(articolo apparso su Prima Pagina del 16 novembre 2014)
Si è soliti affermare che la Grande Guerra abbia favorito
ed accelerato il processo di unificazione nazionale, mettendo in contatto
uomini di diversa estrazione e provenienza geografica e offrendo/imponendo loro
una causa comune per cui combattere. C’è innegabilmente una parte di verità in
questa considerazione, ma – come precisa Giovanni Sabbatucci nel saggio da cui
questo articolo trae il titolo, contenuto nel recente volume Partiti e culture politiche nell’Italia
unita (Laterza 2014) – occorre prestare molta attenzione a non trascurare
il cosiddetto rovescio della medaglia. Poiché, se è incontestabile che il primo
conflitto mondiale fu una guerra di massa che coinvolse l’intero popolo
italiano, è altrettanto vero che esso produsse profonde fratture, come provò
dopo il 1918 la «difficoltà a elaborare e conservare una memoria condivisa di
un evento considerato comunque fondante dell’identità nazionale».
Le prime grosse perplessità suscitate dalla guerra furono
legate alla decisione del governo italiano di prendervi parte, contro il parere
di una percentuale consistente dell’opinione pubblica. L’Italia, infatti, di
per sé non era direttamente minacciata da altre potenze: come giustificare, pertanto,
la scelta di giocare il tutto per tutto e di scendere in campo a fianco dell’Intesa,
sconfessando un’alleanza, quella con gli Imperi centrali, istituita oltre trent’anni
prima? Come far apparire necessaria l’entrata in guerra di fronte al popolo che
si apprestava a combattere?
A queste domande il governo di fatto non rispose,
azzardando la decisione di imbracciare il fucile nella convinzione che la lotta
sarebbe stata breve, e avrebbe portato prestigio alle istituzioni. A sostenere
la sua scelta fu il composito fronte interventista, i cui componenti si
schieravano tanto a sinistra (si trattava delle forze che vedevano nel
conflitto una contrapposizione tra democrazie e imperi autoritari) quanto a
destra (con i nazionalisti, animati da un patriottismo decisamente aggressivo e
mirante a fare entrare l’Italia nel novero delle grandi potenze europee). Comune
a tutte le diverse formazioni che caldeggiavano l’entrata in guerra dell’Italia
era però – sottolinea Sabbatucci – «l’orientamento in funzione della politica
interna: rovesciamento del sistema giolittiano, lotta contro il parlamentarismo
“corruttore” e contro un socialismo negatore della patria e sordo a qualsiasi
richiamo ideale, tensione verso una nuova e mai ben definita coesione
nazionale, peraltro implicitamente negata nel momento in cui [...] si
escludevano dal corpo autentico della nazione tutti coloro che non
condividessero la scelta interventista o si mostrassero soltanto tiepidi nei
suoi confronti».
Il primo importante fattore di divisione sorto con la
guerra va dunque collegato alla pretesa della minoranza interventista di
escludere dalla parte “sana” della nazione tutti coloro che si dichiaravano
contrari alla partecipazione dell’Italia al conflitto mondiale. In sostanza, un’elite
autodefinitasi tale in virtù di una presunta superiorità morale si sforzò di
delegittimare – bollandoli come vili, opportunistici e, appunto,
antipatriottici – gli sforzi compiuti da quanti si dichiaravano favorevoli alla
neutralità. Altro che coesione nazionale! In Italia, scrive Sabbatucci, la
mobilitazione pro-intervento «è di una parte contro un’altra e nel fronte dei nemici interni della nazione si
colloca, o viene collocata, l’intera rappresentanza delle classi lavoratrici,
con l’eccezione di poche frange eretiche».
L’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 fu dunque
difficilmente “nazionalizzabile”, essenzialmente a causa di una certa
attitudine giacobina espressa dal fronte interventista. Le frange, minoritarie,
che volevano la guerra si mostrarono fortemente intolleranti nei confronti di
chi avversava il loro pensiero, il che avvenne nonostante le forze neutraliste
fossero tutt’altro che intransigenti o disposte a ricorrere al sabotaggio dell’impresa
bellica (subita e non voluta). Persino i socialisti furono tutto sommato
collaborativi: il loro «né aderire né sabotare» non rappresentò infatti un
grosso problema per il governo – il quale, però, non volle concedere alcuna
tregua politica e non concepì alcun programma di allargamento delle basi di
consenso all’esecutivo –, tanto più che sentimenti antiaustriaci erano
piuttosto diffusi anche in seno al PSI.
In Italia, in sostanza, non si creò un fronte comune
intenzionato ad affrontare l’esperienza bellica nel segno della coesione
nazionale. Al contrario, la guerra inasprì le differenze, creando autentiche
fratture in conseguenza delle delusioni provocate dai ripetuti fallimenti
militari. Paradossalmente, più il conflitto si prolungava, più il fronte
interventista e nazionalista dava segni di insofferenza nei confronti degli
avversari politici, ritenuti colpevoli di ostacolare le operazioni al fronte attraverso
un atteggiamento disfattista. A incarnare le tendenze più radicali erano i
nazionalisti di sinistra (provenienti dalle file radicali, socialiste
rivoluzionarie, repubblicane), colpiti – scrive Sabbatucci – da una sorta di
«sindrome giacobina», che li induceva «a sognare comitati di salute pubblica e
plotoni di esecuzione». Ai loro occhi, il paese si presentava diviso «tra
fautori e sabotatori dello sforzo bellico, tra membri sani e figli spuri della
nazione, fra patrioti e antipatrioti», con la conseguente formazione di un
doppio fronte: quello dei campi di battaglia, dove regnavano coraggio,
abnegazione e sacrificio; e quello delle retrovie, dove a farla da padrone
erano la viltà, l’inganno e il sotterfugio.
Solo in seguito alla rotta di Caporetto il governo riuscì
in parte a compattare il paese e a proporsi come guida di uno sforzo realmente
patriottico e nazionale, anche se non va dimenticato che le spinte centripete
favorite dall’emergenza bellica (la quale richiamava tutte le forze politiche a
una maggiore responsabilità) furono controbilanciate dagli effetti della
Rivoluzione d’ottobre, che rese insanabile la frattura tra un PSI ormai approdato
stabilmente su posizioni rivoluzionarie e il fronte interventista. Ad ogni
modo, dopo Caporetto si tentò – in particolare attraverso i cosiddetti Uffici
P, responsabili della propaganda – di far leva su una retorica che fosse il più
possibile inclusiva, soprattutto in considerazione del fatto che la guerra del
Piave era molto diversa da quella dell’Isonzo, giacché – scrive Sabbatucci –
aveva «caratteristiche che ben si prestavano a riscattare almeno in parte la
reale durezza dell’esperienza bellica e a fornire il materiale per la
costruzione di un epos nazionale in
cui la maggioranza della popolazione potesse riconoscersi».
I risultati furono parziali. Da un lato, infatti, quella
del Piave fu realmente vissuta come una guerra patriottica, capace di unire il
popolo italiano in un comune, estremo sforzo per difendere il suolo della
nazione; ma dall’altro, specialmente dopo la vittoria, l’atteggiamento sempre
più intransigente dei socialisti massimalisti bloccò ogni possibilità di
dialogo tra classe operaia e istituzioni. Per il PSI la guerra era stata
combattuta senza un valido motivo, il che giustificava toni sempre più
aggressivi della propaganda, plateali incitamenti alla violenza, programmi
insurrezionali, nonché il disprezzo per tutti gli ex combattenti che non
accettavano di riconoscersi come vittime del conflitto. Ma un simile
atteggiamento – che costituì un errore di calcolo politico solo tardivamente
riconosciuto – ebbe l’immediato effetto di favorire una ripresa dell’estremismo
interventista e in seguito l’inevitabile conseguenza di isolare sempre più i
socialisti, favorendo la successiva avanzata delle camicie nere di Mussolini.
«Di certo – rileva al riguardo Sabbatucci –, l’oltranzismo nazionalista di
futuristi, arditi e di altre schegge minoritarie del mondo combattentistico
(fra le quali cercavano di farsi largo i primi Fasci di combattimento) avrebbe
avuto spazi politici ridotti e scarsa visibilità se non gli fosse stata data l’opportunità
di ergersi a difensore e vindice dei valori della guerra contro l’esplicita
minaccia che veniva dalle espressioni ufficiali del movimento operaio».
Vari elementi, in definitiva, contribuirono a fare della
Grande Guerra un evento destinato a dividere, piuttosto che a unire, gli
italiani. Anche dopo la sua conclusione, fattori quali l’incapacità dei governi
del primo dopoguerra di risolvere la delicata questione adriatica (alla base
della nascita del mito della cosiddetta «vittoria mutilata»), il sostanziale successo
della propaganda del fascismo (abile a presentarsi quale unico erede legittimo
dell’«Italia di Vittorio Veneto») e, nell’ultimo cinquantennio, l’orientamento
“revisionistico” della storiografia, mirante a gettare luce sulle vicende meno
patriottiche e più “crude” legate alla guerra (diserzioni, ammutinamenti,
processi militari) hanno fatto sì che il primo conflitto mondiale continuasse a
costituire un tema di scontro. Solo di recente l’interesse prettamente
storiografico ha preso il sopravvento sulle divisioni di natura ideologica,
anche se – conclude Sabbatucci – «resta, sia pure attenuata, la difficoltà di
inserire l’evento in una storia condivisa e pacificata, capace di includere e
riassorbire realtà complesse e contraddittorie, di coniugare la celebrazione
delle glorie nazionali con la denuncia degli orrori e con l’elaborazione dei
lutti».
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
Nessun commento:
Posta un commento