argomentazioni paiono in effetti convincenti – che Churchill e Roosevelt si sarebbero trovati con le mani legate in caso di annientamento dell’URSS, giacché una Germania in armi padrona incontrastata del vecchio continente sarebbe stata pressoché inattaccabile dalle forze angloamericane. L’anticomunismo, in sostanza, non c’entrava nulla, o meglio: fu tirato in ballo per giustificare un gesto di per sé inspiegabile, ma va detto – sottolinea Lukacs – che tra le motivazioni che spinsero Hitler a dare il via all’operazione Barbarossa l’ideologia occupava un posto del tutto secondario.
Hitler giocò in sostanza una doppia partita a braccio di ferro. Una contro Francia e Gran Bretagna, interessate a trovare un’intesa antitedesca con l’URSS e altresì convinte che nazismo e bolscevismo non potessero in alcun modo sottoscrivere un accordo; l’altra con lo stesso Stalin, prima attratto nell’orbita germanica, poi pugnalato alle spalle. Il Fuhrer del resto era sicuro che l’Unione Sovietica non sarebbe mai scesa a patti con le potenze capitaliste occidentali, tanto più che i rapporti (anche commerciali) con la Russia erano buoni. Quanto a Stalin, va sottolineato che egli aveva un’alta considerazione del popolo tedesco (il nome stesso che adottò deriva dalla traslitterazione russa della parola stahl, in tedesco acciaio) e ammirava Hitler, di cui subiva il fascino e ammirava la risolutezza.
A parere di Lukacs non deve pertanto stupire la lentezza di riflessi del dittatore georgiano. Egli si sentiva forte del patto di non aggressione stipulato nel 1939 ed era propenso – per cultura ed educazione – a diffidare assai più delle democrazie occidentali che dell’autorevole Fuhrer della potente Germania nazista. Per questo aveva ignorato tutte le avvisaglie di guerra (e l’aspetto curioso della vicenda è che Hitler non fece poi granché per tenere segreti i preparativi dell’invasione), bollandole come subdoli tentativi di destabilizzare il governo sovietico; e per questo, anche dopo il 22 giugno, persistette nell’illusione che un accordo con i tedeschi fosse ancora possibile.
Chi seppe davvero intuire la potenziale portata dei tentennamenti di Stalin fu Churchill, il quale – precisa Lukacs – sapeva perfettamente che senza i russi gli Alleati non avrebbero mai potuto sconfiggere Hitler. Scrive infatti lo storico americano: «Il timore che Stalin potesse ancora concludere un patto con Hitler ossessionò Churchill fin quasi alla fine della guerra, e questo spiega molti degli infelici compromessi e delle concessioni che sempre gli accordò, e spiega anche l’esagerata formulazione di certe sue lodi a Stalin. (Non erano né basate sul calcolo, né completamente insincere, ma Churchill si decise a vedere in Stalin uno statista e un grande leader militare)».
Anche Hitler – il che è quantomeno singolare – condivideva queste opinioni: se infatti si decise ad attaccare Stalin e il suo impero, fu poiché ritenne che quella fosse l’unica mossa strategica praticabile per colpire al cuore il suo vero, mortale nemico: la Gran Bretagna. Il generale Franz Halder scrisse infatti sul suo diario che il 22 agosto 1941, in occasione di un colloquio, il Fuhrer precisò che il suo scopo era «eliminare definitivamente la Russia come alleata dell’Inghilterra sul continente e pertanto togliere all’Inghilterra qualsiasi speranza di un mutamento nella propria sorte». Concetto, quest’ultimo, ribadito ancora il successivo 28 ottobre in uno scambio di opinioni con l’ammiraglio Kurt Fricke: «La caduta di Mosca potrebbe addirittura costringere l’Inghilterra a firmare immediatamente la pace».
Ciò che Hitler sottovalutò fu, tuttavia, la capacità di resistenza degli inglesi e dei sovietici, che seppero incassare atroci sconfitte prima di lanciarsi, uniti in un’alleanza antinazista inizialmente non prevista dal Fuhrer, al decisivo contrattacco. Churchill e Stalin, di certo, non si amavano: ma Hitler, divenuto suprema minaccia per la stabilità europea e per la stessa sopravvivenza di URSS e Inghilterra come grandi potenze, riuscì con la sua aggressività ad avvicinarli, ancor prima del risolutivo intervento americano nel conflitto. Lo statista inglese, del resto, già alla vigilia del 22 giugno era stato piuttosto esplicito al riguardo: come riferì il suo segretario Jock Colville, egli affermò che se Hitler avesse invaso l’inferno, lui, almeno per una volta, avrebbe parlato bene del diavolo.  

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