(articolo apparso su Prima Pagina del 4 novembre 2014)
Per prima cosa, è necessario essere franchi: il manuale
di storia non è un testo come un altro. Troppe aspettative, troppe polemiche –
più o meno strumentali – lo pongono continuamente sotto i riflettori, al punto
che è diventato quasi impossibile farne oggetto di una discussione che sia
scevra di preconcetti influenzati dal mondo dell’attualità politica. Il punto,
infatti, è che il manuale di storia, essendo nella stragrande maggioranza dei
casi – ahimè – il solo libro riguardante il passato letto dall’italiano medio,
non è percepito solo come uno strumento di lavoro, bensì, soprattutto, come un
mezzo per un fine: quello dell’educazione dei giovani.
L’idea che sta alla base di questa visione è ovvia: i
ragazzi studiano su un libro che ha il potere (quasi taumaturgico, verrebbe da
dire) di influenzarli. Il modo in cui viene letto il passato, in altre parole,
consente di programmare il futuro sulla base di un investimento educativo che
deve essere il più accurato possibile. Nessuna tolleranza, dunque, per i
manuali “faziosi”, giacché la storia deve essere raccontata in modo oggettivo
ed imparziale. Ma un’aspettativa del genere ha senso? È realmente possibile
eliminare la faziosità? E poi, soprattutto, cos’è la faziosità? Da cosa
dipende?
Per rispondere, occorre sfatare un mito diffusissimo, e
precisare che il manuale di storia oggettivamente perfetto non esiste. Il che
ha senso solo a patto di fare chiarezza su un aspetto fondamentale: ovvero che
la storia (intendendo con questo termine il fare storia, non certo, in
assoluto, il passato, giacché non tutto ciò che è passato è storia) non è una
lineare concatenazione di eventi certificabili, bensì una continua
interpretazione degli stessi. Se si accetta questa premessa, risulta evidente
che ogni libro di storia rispecchia necessariamente la soggettività del suo
autore, essendo peraltro ovvio – va da sé – che se la storia fosse
semplicemente un elenco di fatti e date non ci sarebbe più nemmeno bisogno
degli storici.
Dunque la storia è interpretazione, a tutti i livelli.
Anche quando si stabilisce cosa ricordare e cosa tralasciare, di fatto, si
interpreta il passato, stabilendo che un dato avvenimento è degno di nota e
merita di essere tramandato. Qualsiasi fatto, perciò, può entrare di diritto
nella storia, a condizione che uno storico reputi utile (per le più diverse
ragioni – e qui entra in gioco la soggettività) trasmetterlo ai suoi lettori. Ma
questo – si dirà – cosa c’entra con la faziosità? C’entra poiché molti, specie
nel mondo della politica, sono convinti che il manuale debba attenersi ai
“fatti” (altro falso ma suadente mito) e risparmiare agli studenti (manco
fossero creature indifese, incapaci di maturare convinzioni che non siano il
prodotto di una “manipolazione”) le interpretazioni, veicolo di faziosità. Il
che è un’assurdità, dal momento che il manuale non potrà mai essere quello che
un libro di storia, per sua stessa natura, non è, ovvero un racconto compilato –
per dirla con Edward Hallett Carr – mettendo insieme i fatti «come i
pesci sul banco del pescivendolo».
La pretesa oggettività dei manuali (oltre ad avere un
significativo precedente nel sussidiario unico per la scuola elementare
introdotto nel 1930 dal regime fascista, sulla base – ha scritto Piergiovanni
Genovesi – dell’«aspettativa che esso
dovesse essere un contenitore di verità assolute») non è altro, perciò,
che un falso e pretestuoso problema. Il che non significa che tutti i manuali
siano ben scritti e che ogni interpretazione del passato sia condivisibile.
Esistono manuali e manuali, alcuni pregevoli, altri decisamente scadenti.
Tuttavia, pensare che un manuale, per essere soddisfacente, debba avvicinarsi
quanto più possibile a un elenco asettico di nozioni incontestabili è una
stupidaggine, resa purtroppo credibile da una classe dirigente miope ed in gran
parte pressoché completamente digiuna di studi storici.
Ad ogni modo, negli ultimi anni abbiamo assistito a diverse
iniziative – tutte risoltesi, alla fine, in un nulla di fatto – volte a
screditare i metodi di insegnamento della storia nelle scuole. Riassumendo, nel
2000 il Consiglio Regionale del Lazio delibera l’istituzione di una commissione
di esperti per esprimere una valutazione sui manuali più diffusi nelle scuole;
nel 2002 – a partire dalla considerazione che «nelle scuole di ogni ordine e grado
l’insegnamento della storia [...] deve svolgersi attraverso l’utilizzo di testi
di assoluto valore scientifico che tengano conto in modo obiettivo di tutte le
correnti culturali e di pensiero, per un confronto democratico e liberale che
assicuri un corretto apprendimento del passato» – viene presentata una proposta
di legge per sollecitare il Governo affinché intervenga per risolvere l’annosa
questione della faziosità dei manuali; nel 2011, infine, si giunge alla
richiesta di istituire una Commissione parlamentare per affrontare il problema
«dell’idea gramsciana» che costituirebbe il fondamento dell’insegnamento della
storia nella scuola.
Sotto accusa è finita, in particolare, la cosiddetta egemonia
culturale della sinistra, responsabile – a detta dei promotori delle iniziative
sopra ricordate, tutti appartenenti a formazioni politiche di centro-destra –
dell’indottrinamento ideologico di cui sarebbero vittime gli studenti italiani.
Ma va detto che l’intero mondo accademico, compresi diversi storici non
catalogabili come “di sinistra”, ha preso le distanze dalla polemica sui
manuali, rivendicando, non senza un certo risentimento, l’autonomia della
storiografia, la quale non può essere soggetta ai dettami di una Commissione
parlamentare. Tra i vari pareri espressi dagli storici, forzatamente chiamati
in causa, merita di essere citato quello di Franco Cardini: «I nostri amici
politici, tranne rare eccezioni, non conoscono il mestiere dello storico e
hanno una visione ingenua della storia. Pensano che sia una scienza pura. Ma
non è così. Non lo è nemmeno per la fisica e la chimica. La scienza è dinamica
per sua natura, si mette in discussione costantemente. La verità assoluta si
trova in altre espressioni dello spirito umano, per esempio la teologia».
Il manuale, in sostanza, non può essere un Vangelo. Ed è altresì
assurdo pretendere che esso – sul modello dei moderni talk-show – rispetti i
parametri della par condicio, come se
le interpretazioni potessero bilanciarsi per non arrecare troppo disturbo ad
una determinata parte politica. Piuttosto occorre domandarsi cosa è lecito
aspettarsi da un manuale di storia; e avere l’intelligenza di rispondere che
esso rappresenta uno strumento (tra i tanti disponibili) e non un mezzo. Il
che, si badi, non significa affatto che un manuale non possa essere criticato:
tutto al mondo è perfettibile, e in questo senso l’insegnamento della storia
non fa certo eccezione. Tuttavia, è necessario sgombrare il campo da equivoci:
i difetti più ricorrenti riscontrabili nei manuali scolastici sono legati più
che altro alla loro stringatezza. È l’estremo bisogno di sintesi – di cui sembra
soffrire un po’ tutta la nostra società, che va sempre di fretta ed è assillata
da una sorta di implicito diktat che
le impone di non sottrarre troppo tempo alle attività cosiddette produttive –
il primo responsabile della trascuratezza con cui diversi manuali affrontano
molte delicate questioni riguardanti il nostro passato. Detto altrimenti, il
vero problema è che si studia e si legge troppo poco, e il manuale, da utile
strumento qual era e dovrebbe essere, viene investito della pesante
responsabilità di essere diventato l’unico
strumento a disposizione degli studenti.
La scuola dovrebbe favorire l’approfondimento, stimolare il
ragionamento, moltiplicare – e non ridurre al minimo – le letture obbligatorie.
Solo così facendo le lacune del manuale (in parte inevitabili, giacché esso –
anche se non nelle misure attuali – deve necessariamente attenersi ad un minimo
di sinteticità) possono essere colmate e risultare innocue. In sostanza,
pretendere di risolvere i problemi legati all’insegnamento della storia nelle
scuole con la sola revisione dei manuali non ha alcun senso, oltre ad essere un
modo indiretto (ma proprio per questo fastidioso) per dichiarare la più
assoluta sfiducia nelle capacità di analisi degli studenti.
Migliorare i manuali, pertanto, è possibile ma, al contempo,
inutile se non si va oltre il mito della didattica da libro unico. Al riguardo,
e in conclusione rispetto a quanto detto finora, è senza dubbio degna di nota
la riflessione di un docente di Storia contemporanea, Piergiovanni Genovesi:
«Il confronto tra posizioni e giudizi divergenti può e deve essere compiuto, ma
ciò non elimina la responsabilità soggettiva di offrire un quadro
interpretativo preciso, coerente, ed anche perfettibile: esso può infatti
essere oggetto di rielaborazione, ma ciò deve avvenire su sollecitazioni
interne al dibattito storiografico, non certo perché sgradito ad una
qualsivoglia parte politica o per volontà di una Commissione di natura
politica. Solo in questo modo lo studio della storia può difendere e sviluppare
la propria valenza educativa, che s’incentra sulla sua capacità di essere una
palestra per le capacità critiche dell’individuo».
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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