(articolo apparso su Prima Pagina del 28 settembre 2014)
14-26 febbraio 1956. Durante il XX congresso del PCUS,
Nikita Krusciov, in un rapporto destinato a diventare celebre, pronunciò una
durissima requisitoria contro Stalin (morto nel 1953) e i crimini perpetrati
dal suo regime. Il significato delle parole del segretario comunista era chiaro:
attaccare il dittatore da poco scomparso e il suo esasperato culto della
personalità per farne una sorta di capro espiatorio e salvare, al contempo, l’immagine
del modello sovietico, che nessun comunista doveva osare mettere in
discussione.
A dispetto però delle intenzioni rassicuranti del suo
autore, il rapporto Krusciov ebbe effetti traumatizzanti sia per i partiti
comunisti occidentali – comprensibilmente spaesati e confusi di fronte ad un’iniziativa
che non aveva precedenti –, sia, soprattutto, per i paesi dell’Europa dell’est,
dove sorse spontanea l’illusione che la destalinizzazione fosse il preludio ad
una progressiva democratizzazione della società. A soffiare sul fuoco di una
potenziale (e prematura) rottura con Mosca furono in particolare Polonia e
Ungheria. Nel primo caso, gli operai – con l’appoggio di una Chiesa cattolica
che aveva saputo resistere alle persecuzioni sovietiche – diedero vita a
ripetute agitazioni che culminarono, nel giugno del 1956, nel grande sciopero
di Poznan. La repressione non si fece attendere, ma non fu sufficiente a
placare la protesta, che sfociò nel cosiddetto ottobre polacco: il risultato fu
un ricambio ai vertici del partito e del governo, che favorì l’ascesa al potere
di Wladyslaw Gomulka (liberato dal carcere – dove era stato rinchiuso poiché
sospettato da Stalin di deviazionismo – proprio in conseguenza della
pubblicazione del rapporto Krusciov). Questi promosse una cauta
liberalizzazione, ma si impegnò a non rompere l’alleanza con l’URSS e a non mettere
in discussione la permanenza della Polonia nel blocco socialista.
Diverso, e ben più drammatico, fu il caso dell’Ungheria.
Per tutta l’estate, come in Polonia, si ebbero agitazioni animate
prevalentemente da studenti ed intellettuali; poi in ottobre la situazione
degenerò, con la protesta che assunse il carattere di un’autentica insurrezione
che coinvolse anche un numero ingente di lavoratori.
Centro dell’opposizione antisovietica fu, inizialmente,
il circolo Petofi (dal nome del poeta ed eroe nazionale Sandor Petofi, figura
chiave della rivoluzione ungherese del 1848), che era divenuto celebre per aver
organizzato, il 19 giugno del 1956, una commemorazione di Laslo Rajk – leader
comunista condannato a morte nel 1949 con l’accusa di nutrire simpatie titoiste
– nella quale era stata chiesta la punizione di uno dei principali accusatori dello
stesso Rajk, il primo esponente dell’ala stalinista nonché segretario del
partito, Matyas Rakosi. Prontamente, questi reagì facendo espellere dal PCU gli
esponenti del circolo più vicini alle posizioni moderate (cioè rivoluzionarie),
ma, così facendo, si ritrovò pressoché isolato, tanto che gli stessi sovietici
reputarono più conveniente farlo dimettere dalla carica di segretario, che fu
assunta da un altro ex stalinista, Erno Gero. Questi, insieme con il presidente
del Consiglio Andras Hegedus (anch’egli stalinista), fece qualche concessione
formale, ma non riuscì a fermare la protesta popolare, che anzi degenerò in
rivolta quando, il 22 ottobre, a Budapest si seppe che Gomulka era stato
nominato segretario del Partito comunista polacco.
L’insurrezione,
secondo la ricostruzione che ne fa Enzo Bettiza nel volume 1956. Budapest: i giorni della rivoluzione (Mondadori 2006),
conobbe cinque fasi.
La prima ha
inizio nella prima parte della giornata cruciale del 23 ottobre con una grande
manifestazione popolare che si tiene presso il monumento di Petofi a Pest. La
gente inneggia apertamente alla Polonia, presagendo un imminente futuro segnato
da un progressivo allontanamento dall’orbita di Mosca. La tensione è altissima,
come testimoniano le parole scritte dallo storico Francois Fejto a commento di
quelle ore: «Nell’Ungheria, che almeno all’apparenza è ancora dominata da un
potere comunista, il comunismo in quanto partito, organizzazione, ideologia, è
sul punto di essere liquidato e rigettato come un corpo estraneo».
Nella seconda
metà di quel fatidico 23 ottobre ha inizio la seconda fase. I dimostranti
chiedono la partenza immediata dei militari sovietici e si spingono fino a
distruggere l’imponente statua di Stalin nella piazza degli Eroi a Budapest.
Inneggiano a Imre Nagy (comunista “liberale” che era stato espulso dal partito
dopo avere ricoperto la carica di Primo ministro tra il 1953 e il 1955), ma ricevono
in cambio, per tutta risposta, le parole stizzite di Gero, che definisce i
ribelli «fascisti» e «terroristi bianchi». È la goccia che fa traboccare il
vaso: i manifestanti, inferociti, assediano l’edificio della radio inveendo
contro il segretario del PCU, scatenando la reazione della polizia politica.
Questa apre il fuoco sulla folla, uccidendo decine di persone. Verso mezzanotte
si rende necessario l’intervento delle truppe sovietiche di stanza nel paese. È
l’inizio della rivoluzione.
La terza fase è
segnata dall’inizio vero e proprio dei combattimenti e dalla proliferazione di
«Consigli rivoluzionari» che mobilitano la popolazione contro l’esercito russo.
Su pressione degli insorti, a sostituire Gero alla guida del partito è chiamato
Janos Kadar, un comunista un tempo vicino a Rakosi, passato anch’egli
attraverso la reclusione a causa di presunte simpatie titoiste. Nel frattempo, Nagy
ha assunto la presidenza del Consiglio, ma – nota Bettiza – è disorientato e frastornato,
consapevole di essere stato tirato in ballo al solo scopo di placare una
rivolta che, in realtà, pare di ora in ora sempre meno controllabile. «Non si
dimentichi – precisa infatti lo storico originario di Spalato – che Imre Nagy è
comunista da trent’anni, è un vecchio kominternista educato alla scuola di
Mosca, e che non è facile per lui accettare a cuor leggero le violenze
antisovietiche e vedere un nemico assoluto nell’Armata Rossa». Inizialmente il
suo governo, un esecutivo moderatamente aperto alle altre forze politiche, si
mostra cauto; la sera del 28 ottobre, tuttavia, Nagy rompe gli indugi: viene
riconosciuto il carattere nazionale e democratico della rivolta e sono annunciati
l’avvio dei negoziati e l’imminente ritiro delle truppe sovietiche. La
rivoluzione sembra a un passo dalla vittoria.
La quarta fase è
così riassunta da Giuseppe Mammarella nella sua Storia d’Europa dal 1945 a oggi (Laterza 2006): «Il nuovo governo
aveva vita breve e il 30 ottobre ne veniva formato un altro, ma questa volta a
fianco di Nagy prevalevano elementi anticomunisti e anche nel paese il movimento
per un comunismo più democratico e nazionale si trasformava in una rivolta
anticomunista. Venivano ricostituiti i vecchi partiti, riemergevano figure del
passato regime, veniva liberato il cardinale Mindszenty in carcere da anni, e,
il giorno dopo la sua costituzione, il governo decideva di denunciare la
partecipazione ungherese al patto di Varsavia e di dichiarare la neutralità».
Per Mosca è davvero troppo, tanto più che la crisi di Suez e l’intervento
congiunto franco-britannico in Egitto offrono un involontario assist agli
uomini del PCUS che, in segreto, già stanno pianificando un risolutivo
intervento armato.
Si giunge così
alla quinta fase, caratterizzata dal tradimento di Kadar, il quale prima si
mostra favorevole ad accogliere le decisioni rivoluzionarie di Nagy, poi –
convocato dai russi prima all’ambasciata, successivamente direttamente a Mosca
– non ha nulla da obiettare quando i sovietici gli chiedono (gli impongono?) di
collaborare con il PCUS per pianificare l’intervento militare in Ungheria. All’alba
del 4 novembre i carri armati sovietici irrompono nel paese, stroncando ogni resistenza
in appena quattro giorni. Al loro ritiro, Kadar assume la guida del governo,
mentre Nagy viene catturato: processato, sarà impiccato nel giugno del 1958.
Finiva così, nel
sangue e sotto l’urto dei cingolati sovietici, la rivoluzione di un popolo che,
in nome della democrazia, aveva osato ribellarsi al più longevo dei
totalitarismi novecenteschi. Oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, quegli eventi
fanno ancora rumore, se non altro per le ambigue reazioni che suscitarono nel
panorama politico nostrano. Eminenti personaggi dell’Italia di allora si
espressero in quei giorni con parole di fuoco, facendo eco a Togliatti che sull’«Unità»
giunse a evocare concetti quali «terrore bianco», «banditismo», «teppismo
horthista» e «controrivoluzione». Tra gli epigoni del Migliore, uno su tutti
lascia tuttora interdetti, se si pensa che occupa da anni la poltrona di Capo
dello Stato. Così si espresse, infatti, Giorgio Napolitano a proposito dei
cosiddetti «fatti d’Ungheria»: «L’intervento sovietico ha non solo
contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella
controrivoluzione ma alla pace nel mondo». Parole
che si commentano da sé, e per le quali Napolitano, in un recente libro
autobiografico, ha chiesto scusa, giustificandole con ragioni quali «un certo
zelo conformistico», «la preoccupazione [...] dell’unità del partito», e l’impossibilità
– e questo, a ben vedere, è il punto cruciale – di «concepire il ruolo e l’azione
del Partito comunista in Italia come inseparabili dalle sorti del “campo
socialista” guidato dall’URSS». Il che lo porta poco dopo ad affermare che «di
fatto non esistevano allora le condizioni per una scelta diversa da parte del
partito». Che dire? Viva la sincerità, signor Presidente!
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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