giovedì 18 settembre 2014

«Berlinguer deve morire»: nel 1973 i servizi segreti bulgari attentarono alla vita del segretario del PCI?

(articolo apparso su Prima Pagina del 14 settembre 2014)

Un recente libro dall’eloquente titolo Berlinguer deve morire (scritto a quattro mani dai giornalisti Giovanni Fasanella e Corrado Incerti per i tipi di Sperling & Kupfer) enuncia una tesi sconvolgente: il 3 ottobre 1973, durante il viaggio in automobile che doveva condurlo all’aeroporto di Sofia, da dove sarebbe ripartito per l’Italia, il segretario del PCI Enrico Berlinguer fu vittima di un terribile incidente stradale che, con ogni probabilità, fu tutto fuorché accidentale. Diversi indizi – seppur in assenza di prove certe – lasciano credere infatti che il leader del principale partito comunista occidentale fosse finito nel mirino dei servizi segreti bulgari, intenzionati – d’accordo con Mosca – a far fuori un personaggio che stava diventando sempre più scomodo per via delle sue posizioni “eretiche” antisovietiche.
La dinamica dell’incidente, in effetti, fu piuttosto anomala, e allo stesso Berlinguer fece pensare ad una messinscena. Il segretario del PCI viaggiava su una Chaika (un’auto di rappresentanza) nera, preceduto da una vettura con la scorta di polizia e seguito, a chiusura del corteo, da altre tre auto con dirigenti comunisti italiani e bulgari. Accanto a lui sedevano un interprete e due alti funzionari del PCB (Partito comunista bulgaro), oltre, naturalmente, all’autista. Improvvisamente, percorrendo un cavalcavia, la macchina con la scorta accelerò: di colpo, al suo posto sbucò un camion carico di pietre, che andò a schiantarsi contro l’auto di Berlinguer, scaraventandola contro un palo della luce. L’impatto fu tremendo: l’interprete perse la vita, mentre Berlinguer, l’autista e i due dirigenti bulgari se la cavarono miracolosamente. Con ogni probabilità, se il palo non avesse arrestato la corsa verso il baratro della Chiaka nera, i passeggeri sarebbero tutti morti.
Ma, al di là delle congetture, come fanno Fasanella e Incerti a parlare di attentato? Alla base della loro inchiesta è un’intervista rilasciata nell’ottobre del 1991 a Panorama da Emanuele Macaluso, nella quale l’ormai ex dirigente comunista (da poche settimane al PCI era subentrato il PDS) sosteneva la tesi che l’incidente occorso a Berlinguer nel 1973 fosse stato deliberatamente provocato. Macaluso aggiunse poi che era stato lo stesso segretario del PCI a confidargli, subito dopo il suo rientro in Italia, di sospettare di essere stato vittima di un attentato. Nessuno però – si era raccomandato in quell’occasione il leader comunista – avrebbe dovuto parlarne, giacché una tale rivelazione avrebbe compromesso la stabilità del partito. Con il risultato che il segreto era stato mantenuto per ben diciotto anni.
Le parole di Macaluso scatenarono, com’era prevedibile, un’ondata di proteste. In molti fecero notare che nell’auto di Berlinguer sedeva anche Boris Velchev – in pratica il numero due del PCB –, il che doveva essere prova sufficiente ad escludere l’ipotesi dell’attentato. Altri commentarono l’intervista uscita su Panorama con ironia: «A Est si guida da cani», fu una delle versioni più pungenti e sbrigative. In poche parole, tutti gli ex comunisti smentivano. E, con ogni probabilità, la vicenda si sarebbe chiusa lì, se a dare manforte a Macaluso non fosse intervenuta la vedova di Berlinguer, Letizia Laurenti. «Enrico sospettava che quello in Bulgaria non fosse un incidente», disse in un’intervista rilasciata all’Unità e pubblicata il 28 ottobre 1991. E aggiunse: «Ora mi rendo conto, da quanto hanno detto finora tutti coloro che in questi giorni hanno parlato, che lui non aveva confidato questo sospetto a nessuno. Ma a me raccontò di questa sua ipotesi appena tornò a casa da Sofia. [...] Da quanto mi risulta, non mise più piede in Bulgaria. [...] È chiaro che la cosa non poteva essere provata e lui non ne parlò assolutamente in giro. Del resto, Enrico non era uomo tale da mettersi a dire cose non suffragate dai fatti».
Dunque, se si presta fede alla vedova di Berlinguer, il segretario del PCI era convinto che in Bulgaria i vertici del regime avessero tentato di eliminarlo. Ma perché avrebbero dovuto farlo?
Motivi di frizione tra il PCI e il blocco sovietico non mancavano di certo in quegli anni, soprattutto dopo che i comunisti italiani avevano in larga parte condannato la repressione della Primavera di Praga nel 1968. Ma, nel caso specifico dell’incidente di Sofia, sono più che altro alcune evidenti anomalie a lasciare perplessi e a non consentire di scartare l’ipotesi del complotto.
Innanzitutto, recatisi in Bulgaria nel 1991, Fasanella e Incerti scoprirono che negli archivi ufficiali non c’era traccia dello schianto della Chaika nera di Berlinguer, con la sola eccezione di alcune fotografie (di per sé, peraltro, innocue). Ma un documento importante i due giornalisti riuscirono comunque a scovarlo: si trattava del verbale stenografico dell’incontro tra Berlinguer e il segretario del PCB Todor Zhivkov, avvenuto il 1° ottobre 1973. Leggendolo, Fasanella e Incerti si resero immediatamente conto che i colloqui ufficiali tra i due leader si erano svolti in un «clima incandescente».
«Noi pensiamo – disse Berlinguer – che in Italia una delle strade per evitare la spaccatura del Paese [...] sia quella di unire il proletariato con il ceto medio, di creare legami con altre forze politiche democratiche». Quello che il segretario del PCI stava delineando di fronte al suo interlocutore era in sostanza il progetto del «compromesso storico»: un progetto che Zhivkov mostrò apertamente di non condividere. «Che cosa significa questa nostra via democratica per il socialismo?», replicò infatti stizzito, mettendo bene in risalto, con l’aggettivo «nostra», che i partiti comunisti dovevano seguire una linea condivisa (cioè quella imposta da Mosca). Poi aggiunse: «Noi non puntiamo su un cammino pacifico. Anzi, affrontiamo la contrapposizione [altra parola chiave] prendendo in considerazione le due strade, armata e pacifica».
Zhivkov proseguì lanciando anatemi contro quei paesi, come la Cina, la Jugoslavia e la Romania, che intendevano seguire una linea autonoma da quella sovietica, giungendo infine alla conclusione che occorresse rafforzare «la linea comunista» attraverso una conferenza internazionale dei partiti. Ma anche su questo punto Berlinguer dissentì: «In linea di principio, noi siamo contro una nuova conferenza. Sulla situazione attuale dei partiti comunisti noi usiamo questa espressione: unità nella diversità». Parole, queste, che alle orecchie del leader bulgaro dovettero suonare pericolosamente eretiche.
Lo scontro decisivo si ebbe però sui fatti di Praga di cinque anni prima. «Devo dire molto apertamente che sinora non abbiamo motivi per rivedere la posizione da noi già espressa nel 1968», affermò risoluto, senza troppi preamboli, Berlinguer. E fu a quel punto che Zhivkov si lasciò sfuggire una nemmeno troppo velata minaccia. Rispose infatti di essere stato lui stesso ad informare Mosca che a Praga «la situazione era pesante, che stavamo per perdere la Cecoslovacchia, che le conseguenze sarebbero state gravissime e che si doveva fare qualcosa». Quindi concluse: «Se bisogna condannare qualcuno per la nostra “invasione”, bisogna condannare noi, e personalmente me. Compagno Berlinguer, per la Cecoslovacchia, dovete portare me in tribunale».
Un secondo incontro tra i due leader comunisti, il 3 ottobre, ebbe nuovamente esito negativo. A darne notizia ai giornalisti fu il capo dei servizi segreti in persona, generale Iljia Kashev: «I colloqui vanno male, il programma iniziale è cambiato. L’ospite parte immediatamente». Poco dopo Berlinguer ebbe l’incidente. Indubbiamente, si trattava di una coincidenza inquietante. E non fu l’unica. L’inchiesta di Fasanella e Incerti fece infatti emergere altre informazioni rilevanti, come il fatto che l’autista del camion – secondo l’autorevole testimonianza di Konstantin Tellalov, alto dirigente bulgaro che quel 3 ottobre 1973 sedeva nella Chaika di Berlinguer – fosse un militare; o come il fatto che il segretario del PCI rifiutò le cure e pretese di partire il giorno dopo l’incidente con un aereo-ambulanza messo a disposizione dall’ambasciata italiana.
Non meno sconvolgente fu poi la testimonianza di Velchev (la cui presenza nell’auto di Berlinguer sembrava, come detto, escludere l’ipotesi dell’attentato), il quale confidò ai due giornalisti italiani che nel 1973 egli era in rotta con Zhivkov per via delle sue critiche rivolte contro la politica repressiva del regime. Il che, a suo parere, significava una cosa ben precisa: «Se era stato organizzato un attentato contro Berlinguer, la mia presenza e quella di Tellalov sull’auto non sarebbero state certo di ostacolo. Come si dice da voi, in Italia? Due piccioni con una fava?».
Possibile dunque che i vertici del blocco sovietico volessero Berlinguer morto? Di certo non c’è nulla, ma – come riconosce Walter Veltroni nella prefazione al libro di Fasanella e Incerti – «la bilancia non può che pendere dalla parte dell’attentato». Di sicuro, infatti, Mosca mal digeriva che il segretario del principale partito comunista occidentale rivendicasse l’autonomia del PCI e progettasse di approdare ad una linea di azione politica più marcatamente democratica. Eurocomunismo e compromesso storico furono i segni tangibili di quello «strappo» con l’URSS che si sarebbe concretizzato negli anni successivi all’incidente di Sofia. Strappo che, addirittura, portò Berlinguer ad affermare – in un’intervista a Giampaolo Pansa del 1976 – che si sentiva più «sicuro» all’interno del Patto Atlantico e – in una tribuna politica del 1981 – che «la capacità propulsiva di rinnovamento delle società che si sono create nell’Est europeo è venuta esaurendosi». Mica male per un compagno!

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