(articolo apparso su Prima Pagina del 19 ottobre 2014)
Fino a non molti anni fa, Garibaldi incarnava un mito
trasversale. Praticamente tutte le forze politiche, dalla morte dell’Eroe dei
due mondi (avvenuta nel 1882) al consolidamento della Repubblica italiana, si
sono contese il diritto di presentarsi come eredi del messaggio garibaldino,
ciascuna privilegiando, di volta in volta, specifiche peculiarità dell’icona
del Nizzardo. Garibaldi, in altre parole, è stato a lungo l’eroe di tutti:
emblema di un’Italia “contro”, ribelle generoso e impavido, ma anche – come è
stato scritto – «rivoluzionario disciplinato», capace di mettere da parte convinzioni
e sentimenti per lealtà nei confronti di re Vittorio. Da un lato il Generale
avventuriero, che presta la spada al servizio di popoli smaniosi di conquistare
l’indipendenza; dall’altra il Garibaldi di Teano e dell’Obbedisco.
Tutti possono dunque attingere alla figura mitica di
Garibaldi: i socialisti e le forze di sinistra hanno privilegiato l’anticlericalismo
e l’istinto ribelle dell’Esule di Caprera, per definizione incompreso e
sfruttato dai poteri forti; i cattolici e i liberali hanno posto l’accento sul
senso del dovere e sul patriottismo del Nizzardo; persino chi oggi denigra
apertamente il Generale (si pensi alla Lega Nord e alla sua campagna
diffamatoria tesa a far emergere l’opportunismo di un uomo considerato
meschino, rozzo e corrotto) è costretto a fare i conti con un’icona che,
piaccia o no, è divenuta negli anni un simbolo universale di italianità. Esiste
però, storicamente, un altro Garibaldi, oramai poco noto e forse un po’
ingombrante: si tratta del «Garibaldi in camicia nera» – come lo definisce
Elena Pala nel suo ultimo, recente libro (Mursia 2011) –, simbolo dell’ideale
passaggio di consegne tra le camicie rosse del Generale e i nuovi italiani di
Mussolini, i quali con la marcia su Roma portano a compimento il lungo processo
risorgimentale.
Il Garibaldi fascista non ha però, a
sua volta, un unico volto. C’è infatti il Garibaldi del Ventennio, che
rispecchia sostanzialmente l’immagine del rivoluzionario disciplinato: un eroe
– sottolinea la Pala – «governativo, monarchico, leale con le istituzioni e con
l’ordine costituito». E poi, dopo l’8 settembre e la risurrezione repubblicana
del fascismo di Salò, c’è il Garibaldi «eroe dell’onore», che simboleggia il
supremo sacrificio per un ideale, non importa se destinato alla sconfitta.
Il Garibaldi – potremmo definirlo
istituzionale – del regime mussoliniano negli anni del consenso incarna
pertanto, essenzialmente, i valori della disciplina e dell’obbedienza. L’esaltazione
da parte fascista della figura del Generale è funzionale alla legittimazione del
regime quale unico erede del Risorgimento: in sostanza, fatta l’unità d’Italia
grazie al decisivo apporto dell’Eroe dei due mondi, è al fascismo che spetta –
secondo la volontà del duce – il compito di forgiare l’italiano nuovo, il
quale, per l’appunto, nei principi dell’obbedienza e della disciplina (si pensi
al celebre motto «Credere, obbedire, combattere») deve riconoscere i cardini
della propria fedeltà a Mussolini e al partito unico.
A questo servono, del resto, le
celebrazioni garibaldine del 1932 (anno carico di suggestioni, in quanto
coincidente con il cinquantenario della morte del Generale e con il decennale
della marcia su Roma). Significativamente, Mussolini assume in prima persona la
regia delle manifestazioni, che culminano, da un lato, con l’allestimento della
mostra garibaldina presso il Palazzo delle Esposizioni a Roma e con la solenne
cerimonia di trasposizione della salma di Anita da Genova alla capitale; dall’altro,
con l’apertura della mostra della rivoluzione fascista. La scelta della
differente tipologia delle celebrazioni – come bene spiega Elena Pala – non è
certo affidata al caso: Mussolini intende infatti presentarsi non come un
banale emulo dell’Eroe dei due mondi, bensì come colui che ha superato il
maestro, portandone a compimento gli insegnamenti. Sottolinea al riguardo Elena
Pala: «Laddove Garibaldi è il passato epico da celebrare e ricordare, il Duce è
il presente e il futuro da vivere. Questa spinta verso la modernità è già ben
rimarcata dal diverso linguaggio artistico utilizzato nel 1932 per l’esposizione
garibaldina e, sempre nello stesso anno, in occasione della mostra della
Rivoluzione fascista organizzata nel decennale della Marcia su Roma. La prima è
impostata secondo canoni espositivi ottocenteschi di maniera. La tradizione
garibaldina, appunto perché considerata esangue, è consegnata al suo tempo.
Viene per questo musealizzata e celebrata nella mostra attraverso reliquie e
cimeli. La seconda esposizione è strutturata, invece, il linea di netta discontinuità
con la precedente esperienza. Fa leva su un allestimento audace, aggressivo, di
forte impatto sul visitatore che ne risulta fortemente suggestionato e avvinto».
Rispetto a questo Garibaldi, l’eroe
mitizzato durante la breve esperienza della Repubblica sociale italiana
presenta alcuni tratti di singolare originalità. Se da un lato, infatti, il
nuovo regime cerca di recuperare l’immagine consolidata del Generale quale
simbolo dell’ideale continuità tra Risorgimento e fascismo, dall’altro la
rottura con casa Savoia fa sì che alcune peculiarità del mito garibaldino
vengano messe in secondo piano, dal momento che ora sono mutate le esigenze
della propaganda. Così – precisa Elena Pala – l’Eroe dei due mondi assume, di
fatto, un nuovo volto: «Da leale suddito della monarchia a fiero sostenitore
della repubblica. Da condottiero, per destino, votato alla vittoria, a
combattente per scelta, mosso solo dall’inderogabile impegno in difesa di una
causa nobile. Da dittatore sostenuto dall’intero popolo a indomito comandante
di una minoranza eroica».
Il Garibaldi di Salò è, pertanto,
essenzialmente un repubblicano che, per il bene dell’Italia, in passato ha
saputo mettere da parte le proprie idee per senso del dovere nei confronti
della monarchia; ora però che il re ha tradito, egli si erge a supremo
difensore della Repubblica, per la quale è disposto a donare, se necessario, la
propria vita. Al riguardo, è significativo quanto scrisse il giornale «Brescia
Repubblicana» il 2 giugno 1944, in occasione del 62° anniversario della morte
del Generale: «Io fui Repubblicano, ma quando seppi che Carlo Alberto s’era
fatto Campione d’Italia, io ho giurato di obbedirgli e seguire fedelmente la
bandiera. […] Guai a noi se invece di stringerci intorno a quel capo,
disperderemo la nostra forza in concetti diversi e inutili, o peggio ancora se
incominceremo a spargere tra noi i semi della discordia».
A parlare, attraverso queste righe, è
Garibaldi, ma è facile scorgere dietro di lui l’immagine di Mussolini (così
come è evidente che il riferimento a Carlo Alberto nasconde un’allusione a
Vittorio Emanuele III). Al pari di Garibaldi, infatti, anche il duce – fervente
repubblicano, secondo il programma del fascismo delle origini – ha accettato di
sottomettersi a casa Savoia, convinto di rendere, così facendo, un servizio
all’Italia; tuttavia, di fronte alla fuga ignominiosa del re, il senso del
dovere impone a Mussolini di assumere il comando della nuova Repubblica, anche
se la situazione è critica, pressoché disperata. «Garibaldi – scrive la Pala –
diventa per la Repubblica sociale italiana l’icona dell’eroe che non tentenna
e, tanto meno, arretra quando la battaglia volge al peggio. Eroe impersonato da
Mussolini, che parimenti non mostra di darsi per vinto, anche se la nazione sta
per essere sopraffatta da un fronte nemico sovrastante».
Ecco allora che il Garibaldi di Salò
diviene l’eroe dell’onore, il simbolo supremo della lealtà, dello spirito di
sacrificio e dell’altruismo, contrapposto alla meschinità dei vili traditori
della patria. Il Generale, in altre parole, è per il fascismo repubblicano la
personificazione dell’ideale della fedeltà disinteressata, di un ideale che, a
causa dell’emergenza bellica, assume una marcata connotazione elitaria. Morire
per la patria quando tutti sembrano averla abbandonata è pertanto il destino
cui va incontro, consapevolmente, il fascista rimasto fedele al duce dopo l’8
settembre. Di nuovo, Mussolini si presenta come l’erede di Garibaldi, come
risulta evidente da questo stralcio, tratto da un articolo del «Corriere della
Sera» del 2 giugno 1944, che insiste sul concetto della fedeltà al capo: «Fede.
Ecco la sua forza, il segreto del suo fascino, la formula del suo magnetismo.
Egli sapeva che la fede è dei pochi, dei puri, dei generosi, laddove quella
delle moltitudini è spesso soltanto fanatismo; perciò ebbe sempre intorno un
manipolo di eletti, e questi teneva sempre sotto carica, persuaso com’era che
la fede trasfusa nell’esempio, applicata all’azione, sublimata dal gesto, fosse
la massima generatrice di impulsi pugnaci. Dalla fede, unicamente dalla fede,
scaturì quel prodigio che fu la spedizione dei Mille». Allo stesso modo, dalla
fede doveva venire la volontà di sacrificarsi per la patria tradita e per il
fascismo.
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
Nessun commento:
Posta un commento