martedì 23 settembre 2014

«Assassinio di un filosofo»: la morte «imbarazzante» di Giovanni Gentile

(articolo apparso su Prima Pagina del 21 settembre 2014)

«L’assassinio di Giovanni Gentile è la pagina più nera della storia della resistenza italiana». A scriverlo non è, come si potrebbe pensare, un “revisionista” alla Giampaolo Pansa o un fascista alla Giorgio Pisanò, bensì uno stimato docente universitario, uno – giusto per rendere l’idea – che collabora abitualmente con la trasmissione televisiva Il tempo e la storia, in onda tutti i giorni sulla “rossa” Raitre. Il suo nome è Francesco Perfetti, romano nato nella capitale nel 1943, ordinario di Storia Contemporanea presso la Facoltà di Scienze Politiche della Luiss Guido Carli di Roma. A Gentile, il filosofo del regime (quello della celebre riforma della scuola datata 1923), Perfetti ha dedicato diversi studi, tra cui quello da cui è tratta la provocatoria citazione posta in apertura di questo articolo. Il libro in questione si intitola Assassinio di un filosofo. Anatomia di un omicidio politico, pubblicato da Le Lettere esattamente dieci anni fa (e quindi nel sessantesimo anniversario della morte del padre dell’attualismo).
La tesi di Perfetti è che l’eliminazione di Gentile non faccia per nulla onore alla Resistenza, intesa quale movimento politico che, per legittimarsi nei confronti delle generazioni vissute nel dopoguerra, non può permettersi alcuna giustificazione di certe azioni, compiute nel suo nome, contrarie ai più elementari principi della moralità pubblica. Scrive infatti lo storico a proposito dell’assassinio di Gentile: «Avvenimento che non trovava giustificazione di alcun genere – né militare né politica, essendo il filosofo uomo che non ricopriva cariche pubbliche se non di natura esclusivamente culturale e che, ben conosciuto per la sua mitezza e il suo disinteresse, si adoperava per la conciliazione degli italiani – questo omicidio continua a imbarazzare – che lo vogliano ammettere oppure no – i comunisti (e i loro eredi postcomunisti) i quali ne furono, a livelli diversi, i mandanti e gli esecutori materiali. Esso pesa come un macigno sulla loro coscienza politica, ammesso che si possa parlare di coscienza per chi, come tanti personaggi coinvolti nella vicenda, misero la propria intelligenza e la propria indipendenza al servizio della ragion di partito».
Ma allora, il 15 aprile 1944 cosa spinse un commando di quattro gappisti fiorentini a far fuoco su un uomo di cultura, su un filosofo che certo era ed era stato fascista, ma che nella RSI non ricopriva alcun incarico politico ed anzi si prodigava per preservare il supremo valore, insidiato da più parti, della concordia nazionale? Se è vero – come in parte è vero, non c’è dubbio – che la Resistenza fu un movimento per la libertà, per quale motivo si giunse a condannare un uomo per le sue idee? È lecito, cioè, far fuori un intellettuale solo perché il suo pensiero – e non certo le sue azioni – è giudicato una minaccia? E infine: cosa conteneva la riflessione (politica e filosofica) di Gentile di così pericoloso?
Per rispondere, occorre innanzitutto tenere presente che quando si parla di Resistenza non si deve commettere l’errore di fare riferimento a un movimento omogeneo, in marcia compatto contro la dittatura. La Resistenza, infatti, ebbe diverse anime, tenute insieme dal collante dell’antifascismo più che dall’impegno comune in favore della democrazia. Per il PCI la collaborazione con le forze liberali era strumentale e finalizzata, nell’immediato, al definitivo abbattimento del regime di Mussolini; e non era certo un’alleanza del tutto trasparente, giacché i comunisti dipendevano da Mosca e avevano il fin troppo evidente obiettivo di instaurare, prima o poi, la cosiddetta dittatura del proletariato. Con ciò s’intende dire che, innegabilmente, se c’era una forza politica in grado di trarre giovamento dal clima di guerra civile che permeava la lotta di Liberazione, quella era senz’altro il PCI. I fascisti, infatti – e quelli più accorti se ne avvidero –, perché mai avrebbero dovuto soffiare sul fuoco delle contrapposizioni ideologiche proprio mentre un esercito pressoché inarrestabile stava risalendo la penisola? Non era più logico, dal loro punto di vista di sconfitti quasi certi, richiamarsi alla concordia nazionale per evitare inutili spargimenti di sangue? Al contrario, è del tutto evidente che per una forza rivoluzionaria come quella di cui i comunisti erano espressione, una forza cioè che ambiva a farsi egemone nel paese, la contrapposizione tra due blocchi divenuti inconciliabili era la conditio sine qua non di un’eventuale presa del potere. Il PCI, in altre parole, aveva bisogno che tutti facessero una scelta, che tutti si schierassero, che tutti prendessero posizione pro o contro il fascismo, con l’implicita premessa che una condanna del comunismo sarebbe stata interpretata dagli uomini di Togliatti come un atto intrinsecamente fascista. Vele la pena, dunque, ripetere la domanda: perché uccidere Gentile? E, provocatoriamente, porre un ulteriore interrogativo: a chi poteva nuocere il suo appello alla conciliazione?
Le parole di Togliatti a commento dell’assassinio aiutano a rispondere a queste domande. All’indomani dell’omicidio, il Migliore elogiò infatti apertamente i carnefici e definì il filosofo «bandito politico», nonché «camorrista, corruttore di tutta la vita intellettuale italiana». Ed è interessante l’uso di questo aggettivo: «corruttore». A Gentile, cioè, non si perdonava la presunta volontà di fare un uso strumentale del richiamo alla pacificazione al solo scopo di risparmiare ai fascisti l’inevitabile resa dei conti. Sotto accusa, in particolare, era finito il Discorso agli Italiani pronunciato in Campidoglio il 24 giugno 1943, nel quale il filosofo aveva parlato – rivolgendosi «a tutti gli Italiani, fascisti o non fascisti» – della necessità di continuare a credere in una vittoria essenzialmente morale, «tenendo sempre alta [...] la bandiera della Patria»; e, ancor di più, il discorso pronunciato a Firenze il 19 marzo 1944 (quindi in piena RSI), in occasione della prima manifestazione pubblica della nuova Accademia d’Italia, di cui Gentile aveva assunto la presidenza. Significativamente, esso conteneva un chiaro appello alla concordia nazionale, condannava la guerra fratricida e deprecava la distruzione dei simboli della cultura e della religione.
Quello che Gentile cercava di ottenere – in assoluta buona fede, secondo l’opinione di Perfetti – era il riconoscimento del supremo valore della cultura quale collante in grado di unire gli italiani (l’Accademia, nelle sue intenzioni, doveva assolvere la missione della «custodia del fuoco sacro della Patria»). Ma l’obiettivo del filosofo era proprio ciò che i comunisti non potevano permettere, come emerge chiaramente da una nota pubblicata dal giornale clandestino «La Nostra Lotta» subito dopo il discorso del 19 marzo, che suona evidentemente come un’inappellabile sentenza di morte: «Quanti oggi invitano alla concordia, sono complici degli assassini nazisti e fascisti; quanti oggi invitano alla tregua vogliono disarmare i Patrioti e rifocillare gli assassini nazisti e fascisti perché indisturbati consumino i loro crimini. La spada non va riposta finché l’ultimo nazista non abbia ripassato le Alpi, finché l’ultimo traditore fascista non sia sterminato. Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: MORTE!».
Queste righe furono vergate da Girolamo Li Causi (responsabile della stampa e della propaganda nella direzione del PCI in Alta Italia), sulla base di un precedente intervento apparso sul quotidiano socialista di Lugano «Libera Stampa» a firma del noto latinista Concetto Marchesi. Quest’ultimo, in particolare, aveva preso posizione contro un articolo di Gentile pubblicato dal «Corriere della Sera» il 28 dicembre 1943, nel quale il filosofo, tra le altre cose, aveva scritto: «Colpire dunque il meno possibile; andare incontro alle masse per conquistarne la fiducia e richiamarle alla coscienza del comune dovere. Non insistere sempre sui tradimenti, che disonorano la Nazione e non soltanto i colpevoli, se questi erano a capo della Nazione. Non perseguitare pel gusto di una giustizia che si compia anche a danno del Paese; sentire una volta la nausea degli scandali, che era logico fossero inscenati quando si trattava di preparare l’obbrobrio dell’8 settembre e prostrare il Paese; ma non possono entrare nel programma della ricostruzione, che richiede rinnovata e salda fiducia del Paese nelle sue forze morali».
Come bene spiega lo storico comunista Roberto Battaglia, l’assassinio di Gentile era una conseguenza della presa di coscienza da parte del PCI della «necessità di colpire più a fondo, fino alle radici», al fine di instaurare una nuova egemonia culturale. I comunisti, conclude Perfetti, giacché non guardavano alla democrazia parlamentare come a un traguardo, avevano assoluto bisogno di conquistare «un ruolo di preminenza e in un certo senso di guida all’interno della coalizione antifascista, e ciò sarebbe stato possibile soltanto mettendo in difficoltà la componente più forte, quanto meno dal punto di vista intellettuale, della coalizione, ossia quella azionista di cui la maggior parte degli esponenti era di formazione gentiliana. Si comprende, quindi, perché l’uccisione di Gentile non potesse che essere funzionale al disegno rivoluzionario ed egemonico del Pci quale era stato concepito da Togliatti».

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