(articolo apparso su Prima Pagina del 9 novembre 2014)
L’opinione corrente relativa all’attacco nazista all’Unione
Sovietica del 22 giugno 1941 è che i russi furono colti completamente di
sorpresa, dal momento che la decisione di Hitler di far marciare le sue truppe
verso est rappresentava una clamorosa sconfessione degli accordi stipulati appena
due anni prima e passati alla storia come patto Molotov-Ribbentrop.
Innegabilmente c’è del vero in tutto questo, ma – secondo l’opinione dello
storico americano John Lukacs, espressa nel volume 22 giugno 1941. L’attacco alla Russia, Corbaccio 2008 – i termini
della questione vanno resi meno ambigui: chi fu colto di sorpresa fu
essenzialmente Stalin, che di proposito ignorò tutti i segnali – che pure
furono portati alla sua conoscenza – che lasciavano chiaramente intendere che
la Germania stesse preparandosi per una guerra contro l’URSS.
Ambasciatori ed influenti uomini di governo di
Inghilterra e Stati Uniti, ma anche membri dell’intelligence e della polizia
politica sovietica, fecero il possibile per convincere il dittatore georgiano
che di Hitler non c’era da fidarsi, facendogli peraltro notare l’ammassarsi
minaccioso delle truppe del Reich in territorio polacco. Fino all’ultimo, però,
Stalin non dette loro credito: la Germania era un paese alleato, ribatteva, e
non sarebbe certo venuta meno agli accordi stipulati. La sua fiducia in Hitler,
in altre parole, era totale, al punto che ancora il 17 giugno (cinque giorni prima
dell’invasione), quando il commissario della sicurezza di Stato Merkulov
depositò sulla sua scrivania un rapporto in cui si diceva che l’attacco tedesco
sarebbe stato sferrato «da un momento all’altro», Stalin reagì con stizza,
mandando letteralmente «a farsi fottere» la fonte di Merkulov, la quale altro
non era – con tutta evidenza, dal suo punto di vista – che un «disinformatore».
Secondo Lukacs, la miopia di Stalin ha dell’incredibile:
«Solo qualche settimana prima di giugno, le commissioni di confine congiunte
tedesco-sovietiche avevano ispezionato e segnato le linee esatte di
demarcazione, in particolare dove la frontiera non coincideva con un fiume.
Attraverso le piatte, verdi e malinconiche pianure polacche era impossibile
nascondere o anche solo confondere ciò che stava accadendo dalla parte tedesca,
cioè la concentrazione di masse enormi di uomini e di migliaia di macchine
belliche. Inoltre, come avviene a ogni confine, per quanto sorvegliato, c’era
sempre un piccolo rivolo di uomini e donne che, per i più diversi scopi, lo
superavano di nascosto; e tra questi non pochi erano le spie e i sabotatori».
Significativamente, nei primi mesi del 1941 le incursioni clandestine in territorio
sovietico si moltiplicarono, per non parlare dei frequenti sconfinamenti aerei.
Ma Stalin non volle sentire ragioni: fino alla fine, le sue direttive furono di
«non aprire il fuoco».
Un simile comportamento è difficilmente spiegabile se non
si tiene conto di una questione fondamentale: ovvero che tra le ragioni che
determinarono la guerra tra Germania e URSS, l’ideologia ebbe un ruolo
secondario. Contrariamente a quanto più volte è stato detto e scritto, Hitler
non attaccò Stalin poiché riteneva inevitabile una prova di forza per
annientare il bolscevismo, ma, al contrario, diede l’ordine di varcare la
frontiera sovietica essenzialmente per motivi strategici, legati agli obiettivi
di lunga durata che si era prefisso all’inizio della Seconda guerra mondiale. Per
il dittatore del Reich, infatti, tutto era subordinato alla politica: egli si
accordò con Stalin finché ritenne opportuno servirsi dell’appoggio dei
sovietici (con i quali progettò di smembrare la Polonia e l’Europa
nord-orientale, opportunamente divisa in due «sfere d’influenza»), salvo poi
cambiare drasticamente rotta quando si persuase che annientare l’URSS fosse il
solo modo per costringere l’Inghilterra alla resa.
Scrivendo a Mussolini per informarlo dell’invasione della
Russia, Hitler fu piuttosto esplicito riguardo ai suoi obiettivi militari: «[Le
speranze dell’Inghilterra] si basano unicamente sul presupposto: Russia e
America. Non abbiamo alcuna possibilità di eliminare l’America. Ma è
sicuramente in nostro potere eliminare la Russia». Il Fuhrer riteneva pertanto
– e le sue argomentazioni paiono in effetti convincenti – che Churchill e
Roosevelt si sarebbero trovati con le mani legate in caso di annientamento dell’URSS,
giacché una Germania in armi padrona incontrastata del vecchio continente
sarebbe stata pressoché inattaccabile dalle forze angloamericane. L’anticomunismo,
in sostanza, non c’entrava nulla, o meglio: fu tirato in ballo per giustificare
un gesto di per sé inspiegabile, ma va detto – sottolinea Lukacs – che tra le
motivazioni che spinsero Hitler a dare il via all’operazione Barbarossa l’ideologia
occupava un posto del tutto secondario.
Hitler giocò in sostanza una doppia partita a braccio di
ferro. Una contro Francia e Gran Bretagna, interessate a trovare un’intesa
antitedesca con l’URSS e altresì convinte che nazismo e bolscevismo non
potessero in alcun modo sottoscrivere un accordo; l’altra con lo stesso Stalin,
prima attratto nell’orbita germanica, poi pugnalato alle spalle. Il Fuhrer del
resto era sicuro che l’Unione Sovietica non sarebbe mai scesa a patti con le
potenze capitaliste occidentali, tanto più che i rapporti (anche commerciali)
con la Russia erano buoni. Quanto a Stalin, va sottolineato che egli aveva un’alta
considerazione del popolo tedesco (il nome stesso che adottò deriva dalla
traslitterazione russa della parola stahl,
in tedesco acciaio) e ammirava Hitler, di cui subiva il fascino e ammirava la
risolutezza.
A parere di Lukacs non deve pertanto stupire la lentezza
di riflessi del dittatore georgiano. Egli si sentiva forte del patto di non
aggressione stipulato nel 1939 ed era propenso – per cultura ed educazione – a
diffidare assai più delle democrazie occidentali che dell’autorevole Fuhrer
della potente Germania nazista. Per questo aveva ignorato tutte le avvisaglie
di guerra (e l’aspetto curioso della vicenda è che Hitler non fece poi granché
per tenere segreti i preparativi dell’invasione), bollandole come subdoli
tentativi di destabilizzare il governo sovietico; e per questo, anche dopo il
22 giugno, persistette nell’illusione che un accordo con i tedeschi fosse
ancora possibile.
Chi seppe davvero intuire la potenziale portata dei
tentennamenti di Stalin fu Churchill, il quale – precisa Lukacs – sapeva
perfettamente che senza i russi gli Alleati non avrebbero mai potuto
sconfiggere Hitler. Scrive infatti lo storico americano: «Il timore che Stalin
potesse ancora concludere un patto con Hitler ossessionò Churchill fin quasi
alla fine della guerra, e questo spiega molti degli infelici compromessi e
delle concessioni che sempre gli accordò, e spiega anche l’esagerata
formulazione di certe sue lodi a Stalin. (Non erano né basate sul calcolo, né
completamente insincere, ma Churchill si decise a vedere in Stalin uno statista
e un grande leader militare)».
Anche Hitler – il che è quantomeno singolare –
condivideva queste opinioni: se infatti si decise ad attaccare Stalin e il suo
impero, fu poiché ritenne che quella fosse l’unica mossa strategica praticabile
per colpire al cuore il suo vero, mortale nemico: la Gran Bretagna. Il generale
Franz Halder scrisse infatti sul suo diario che il 22 agosto 1941, in occasione
di un colloquio, il Fuhrer precisò che il suo scopo era «eliminare
definitivamente la Russia come alleata dell’Inghilterra sul continente e
pertanto togliere all’Inghilterra qualsiasi speranza di un mutamento nella
propria sorte». Concetto, quest’ultimo, ribadito ancora il successivo 28
ottobre in uno scambio di opinioni con l’ammiraglio Kurt Fricke: «La caduta di
Mosca potrebbe addirittura costringere l’Inghilterra a firmare immediatamente
la pace».
Ciò che Hitler sottovalutò fu, tuttavia, la capacità di
resistenza degli inglesi e dei sovietici, che seppero incassare atroci
sconfitte prima di lanciarsi, uniti in un’alleanza antinazista inizialmente non
prevista dal Fuhrer, al decisivo contrattacco. Churchill e Stalin, di certo,
non si amavano: ma Hitler, divenuto suprema minaccia per la stabilità europea e
per la stessa sopravvivenza di URSS e Inghilterra come grandi potenze, riuscì
con la sua aggressività ad avvicinarli, ancor prima del risolutivo intervento
americano nel conflitto. Lo statista inglese, del resto, già alla vigilia del
22 giugno era stato piuttosto esplicito al riguardo: come riferì il suo
segretario Jock Colville, egli affermò che se Hitler avesse invaso l’inferno, lui,
almeno per una volta, avrebbe parlato bene del diavolo.
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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