martedì 18 novembre 2014

«La Grande Guerra come fattore di divisione»: la riflessione di Giovanni Sabbatucci

(articolo apparso su Prima Pagina del 16 novembre 2014)

Si è soliti affermare che la Grande Guerra abbia favorito ed accelerato il processo di unificazione nazionale, mettendo in contatto uomini di diversa estrazione e provenienza geografica e offrendo/imponendo loro una causa comune per cui combattere. C’è innegabilmente una parte di verità in questa considerazione, ma – come precisa Giovanni Sabbatucci nel saggio da cui questo articolo trae il titolo, contenuto nel recente volume Partiti e culture politiche nell’Italia unita (Laterza 2014) – occorre prestare molta attenzione a non trascurare il cosiddetto rovescio della medaglia. Poiché, se è incontestabile che il primo conflitto mondiale fu una guerra di massa che coinvolse l’intero popolo italiano, è altrettanto vero che esso produsse profonde fratture, come provò dopo il 1918 la «difficoltà a elaborare e conservare una memoria condivisa di un evento considerato comunque fondante dell’identità nazionale».
Le prime grosse perplessità suscitate dalla guerra furono legate alla decisione del governo italiano di prendervi parte, contro il parere di una percentuale consistente dell’opinione pubblica. L’Italia, infatti, di per sé non era direttamente minacciata da altre potenze: come giustificare, pertanto, la scelta di giocare il tutto per tutto e di scendere in campo a fianco dell’Intesa, sconfessando un’alleanza, quella con gli Imperi centrali, istituita oltre trent’anni prima? Come far apparire necessaria l’entrata in guerra di fronte al popolo che si apprestava a combattere?
A queste domande il governo di fatto non rispose, azzardando la decisione di imbracciare il fucile nella convinzione che la lotta sarebbe stata breve, e avrebbe portato prestigio alle istituzioni. A sostenere la sua scelta fu il composito fronte interventista, i cui componenti si schieravano tanto a sinistra (si trattava delle forze che vedevano nel conflitto una contrapposizione tra democrazie e imperi autoritari) quanto a destra (con i nazionalisti, animati da un patriottismo decisamente aggressivo e mirante a fare entrare l’Italia nel novero delle grandi potenze europee). Comune a tutte le diverse formazioni che caldeggiavano l’entrata in guerra dell’Italia era però – sottolinea Sabbatucci – «l’orientamento in funzione della politica interna: rovesciamento del sistema giolittiano, lotta contro il parlamentarismo “corruttore” e contro un socialismo negatore della patria e sordo a qualsiasi richiamo ideale, tensione verso una nuova e mai ben definita coesione nazionale, peraltro implicitamente negata nel momento in cui [...] si escludevano dal corpo autentico della nazione tutti coloro che non condividessero la scelta interventista o si mostrassero soltanto tiepidi nei suoi confronti».
Il primo importante fattore di divisione sorto con la guerra va dunque collegato alla pretesa della minoranza interventista di escludere dalla parte “sana” della nazione tutti coloro che si dichiaravano contrari alla partecipazione dell’Italia al conflitto mondiale. In sostanza, un’elite autodefinitasi tale in virtù di una presunta superiorità morale si sforzò di delegittimare – bollandoli come vili, opportunistici e, appunto, antipatriottici – gli sforzi compiuti da quanti si dichiaravano favorevoli alla neutralità. Altro che coesione nazionale! In Italia, scrive Sabbatucci, la mobilitazione pro-intervento «è di una parte contro un’altra e nel fronte dei nemici interni della nazione si colloca, o viene collocata, l’intera rappresentanza delle classi lavoratrici, con l’eccezione di poche frange eretiche».
L’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 fu dunque difficilmente “nazionalizzabile”, essenzialmente a causa di una certa attitudine giacobina espressa dal fronte interventista. Le frange, minoritarie, che volevano la guerra si mostrarono fortemente intolleranti nei confronti di chi avversava il loro pensiero, il che avvenne nonostante le forze neutraliste fossero tutt’altro che intransigenti o disposte a ricorrere al sabotaggio dell’impresa bellica (subita e non voluta). Persino i socialisti furono tutto sommato collaborativi: il loro «né aderire né sabotare» non rappresentò infatti un grosso problema per il governo – il quale, però, non volle concedere alcuna tregua politica e non concepì alcun programma di allargamento delle basi di consenso all’esecutivo –, tanto più che sentimenti antiaustriaci erano piuttosto diffusi anche in seno al PSI.
In Italia, in sostanza, non si creò un fronte comune intenzionato ad affrontare l’esperienza bellica nel segno della coesione nazionale. Al contrario, la guerra inasprì le differenze, creando autentiche fratture in conseguenza delle delusioni provocate dai ripetuti fallimenti militari. Paradossalmente, più il conflitto si prolungava, più il fronte interventista e nazionalista dava segni di insofferenza nei confronti degli avversari politici, ritenuti colpevoli di ostacolare le operazioni al fronte attraverso un atteggiamento disfattista. A incarnare le tendenze più radicali erano i nazionalisti di sinistra (provenienti dalle file radicali, socialiste rivoluzionarie, repubblicane), colpiti – scrive Sabbatucci – da una sorta di «sindrome giacobina», che li induceva «a sognare comitati di salute pubblica e plotoni di esecuzione». Ai loro occhi, il paese si presentava diviso «tra fautori e sabotatori dello sforzo bellico, tra membri sani e figli spuri della nazione, fra patrioti e antipatrioti», con la conseguente formazione di un doppio fronte: quello dei campi di battaglia, dove regnavano coraggio, abnegazione e sacrificio; e quello delle retrovie, dove a farla da padrone erano la viltà, l’inganno e il sotterfugio.
Solo in seguito alla rotta di Caporetto il governo riuscì in parte a compattare il paese e a proporsi come guida di uno sforzo realmente patriottico e nazionale, anche se non va dimenticato che le spinte centripete favorite dall’emergenza bellica (la quale richiamava tutte le forze politiche a una maggiore responsabilità) furono controbilanciate dagli effetti della Rivoluzione d’ottobre, che rese insanabile la frattura tra un PSI ormai approdato stabilmente su posizioni rivoluzionarie e il fronte interventista. Ad ogni modo, dopo Caporetto si tentò – in particolare attraverso i cosiddetti Uffici P, responsabili della propaganda – di far leva su una retorica che fosse il più possibile inclusiva, soprattutto in considerazione del fatto che la guerra del Piave era molto diversa da quella dell’Isonzo, giacché – scrive Sabbatucci – aveva «caratteristiche che ben si prestavano a riscattare almeno in parte la reale durezza dell’esperienza bellica e a fornire il materiale per la costruzione di un epos nazionale in cui la maggioranza della popolazione potesse riconoscersi».
I risultati furono parziali. Da un lato, infatti, quella del Piave fu realmente vissuta come una guerra patriottica, capace di unire il popolo italiano in un comune, estremo sforzo per difendere il suolo della nazione; ma dall’altro, specialmente dopo la vittoria, l’atteggiamento sempre più intransigente dei socialisti massimalisti bloccò ogni possibilità di dialogo tra classe operaia e istituzioni. Per il PSI la guerra era stata combattuta senza un valido motivo, il che giustificava toni sempre più aggressivi della propaganda, plateali incitamenti alla violenza, programmi insurrezionali, nonché il disprezzo per tutti gli ex combattenti che non accettavano di riconoscersi come vittime del conflitto. Ma un simile atteggiamento – che costituì un errore di calcolo politico solo tardivamente riconosciuto – ebbe l’immediato effetto di favorire una ripresa dell’estremismo interventista e in seguito l’inevitabile conseguenza di isolare sempre più i socialisti, favorendo la successiva avanzata delle camicie nere di Mussolini. «Di certo – rileva al riguardo Sabbatucci –, l’oltranzismo nazionalista di futuristi, arditi e di altre schegge minoritarie del mondo combattentistico (fra le quali cercavano di farsi largo i primi Fasci di combattimento) avrebbe avuto spazi politici ridotti e scarsa visibilità se non gli fosse stata data l’opportunità di ergersi a difensore e vindice dei valori della guerra contro l’esplicita minaccia che veniva dalle espressioni ufficiali del movimento operaio».
Vari elementi, in definitiva, contribuirono a fare della Grande Guerra un evento destinato a dividere, piuttosto che a unire, gli italiani. Anche dopo la sua conclusione, fattori quali l’incapacità dei governi del primo dopoguerra di risolvere la delicata questione adriatica (alla base della nascita del mito della cosiddetta «vittoria mutilata»), il sostanziale successo della propaganda del fascismo (abile a presentarsi quale unico erede legittimo dell’«Italia di Vittorio Veneto») e, nell’ultimo cinquantennio, l’orientamento “revisionistico” della storiografia, mirante a gettare luce sulle vicende meno patriottiche e più “crude” legate alla guerra (diserzioni, ammutinamenti, processi militari) hanno fatto sì che il primo conflitto mondiale continuasse a costituire un tema di scontro. Solo di recente l’interesse prettamente storiografico ha preso il sopravvento sulle divisioni di natura ideologica, anche se – conclude Sabbatucci – «resta, sia pure attenuata, la difficoltà di inserire l’evento in una storia condivisa e pacificata, capace di includere e riassorbire realtà complesse e contraddittorie, di coniugare la celebrazione delle glorie nazionali con la denuncia degli orrori e con l’elaborazione dei lutti».

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