(articolo apparso su Prima Pagina del 14 settembre 2014)
Un recente libro dall’eloquente titolo Berlinguer deve morire (scritto a
quattro mani dai giornalisti Giovanni Fasanella e Corrado Incerti per i tipi di
Sperling & Kupfer) enuncia una tesi sconvolgente: il 3 ottobre 1973,
durante il viaggio in automobile che doveva condurlo all’aeroporto di Sofia, da
dove sarebbe ripartito per l’Italia, il segretario del PCI Enrico Berlinguer fu
vittima di un terribile incidente stradale che, con ogni probabilità, fu tutto
fuorché accidentale. Diversi indizi – seppur in assenza di prove certe –
lasciano credere infatti che il leader del principale partito comunista
occidentale fosse finito nel mirino dei servizi segreti bulgari, intenzionati –
d’accordo con Mosca – a far fuori un personaggio che stava diventando sempre
più scomodo per via delle sue posizioni “eretiche” antisovietiche.
La dinamica dell’incidente, in effetti, fu piuttosto
anomala, e allo stesso Berlinguer fece pensare ad una messinscena. Il
segretario del PCI viaggiava su una Chaika (un’auto di rappresentanza) nera,
preceduto da una vettura con la scorta di polizia e seguito, a chiusura del
corteo, da altre tre auto con dirigenti comunisti italiani e bulgari. Accanto a
lui sedevano un interprete e due alti funzionari del PCB (Partito comunista
bulgaro), oltre, naturalmente, all’autista. Improvvisamente, percorrendo un
cavalcavia, la macchina con la scorta accelerò: di colpo, al suo posto sbucò un
camion carico di pietre, che andò a schiantarsi contro l’auto di Berlinguer,
scaraventandola contro un palo della luce. L’impatto fu tremendo: l’interprete
perse la vita, mentre Berlinguer, l’autista e i due dirigenti bulgari se la
cavarono miracolosamente. Con ogni probabilità, se il palo non avesse arrestato
la corsa verso il baratro della Chiaka nera, i passeggeri sarebbero tutti
morti.
Ma, al di là delle congetture, come fanno Fasanella e
Incerti a parlare di attentato? Alla base della loro inchiesta è un’intervista
rilasciata nell’ottobre del 1991 a Panorama
da Emanuele Macaluso, nella quale l’ormai ex dirigente comunista (da poche
settimane al PCI era subentrato il PDS) sosteneva la tesi che l’incidente
occorso a Berlinguer nel 1973 fosse stato deliberatamente provocato. Macaluso
aggiunse poi che era stato lo stesso segretario del PCI a confidargli, subito
dopo il suo rientro in Italia, di sospettare di essere stato vittima di un
attentato. Nessuno però – si era raccomandato in quell’occasione il leader
comunista – avrebbe dovuto parlarne, giacché una tale rivelazione avrebbe
compromesso la stabilità del partito. Con il risultato che il segreto era stato
mantenuto per ben diciotto anni.
Le parole di Macaluso scatenarono, com’era prevedibile,
un’ondata di proteste. In molti fecero notare che nell’auto di Berlinguer
sedeva anche Boris Velchev – in pratica il numero due del PCB –, il che doveva
essere prova sufficiente ad escludere l’ipotesi dell’attentato. Altri
commentarono l’intervista uscita su Panorama
con ironia: «A Est si guida da cani», fu una delle versioni più pungenti e
sbrigative. In poche parole, tutti gli ex comunisti smentivano. E, con ogni probabilità,
la vicenda si sarebbe chiusa lì, se a dare manforte a Macaluso non fosse
intervenuta la vedova di Berlinguer, Letizia Laurenti. «Enrico sospettava che
quello in Bulgaria non fosse un incidente», disse in un’intervista rilasciata
all’Unità e pubblicata il 28 ottobre
1991. E aggiunse: «Ora mi rendo conto, da quanto hanno detto finora tutti
coloro che in questi giorni hanno parlato, che lui non aveva confidato questo
sospetto a nessuno. Ma a me raccontò di questa sua ipotesi appena tornò a casa
da Sofia. [...] Da quanto mi risulta, non mise più piede in Bulgaria. [...] È
chiaro che la cosa non poteva essere provata e lui non ne parlò assolutamente
in giro. Del resto, Enrico non era uomo tale da mettersi a dire cose non
suffragate dai fatti».
Dunque, se si presta fede alla vedova di Berlinguer, il
segretario del PCI era convinto che in Bulgaria i vertici del regime avessero
tentato di eliminarlo. Ma perché avrebbero dovuto farlo?
Motivi di frizione tra il PCI e il blocco sovietico non
mancavano di certo in quegli anni, soprattutto dopo che i comunisti italiani
avevano in larga parte condannato la repressione della Primavera di Praga nel
1968. Ma, nel caso specifico dell’incidente di Sofia, sono più che altro alcune
evidenti anomalie a lasciare perplessi e a non consentire di scartare l’ipotesi
del complotto.
Innanzitutto, recatisi in Bulgaria nel 1991, Fasanella e
Incerti scoprirono che negli archivi ufficiali non c’era traccia dello schianto
della Chaika nera di Berlinguer, con la sola eccezione di alcune fotografie (di
per sé, peraltro, innocue). Ma un documento importante i due giornalisti
riuscirono comunque a scovarlo: si trattava del verbale stenografico dell’incontro
tra Berlinguer e il segretario del PCB Todor Zhivkov, avvenuto il 1° ottobre
1973. Leggendolo, Fasanella e Incerti si resero immediatamente conto che i
colloqui ufficiali tra i due leader si erano svolti in un «clima incandescente».
«Noi pensiamo – disse Berlinguer – che in Italia una
delle strade per evitare la spaccatura del Paese [...] sia quella di unire il
proletariato con il ceto medio, di creare legami con altre forze politiche
democratiche». Quello che il segretario del PCI stava delineando di fronte al
suo interlocutore era in sostanza il progetto del «compromesso storico»: un
progetto che Zhivkov mostrò apertamente di non condividere. «Che cosa significa
questa nostra via democratica per il socialismo?», replicò infatti stizzito,
mettendo bene in risalto, con l’aggettivo «nostra», che i partiti comunisti
dovevano seguire una linea condivisa (cioè quella imposta da Mosca). Poi
aggiunse: «Noi non puntiamo su un cammino pacifico. Anzi, affrontiamo la
contrapposizione [altra parola chiave] prendendo in considerazione le due
strade, armata e pacifica».
Zhivkov proseguì lanciando anatemi contro quei paesi,
come la Cina, la Jugoslavia e la Romania, che intendevano seguire una linea
autonoma da quella sovietica, giungendo infine alla conclusione che occorresse
rafforzare «la linea comunista» attraverso una conferenza internazionale dei
partiti. Ma anche su questo punto Berlinguer dissentì: «In linea di principio,
noi siamo contro una nuova conferenza. Sulla situazione attuale dei partiti
comunisti noi usiamo questa espressione: unità nella diversità». Parole,
queste, che alle orecchie del leader bulgaro dovettero suonare pericolosamente
eretiche.
Lo scontro decisivo si ebbe però sui fatti di Praga di
cinque anni prima. «Devo dire molto apertamente che sinora non abbiamo motivi
per rivedere la posizione da noi già espressa nel 1968», affermò risoluto,
senza troppi preamboli, Berlinguer. E fu a quel punto che Zhivkov si lasciò
sfuggire una nemmeno troppo velata minaccia. Rispose infatti di essere stato
lui stesso ad informare Mosca che a Praga «la situazione era pesante, che
stavamo per perdere la Cecoslovacchia, che le conseguenze sarebbero state
gravissime e che si doveva fare qualcosa». Quindi concluse: «Se bisogna
condannare qualcuno per la nostra “invasione”, bisogna condannare noi, e
personalmente me. Compagno Berlinguer, per la Cecoslovacchia, dovete portare me
in tribunale».
Un secondo incontro tra i due leader comunisti, il 3
ottobre, ebbe nuovamente esito negativo. A darne notizia ai giornalisti fu il
capo dei servizi segreti in persona, generale Iljia Kashev: «I colloqui vanno
male, il programma iniziale è cambiato. L’ospite parte immediatamente». Poco
dopo Berlinguer ebbe l’incidente. Indubbiamente, si trattava di una coincidenza
inquietante. E non fu l’unica. L’inchiesta di Fasanella e Incerti fece infatti
emergere altre informazioni rilevanti, come il fatto che l’autista del camion –
secondo l’autorevole testimonianza di Konstantin Tellalov, alto dirigente
bulgaro che quel 3 ottobre 1973 sedeva nella Chaika di Berlinguer – fosse un
militare; o come il fatto che il segretario del PCI rifiutò le cure e pretese
di partire il giorno dopo l’incidente con un aereo-ambulanza messo a
disposizione dall’ambasciata italiana.
Non meno sconvolgente fu poi la testimonianza di Velchev
(la cui presenza nell’auto di Berlinguer sembrava, come detto, escludere l’ipotesi
dell’attentato), il quale confidò ai due giornalisti italiani che nel 1973 egli
era in rotta con Zhivkov per via delle sue critiche rivolte contro la politica
repressiva del regime. Il che, a suo parere, significava una cosa ben precisa:
«Se era stato organizzato un attentato contro Berlinguer, la mia presenza e
quella di Tellalov sull’auto non sarebbero state certo di ostacolo. Come si
dice da voi, in Italia? Due piccioni con una fava?».
Possibile dunque che i vertici del blocco sovietico
volessero Berlinguer morto? Di certo non c’è nulla, ma – come riconosce Walter
Veltroni nella prefazione al libro di Fasanella e Incerti – «la bilancia non
può che pendere dalla parte dell’attentato». Di sicuro, infatti, Mosca mal
digeriva che il segretario del principale partito comunista occidentale
rivendicasse l’autonomia del PCI e progettasse di approdare ad una linea di
azione politica più marcatamente democratica. Eurocomunismo e compromesso
storico furono i segni tangibili di quello «strappo» con l’URSS che si sarebbe
concretizzato negli anni successivi all’incidente di Sofia. Strappo che,
addirittura, portò Berlinguer ad affermare – in un’intervista a Giampaolo Pansa
del 1976 – che si sentiva più «sicuro» all’interno del Patto Atlantico e – in
una tribuna politica del 1981 – che «la capacità propulsiva di rinnovamento
delle società che si sono create nell’Est europeo è venuta esaurendosi». Mica
male per un compagno!
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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