mercoledì 22 ottobre 2014

«Garibaldi in camicia nera»: la strumentalizzazione di un mito dalla marcia su Roma a Salò

(articolo apparso su Prima Pagina del 19 ottobre 2014)

Fino a non molti anni fa, Garibaldi incarnava un mito trasversale. Praticamente tutte le forze politiche, dalla morte dell’Eroe dei due mondi (avvenuta nel 1882) al consolidamento della Repubblica italiana, si sono contese il diritto di presentarsi come eredi del messaggio garibaldino, ciascuna privilegiando, di volta in volta, specifiche peculiarità dell’icona del Nizzardo. Garibaldi, in altre parole, è stato a lungo l’eroe di tutti: emblema di un’Italia “contro”, ribelle generoso e impavido, ma anche – come è stato scritto – «rivoluzionario disciplinato», capace di mettere da parte convinzioni e sentimenti per lealtà nei confronti di re Vittorio. Da un lato il Generale avventuriero, che presta la spada al servizio di popoli smaniosi di conquistare l’indipendenza; dall’altra il Garibaldi di Teano e dell’Obbedisco.
Tutti possono dunque attingere alla figura mitica di Garibaldi: i socialisti e le forze di sinistra hanno privilegiato l’anticlericalismo e l’istinto ribelle dell’Esule di Caprera, per definizione incompreso e sfruttato dai poteri forti; i cattolici e i liberali hanno posto l’accento sul senso del dovere e sul patriottismo del Nizzardo; persino chi oggi denigra apertamente il Generale (si pensi alla Lega Nord e alla sua campagna diffamatoria tesa a far emergere l’opportunismo di un uomo considerato meschino, rozzo e corrotto) è costretto a fare i conti con un’icona che, piaccia o no, è divenuta negli anni un simbolo universale di italianità. Esiste però, storicamente, un altro Garibaldi, oramai poco noto e forse un po’ ingombrante: si tratta del «Garibaldi in camicia nera» – come lo definisce Elena Pala nel suo ultimo, recente libro (Mursia 2011) –, simbolo dell’ideale passaggio di consegne tra le camicie rosse del Generale e i nuovi italiani di Mussolini, i quali con la marcia su Roma portano a compimento il lungo processo risorgimentale.
Il Garibaldi fascista non ha però, a sua volta, un unico volto. C’è infatti il Garibaldi del Ventennio, che rispecchia sostanzialmente l’immagine del rivoluzionario disciplinato: un eroe – sottolinea la Pala – «governativo, monarchico, leale con le istituzioni e con l’ordine costituito». E poi, dopo l’8 settembre e la risurrezione repubblicana del fascismo di Salò, c’è il Garibaldi «eroe dell’onore», che simboleggia il supremo sacrificio per un ideale, non importa se destinato alla sconfitta.
Il Garibaldi – potremmo definirlo istituzionale – del regime mussoliniano negli anni del consenso incarna pertanto, essenzialmente, i valori della disciplina e dell’obbedienza. L’esaltazione da parte fascista della figura del Generale è funzionale alla legittimazione del regime quale unico erede del Risorgimento: in sostanza, fatta l’unità d’Italia grazie al decisivo apporto dell’Eroe dei due mondi, è al fascismo che spetta – secondo la volontà del duce – il compito di forgiare l’italiano nuovo, il quale, per l’appunto, nei principi dell’obbedienza e della disciplina (si pensi al celebre motto «Credere, obbedire, combattere») deve riconoscere i cardini della propria fedeltà a Mussolini e al partito unico.
A questo servono, del resto, le celebrazioni garibaldine del 1932 (anno carico di suggestioni, in quanto coincidente con il cinquantenario della morte del Generale e con il decennale della marcia su Roma). Significativamente, Mussolini assume in prima persona la regia delle manifestazioni, che culminano, da un lato, con l’allestimento della mostra garibaldina presso il Palazzo delle Esposizioni a Roma e con la solenne cerimonia di trasposizione della salma di Anita da Genova alla capitale; dall’altro, con l’apertura della mostra della rivoluzione fascista. La scelta della differente tipologia delle celebrazioni – come bene spiega Elena Pala – non è certo affidata al caso: Mussolini intende infatti presentarsi non come un banale emulo dell’Eroe dei due mondi, bensì come colui che ha superato il maestro, portandone a compimento gli insegnamenti. Sottolinea al riguardo Elena Pala: «Laddove Garibaldi è il passato epico da celebrare e ricordare, il Duce è il presente e il futuro da vivere. Questa spinta verso la modernità è già ben rimarcata dal diverso linguaggio artistico utilizzato nel 1932 per l’esposizione garibaldina e, sempre nello stesso anno, in occasione della mostra della Rivoluzione fascista organizzata nel decennale della Marcia su Roma. La prima è impostata secondo canoni espositivi ottocenteschi di maniera. La tradizione garibaldina, appunto perché considerata esangue, è consegnata al suo tempo. Viene per questo musealizzata e celebrata nella mostra attraverso reliquie e cimeli. La seconda esposizione è strutturata, invece, il linea di netta discontinuità con la precedente esperienza. Fa leva su un allestimento audace, aggressivo, di forte impatto sul visitatore che ne risulta fortemente suggestionato e avvinto».
Rispetto a questo Garibaldi, l’eroe mitizzato durante la breve esperienza della Repubblica sociale italiana presenta alcuni tratti di singolare originalità. Se da un lato, infatti, il nuovo regime cerca di recuperare l’immagine consolidata del Generale quale simbolo dell’ideale continuità tra Risorgimento e fascismo, dall’altro la rottura con casa Savoia fa sì che alcune peculiarità del mito garibaldino vengano messe in secondo piano, dal momento che ora sono mutate le esigenze della propaganda. Così – precisa Elena Pala – l’Eroe dei due mondi assume, di fatto, un nuovo volto: «Da leale suddito della monarchia a fiero sostenitore della repubblica. Da condottiero, per destino, votato alla vittoria, a combattente per scelta, mosso solo dall’inderogabile impegno in difesa di una causa nobile. Da dittatore sostenuto dall’intero popolo a indomito comandante di una minoranza eroica».
Il Garibaldi di Salò è, pertanto, essenzialmente un repubblicano che, per il bene dell’Italia, in passato ha saputo mettere da parte le proprie idee per senso del dovere nei confronti della monarchia; ora però che il re ha tradito, egli si erge a supremo difensore della Repubblica, per la quale è disposto a donare, se necessario, la propria vita. Al riguardo, è significativo quanto scrisse il giornale «Brescia Repubblicana» il 2 giugno 1944, in occasione del 62° anniversario della morte del Generale: «Io fui Repubblicano, ma quando seppi che Carlo Alberto s’era fatto Campione d’Italia, io ho giurato di obbedirgli e seguire fedelmente la bandiera. […] Guai a noi se invece di stringerci intorno a quel capo, disperderemo la nostra forza in concetti diversi e inutili, o peggio ancora se incominceremo a spargere tra noi i semi della discordia».
A parlare, attraverso queste righe, è Garibaldi, ma è facile scorgere dietro di lui l’immagine di Mussolini (così come è evidente che il riferimento a Carlo Alberto nasconde un’allusione a Vittorio Emanuele III). Al pari di Garibaldi, infatti, anche il duce – fervente repubblicano, secondo il programma del fascismo delle origini – ha accettato di sottomettersi a casa Savoia, convinto di rendere, così facendo, un servizio all’Italia; tuttavia, di fronte alla fuga ignominiosa del re, il senso del dovere impone a Mussolini di assumere il comando della nuova Repubblica, anche se la situazione è critica, pressoché disperata. «Garibaldi – scrive la Pala – diventa per la Repubblica sociale italiana l’icona dell’eroe che non tentenna e, tanto meno, arretra quando la battaglia volge al peggio. Eroe impersonato da Mussolini, che parimenti non mostra di darsi per vinto, anche se la nazione sta per essere sopraffatta da un fronte nemico sovrastante».
Ecco allora che il Garibaldi di Salò diviene l’eroe dell’onore, il simbolo supremo della lealtà, dello spirito di sacrificio e dell’altruismo, contrapposto alla meschinità dei vili traditori della patria. Il Generale, in altre parole, è per il fascismo repubblicano la personificazione dell’ideale della fedeltà disinteressata, di un ideale che, a causa dell’emergenza bellica, assume una marcata connotazione elitaria. Morire per la patria quando tutti sembrano averla abbandonata è pertanto il destino cui va incontro, consapevolmente, il fascista rimasto fedele al duce dopo l’8 settembre. Di nuovo, Mussolini si presenta come l’erede di Garibaldi, come risulta evidente da questo stralcio, tratto da un articolo del «Corriere della Sera» del 2 giugno 1944, che insiste sul concetto della fedeltà al capo: «Fede. Ecco la sua forza, il segreto del suo fascino, la formula del suo magnetismo. Egli sapeva che la fede è dei pochi, dei puri, dei generosi, laddove quella delle moltitudini è spesso soltanto fanatismo; perciò ebbe sempre intorno un manipolo di eletti, e questi teneva sempre sotto carica, persuaso com’era che la fede trasfusa nell’esempio, applicata all’azione, sublimata dal gesto, fosse la massima generatrice di impulsi pugnaci. Dalla fede, unicamente dalla fede, scaturì quel prodigio che fu la spedizione dei Mille». Allo stesso modo, dalla fede doveva venire la volontà di sacrificarsi per la patria tradita e per il fascismo.

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