martedì 11 novembre 2014

Il manuale di storia nelle scuole e il falso mito dello studio oggettivo del passato

(articolo apparso su Prima Pagina del 4 novembre 2014)

Per prima cosa, è necessario essere franchi: il manuale di storia non è un testo come un altro. Troppe aspettative, troppe polemiche – più o meno strumentali – lo pongono continuamente sotto i riflettori, al punto che è diventato quasi impossibile farne oggetto di una discussione che sia scevra di preconcetti influenzati dal mondo dell’attualità politica. Il punto, infatti, è che il manuale di storia, essendo nella stragrande maggioranza dei casi – ahimè – il solo libro riguardante il passato letto dall’italiano medio, non è percepito solo come uno strumento di lavoro, bensì, soprattutto, come un mezzo per un fine: quello dell’educazione dei giovani.
L’idea che sta alla base di questa visione è ovvia: i ragazzi studiano su un libro che ha il potere (quasi taumaturgico, verrebbe da dire) di influenzarli. Il modo in cui viene letto il passato, in altre parole, consente di programmare il futuro sulla base di un investimento educativo che deve essere il più accurato possibile. Nessuna tolleranza, dunque, per i manuali “faziosi”, giacché la storia deve essere raccontata in modo oggettivo ed imparziale. Ma un’aspettativa del genere ha senso? È realmente possibile eliminare la faziosità? E poi, soprattutto, cos’è la faziosità? Da cosa dipende?
Per rispondere, occorre sfatare un mito diffusissimo, e precisare che il manuale di storia oggettivamente perfetto non esiste. Il che ha senso solo a patto di fare chiarezza su un aspetto fondamentale: ovvero che la storia (intendendo con questo termine il fare storia, non certo, in assoluto, il passato, giacché non tutto ciò che è passato è storia) non è una lineare concatenazione di eventi certificabili, bensì una continua interpretazione degli stessi. Se si accetta questa premessa, risulta evidente che ogni libro di storia rispecchia necessariamente la soggettività del suo autore, essendo peraltro ovvio – va da sé – che se la storia fosse semplicemente un elenco di fatti e date non ci sarebbe più nemmeno bisogno degli storici.
Dunque la storia è interpretazione, a tutti i livelli. Anche quando si stabilisce cosa ricordare e cosa tralasciare, di fatto, si interpreta il passato, stabilendo che un dato avvenimento è degno di nota e merita di essere tramandato. Qualsiasi fatto, perciò, può entrare di diritto nella storia, a condizione che uno storico reputi utile (per le più diverse ragioni – e qui entra in gioco la soggettività) trasmetterlo ai suoi lettori. Ma questo – si dirà – cosa c’entra con la faziosità? C’entra poiché molti, specie nel mondo della politica, sono convinti che il manuale debba attenersi ai “fatti” (altro falso ma suadente mito) e risparmiare agli studenti (manco fossero creature indifese, incapaci di maturare convinzioni che non siano il prodotto di una “manipolazione”) le interpretazioni, veicolo di faziosità. Il che è un’assurdità, dal momento che il manuale non potrà mai essere quello che un libro di storia, per sua stessa natura, non è, ovvero un racconto compilato – per dirla con Edward Hallett Carr – mettendo insieme i fatti «come i pesci sul banco del pescivendolo».
La pretesa oggettività dei manuali (oltre ad avere un significativo precedente nel sussidiario unico per la scuola elementare introdotto nel 1930 dal regime fascista, sulla base – ha scritto Piergiovanni Genovesi – dell’«aspettativa che esso  dovesse essere un contenitore di verità assolute») non è altro, perciò, che un falso e pretestuoso problema. Il che non significa che tutti i manuali siano ben scritti e che ogni interpretazione del passato sia condivisibile. Esistono manuali e manuali, alcuni pregevoli, altri decisamente scadenti. Tuttavia, pensare che un manuale, per essere soddisfacente, debba avvicinarsi quanto più possibile a un elenco asettico di nozioni incontestabili è una stupidaggine, resa purtroppo credibile da una classe dirigente miope ed in gran parte pressoché completamente digiuna di studi storici.
Ad ogni modo, negli ultimi anni abbiamo assistito a diverse iniziative – tutte risoltesi, alla fine, in un nulla di fatto – volte a screditare i metodi di insegnamento della storia nelle scuole. Riassumendo, nel 2000 il Consiglio Regionale del Lazio delibera l’istituzione di una commissione di esperti per esprimere una valutazione sui manuali più diffusi nelle scuole; nel 2002 – a partire dalla considerazione che «nelle scuole di ogni ordine e grado l’insegnamento della storia [...] deve svolgersi attraverso l’utilizzo di testi di assoluto valore scientifico che tengano conto in modo obiettivo di tutte le correnti culturali e di pensiero, per un confronto democratico e liberale che assicuri un corretto apprendimento del passato» – viene presentata una proposta di legge per sollecitare il Governo affinché intervenga per risolvere l’annosa questione della faziosità dei manuali; nel 2011, infine, si giunge alla richiesta di istituire una Commissione parlamentare per affrontare il problema «dell’idea gramsciana» che costituirebbe il fondamento dell’insegnamento della storia nella scuola.
Sotto accusa è finita, in particolare, la cosiddetta egemonia culturale della sinistra, responsabile – a detta dei promotori delle iniziative sopra ricordate, tutti appartenenti a formazioni politiche di centro-destra – dell’indottrinamento ideologico di cui sarebbero vittime gli studenti italiani. Ma va detto che l’intero mondo accademico, compresi diversi storici non catalogabili come “di sinistra”, ha preso le distanze dalla polemica sui manuali, rivendicando, non senza un certo risentimento, l’autonomia della storiografia, la quale non può essere soggetta ai dettami di una Commissione parlamentare. Tra i vari pareri espressi dagli storici, forzatamente chiamati in causa, merita di essere citato quello di Franco Cardini: «I nostri amici politici, tranne rare eccezioni, non conoscono il mestiere dello storico e hanno una visione ingenua della storia. Pensano che sia una scienza pura. Ma non è così. Non lo è nemmeno per la fisica e la chimica. La scienza è dinamica per sua natura, si mette in discussione costantemente. La verità assoluta si trova in altre espressioni dello spirito umano, per esempio la teologia».
Il manuale, in sostanza, non può essere un Vangelo. Ed è altresì assurdo pretendere che esso – sul modello dei moderni talk-show – rispetti i parametri della par condicio, come se le interpretazioni potessero bilanciarsi per non arrecare troppo disturbo ad una determinata parte politica. Piuttosto occorre domandarsi cosa è lecito aspettarsi da un manuale di storia; e avere l’intelligenza di rispondere che esso rappresenta uno strumento (tra i tanti disponibili) e non un mezzo. Il che, si badi, non significa affatto che un manuale non possa essere criticato: tutto al mondo è perfettibile, e in questo senso l’insegnamento della storia non fa certo eccezione. Tuttavia, è necessario sgombrare il campo da equivoci: i difetti più ricorrenti riscontrabili nei manuali scolastici sono legati più che altro alla loro stringatezza. È l’estremo bisogno di sintesi – di cui sembra soffrire un po’ tutta la nostra società, che va sempre di fretta ed è assillata da una sorta di implicito diktat che le impone di non sottrarre troppo tempo alle attività cosiddette produttive – il primo responsabile della trascuratezza con cui diversi manuali affrontano molte delicate questioni riguardanti il nostro passato. Detto altrimenti, il vero problema è che si studia e si legge troppo poco, e il manuale, da utile strumento qual era e dovrebbe essere, viene investito della pesante responsabilità di essere diventato l’unico strumento a disposizione degli studenti.
La scuola dovrebbe favorire l’approfondimento, stimolare il ragionamento, moltiplicare – e non ridurre al minimo – le letture obbligatorie. Solo così facendo le lacune del manuale (in parte inevitabili, giacché esso – anche se non nelle misure attuali – deve necessariamente attenersi ad un minimo di sinteticità) possono essere colmate e risultare innocue. In sostanza, pretendere di risolvere i problemi legati all’insegnamento della storia nelle scuole con la sola revisione dei manuali non ha alcun senso, oltre ad essere un modo indiretto (ma proprio per questo fastidioso) per dichiarare la più assoluta sfiducia nelle capacità di analisi degli studenti.
Migliorare i manuali, pertanto, è possibile ma, al contempo, inutile se non si va oltre il mito della didattica da libro unico. Al riguardo, e in conclusione rispetto a quanto detto finora, è senza dubbio degna di nota la riflessione di un docente di Storia contemporanea, Piergiovanni Genovesi: «Il confronto tra posizioni e giudizi divergenti può e deve essere compiuto, ma ciò non elimina la responsabilità soggettiva di offrire un quadro interpretativo preciso, coerente, ed anche perfettibile: esso può infatti essere oggetto di rielaborazione, ma ciò deve avvenire su sollecitazioni interne al dibattito storiografico, non certo perché sgradito ad una qualsivoglia parte politica o per volontà di una Commissione di natura politica. Solo in questo modo lo studio della storia può difendere e sviluppare la propria valenza educativa, che s’incentra sulla sua capacità di essere una palestra per le capacità critiche dell’individuo».

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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