(articolo apparso su Prima Pagina del 5 ottobre 2014)
Roberto Beretta è un giornalista di «Avvenire» autore di
un libro scomodo, nonché unico nel suo genere. Il volume si intitola Storia dei preti uccisi dai partigiani:
pubblicato nel 2005 da Piemme, oggi è esaurito e pressoché introvabile nelle
librerie. Il che, spiace tanto doverlo sottolineare, non è certo un’anomalia,
considerato che i libri di storia – a parte qualche rara eccezione – hanno
spesso vita breve e, se non accompagnati da clamore mediatico (si pensi a Giampaolo
Pansa…), finiscono presto nel cosiddetto “dimenticatoio”.
Eppure di pregi il libro di Beretta ne ha parecchi, in
particolare quello di raccogliere in un solo volume le biografie di tutti i
sacerdoti trucidati – per vendetta, per odio di classe, per fanatismo
ideologico – dai partigiani comunisti prima, durante e dopo la Liberazione. In
sostanza, una scheda per ogni prete, con la ricostruzione delle circostanze che
lo portarono alla morte. E il quadro che ne risulta – per chi è cresciuto nel
culto di Giovannino Guareschi e dei suoi indimenticabili don Camillo e Peppone
– è francamente sconcertante. Come precisa infatti Beretta, nei giorni della
“resa dei conti” «ben altro Peppone affrontava mitra alla mano il suo inerme
don Camillo, “prelevandolo” di notte dalle canoniche, eliminandolo senza più
nemmeno farne ritrovare il corpo, tendendogli agguati che si concludevano
spesso con un colpo alla nuca, torturando o ammazzandolo di botte dopo un
sommario “processo popolare”. Almeno 80 preti l’ex partigiano Giuseppe Bottazzi
alias Peppone uccise in Italia tra il 1944 e il 1951, senza contare gli altri
50 omicidi di ecclesiastici avvenuti sul confine nord-orientale: dove anche i
comunisti di Tito compivano la loro strage. Tutto il Centro-nord della Penisola
fu interessato, in periodi diversi, dal massacro; che spesso si verificò senza
alcuna necessità di guerra né per “punire” passati crimini fascisti».
In questa sede, per ovvie questioni di spazio, non è
possibile prendere in esame tutte le biografie contenute nel libro. Dovendo
quindi effettuare delle scelte, si è deciso di raccontare brevemente le vicende
che videro coinvolti i sacerdoti della provincia di Modena, che in totale
furono sei. I loro nomi – superfluo sottolinearlo – sono pressoché sconosciuti:
dato, questo, di per sé già piuttosto significativo.
Il primo prete modenese che si incontra nel libro è don
Ernesto Talé, parroco di Castellino delle Formiche (presso Guiglia), ucciso l’11
dicembre 1944 da «una “scheggia impazzita” della Resistenza». La sua vicenda è
paradossale. Nell’estate del 1944, infatti, don Talé fu prelevato durante un
rastrellamento compiuto dai nazifascisti con l’accusa di essere una spia. Fatto
salire su un camion, riuscì a fuggire sfruttando il parapiglia seguito ad un’imboscata
partigiana e a trovare rifugio presso un confratello, parroco di Guiglia. Anche
i cosiddetti ribelli, però, ce l’avevano con lui, e lo accusavano di essere il
responsabile del rastrellamento. Fu così che la notte dell’11 dicembre, con la
scusa che un ferito necessitava di assistenza, don Talé fu prelevato. Ad
accompagnarlo c’era la sorella, che gli faceva da perpetua: entrambi –
ingannati, giacché non c’era nessun moribondo – furono sottoposti a un breve
“processo popolare” e giustiziati. A quanto pare, il sacerdote fu pugnalato e
finito a colpi di zappa sulla testa.
Il secondo sacerdote è don Giuseppe Preci, parroco di
Montalto di Montese. A guerra terminata, dopo il 25 aprile, cominciarono a
girare voci secondo le quali la vita del prete era in pericolo. Don Preci,
però, non se ne curava: «Che cosa volete che mi facciano; mi daranno alcune
sbroccate!», rispondeva a chi tentava di avvertirlo. Ma la minaccia era reale.
La sera del 24 maggio 1945 subì infatti la stessa sorte di don Talé: identica.
Stessa scusa del finto moribondo e medesimo esito, solo con modalità
differenti: don Preci fu ucciso a colpi di pistola, a quanto sembra con l’accusa
– peraltro smentita categoricamente da più testimoni – di avere collaborato con
i tedeschi. Quattro anni dopo la sua morte, due giovani di Montalto di Montese
furono arrestati con l’accusa di omicidio, ma, stando a quanto riporta Beretta,
c’è motivo di credere che fossero due prestanome sacrificati dal partito
comunista per coprire il vero esecutore dell’assassinio, un partigiano «molto
prestigioso».
Il terzo prete ucciso è don Giovanni Guicciardi, parroco
di Lama Mocogno, paese – scrive Beretta – dove risiedeva dal 1919 e «dove si
era reso benemerito con molte opere: la costruzione della sacrestia e della
canonica, il completamento della chiesa, la sistemazione del campanile, dell’abside,
degli altari, del pavimento...». La notte del 10 giugno 1945 due loschi figuri,
qualificatisi alla porta come «Partigiani», fecero irruzione in canonica e,
pistola alla mano, derubarono il sacerdote di tutto il denaro e degli oggetti
preziosi. Dopodiché uno dei due fece fuoco, probabilmente alle spalle. Al
funerale, che si tenne il 13 giugno, partecipò una folla numerosa, segno
evidente che don Guicciardi era amato dai suoi parrocchiani. Il colpevole dell’omicidio
fu individuato pochi giorni dopo e morì in uno scontro a fuoco con un
carabiniere: aveva ancora indosso la maglia di lana sottratta al prete.
Il quarto sacerdote vittima dei partigiani è don Giuseppe
Lenzini, parroco di Crocette di Pavullo. Scrive Roberto Beretta: «Andarono a
cercarlo fin sul campanile, proprio dove lui aveva nascosto alcuni partigiani
durante la guerra, e lo trascinarono via in camicia da notte e scalzo. Eppure
era un sacerdote ormai anziano, i cui interessi erano sempre stati soprattutto
per la cultura, la meditazione e l’assistenza ai malati». Con il consueto
pretesto del moribondo, la notte del 20 luglio 1945 i partigiani l’avevano
mandato a chiamare: ma don Lenzini non aveva abboccato, rifugiandosi sul
campanile. Tutto inutile, però: servendosi di una scala, i carnefici
raggiunsero una finestra a ben sette metri di altezza e irruppero nella cella
campanaria. Il prete fu trascinato fuori dalla chiesa e picchiato, sembra, per
il suo rifiuto di obbedire quando gli fu ordinato di bestemmiare. Il suo cadavere
(crivellato di proiettili e, complessivamente, in pessimo stato a causa delle
violenze e delle percosse) fu ritrovato circa una settimana dopo, il 27 luglio,
semisepolto in una vigna. Pare che all’origine delle sentenza di morte vi fosse
una predica anticomunista pronunciata durante una messa e, in generale, l’animo
da sempre battagliero di don Lenzini, che in gioventù aveva più volte preso
posizione contro i comizi del socialista Gregorio Agnini. Il processo per il
suo assassinio, che si tenne nel 1949 in un clima ancora caratterizzato da
forti intimidazioni, si risolse in un nulla di fatto per mancanza di prove.
Il quinto prete è don Francesco Venturelli, arciprete di
Fossoli e cappellano del campo di concentramento. Qui, come precisa Beretta,
«assiste tutti: prima gli inglesi, poi gli ebrei e i deportati politici
(sottoposti a un regime assai duro, in quanto il campo era passato alla
gestione tedesca), i partigiani, infine i fascisti e gli ex collaborazionisti».
La sua era carità cristiana, che andava al di là della politica. Si aggiunga
inoltra che don Venturelli non era fascista e a Fossoli fu ripreso più di una
volta per aver favorito lo smistamento clandestino della corrispondenza tra i
detenuti e i loro familiari. Ma il peggio, per lui, venne dopo la fine della
guerra, quando il campo divenne un centro di raccolta che ospitava prigionieri
in attesa di trasferimento, ex fascisti compresi. Il fatto che don Venturelli
facesse loro visita era tollerato, ma quando il prete introdusse nel campo il
foglio dei Francescani di San Cataldo («La lanterna»), giudicato
«antidemocratico» dai comunisti, alcuni sedicenti «Partigiani» ritennero di
avere subito un’imperdonabile provocazione. Quello che accadde in seguito
rispecchia il solito copione: la sera del 15 gennaio 1946 venne richiesta la
presenza dell’arciprete in seguito ad un incidente mortale sulla provinciale
Carpi-Modena. Don Venturelli abboccò, e appena uscito di casa fu raggiunto da
tre colpi di pistola. In seguito, non vi fu alcun processo: il colpevole non fu
mai trovato.
L’ultimo prete ucciso è don Giuseppe Tarozzi, parroco di
Riolo (frazione di Castelfranco). Fu una delle 44 vittime della cosiddetta
«banda di Castelfranco», che con otto uomini armati lo prelevò la notte del 25
maggio 1945 dopo avere abbattuto il portone della canonica a colpi d’ascia.
Della morte di don Tarozzi non si seppe più nulla: il suo corpo non è mai stato
ritrovato, anche se, secondo più di una voce, è probabile che si sia evitato
appositamente di cercarlo. Il movente fu sin da subito poco chiaro, ma è
evidente che alla base dell’assassinio stava l’odio di classe. Per questo e per
altri quattro omicidi sei persone furono condannate a diversi anni di carcere
in seguito al processo che si svolse nel 1951.
Come anticipato, il libro di Beretta contiene oltre cento
di queste brevi biografie. Più di cento preti assassinati, il più delle volte,
per il solo fatto di essere uomini di Chiesa, a causa di un fanatismo
ideologico che, in teoria, non avrebbe potuto trovare giustificazione nemmeno
nel clima infuocato della lotta di Liberazione. Oggi, a distanza di sessant’anni
da quei tragici eventi, è senza dubbio giunta l’ora di mostrare un po’ di
rispetto per quei morti: persone innocenti, vittime dell’odio che un paese
civile e democratico ha il dovere di non dimenticare.
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
Nessun commento:
Posta un commento