(articolo apparso su Prima Pagina del 21 settembre 2014)
«L’assassinio di Giovanni Gentile è la pagina più nera
della storia della resistenza italiana». A scriverlo non è, come si potrebbe
pensare, un “revisionista” alla Giampaolo Pansa o un fascista alla Giorgio
Pisanò, bensì uno stimato docente universitario, uno – giusto per rendere
l’idea – che collabora abitualmente con la trasmissione televisiva Il tempo e la storia, in onda tutti i giorni
sulla “rossa” Raitre. Il suo nome è Francesco Perfetti, romano nato nella
capitale nel 1943, ordinario di Storia Contemporanea presso la Facoltà di
Scienze Politiche della Luiss Guido Carli di Roma. A Gentile, il filosofo del
regime (quello della celebre riforma della scuola datata 1923), Perfetti ha dedicato
diversi studi, tra cui quello da cui è tratta la provocatoria citazione posta
in apertura di questo articolo. Il libro in questione si intitola Assassinio di un filosofo. Anatomia di un
omicidio politico, pubblicato da Le Lettere esattamente dieci anni fa (e
quindi nel sessantesimo anniversario della morte del padre dell’attualismo).
La tesi di Perfetti è che l’eliminazione di Gentile non
faccia per nulla onore alla Resistenza, intesa quale movimento politico che,
per legittimarsi nei confronti delle generazioni vissute nel dopoguerra, non
può permettersi alcuna giustificazione di certe azioni, compiute nel suo nome,
contrarie ai più elementari principi della moralità pubblica. Scrive infatti lo
storico a proposito dell’assassinio di Gentile: «Avvenimento che non trovava
giustificazione di alcun genere – né militare né politica, essendo il filosofo
uomo che non ricopriva cariche pubbliche se non di natura esclusivamente
culturale e che, ben conosciuto per la sua mitezza e il suo disinteresse, si
adoperava per la conciliazione degli italiani – questo omicidio continua a
imbarazzare – che lo vogliano ammettere oppure no – i comunisti (e i loro eredi
postcomunisti) i quali ne furono, a livelli diversi, i mandanti e gli esecutori
materiali. Esso pesa come un macigno sulla loro coscienza politica, ammesso che
si possa parlare di coscienza per chi, come tanti personaggi coinvolti nella
vicenda, misero la propria intelligenza e la propria indipendenza al servizio
della ragion di partito».
Ma allora, il 15 aprile 1944 cosa spinse un commando di
quattro gappisti fiorentini a far fuoco su un uomo di cultura, su un filosofo
che certo era ed era stato fascista, ma che nella RSI non ricopriva alcun
incarico politico ed anzi si prodigava per preservare il supremo valore, insidiato
da più parti, della concordia nazionale? Se è vero – come in parte è vero, non
c’è dubbio – che la Resistenza fu un movimento per la libertà, per quale motivo
si giunse a condannare un uomo per le sue idee? È lecito, cioè, far fuori un
intellettuale solo perché il suo pensiero – e non certo le sue azioni – è
giudicato una minaccia? E infine: cosa conteneva la riflessione (politica e
filosofica) di Gentile di così pericoloso?
Per rispondere, occorre innanzitutto tenere presente che
quando si parla di Resistenza non si deve commettere l’errore di fare
riferimento a un movimento omogeneo, in marcia compatto contro la dittatura. La
Resistenza, infatti, ebbe diverse anime, tenute insieme dal collante dell’antifascismo
più che dall’impegno comune in favore della democrazia. Per il PCI la collaborazione
con le forze liberali era strumentale e finalizzata, nell’immediato, al
definitivo abbattimento del regime di Mussolini; e non era certo un’alleanza
del tutto trasparente, giacché i comunisti dipendevano da Mosca e avevano il
fin troppo evidente obiettivo di instaurare, prima o poi, la cosiddetta
dittatura del proletariato. Con ciò s’intende dire che, innegabilmente, se c’era
una forza politica in grado di trarre giovamento dal clima di guerra civile che
permeava la lotta di Liberazione, quella era senz’altro il PCI. I fascisti,
infatti – e quelli più accorti se ne avvidero –, perché mai avrebbero dovuto
soffiare sul fuoco delle contrapposizioni ideologiche proprio mentre un
esercito pressoché inarrestabile stava risalendo la penisola? Non era più
logico, dal loro punto di vista di sconfitti quasi certi, richiamarsi alla
concordia nazionale per evitare inutili spargimenti di sangue? Al contrario, è
del tutto evidente che per una forza rivoluzionaria come quella di cui i
comunisti erano espressione, una forza cioè che ambiva a farsi egemone nel
paese, la contrapposizione tra due blocchi divenuti inconciliabili era la conditio sine qua non di un’eventuale
presa del potere. Il PCI, in altre parole, aveva bisogno che tutti facessero
una scelta, che tutti si schierassero, che tutti prendessero posizione pro o
contro il fascismo, con l’implicita premessa che una condanna del comunismo
sarebbe stata interpretata dagli uomini di Togliatti come un atto
intrinsecamente fascista. Vele la pena, dunque, ripetere la domanda: perché
uccidere Gentile? E, provocatoriamente, porre un ulteriore interrogativo: a chi
poteva nuocere il suo appello alla conciliazione?
Le parole di Togliatti a commento dell’assassinio aiutano
a rispondere a queste domande. All’indomani dell’omicidio, il Migliore elogiò infatti
apertamente i carnefici e definì il filosofo «bandito politico», nonché
«camorrista, corruttore di tutta la vita intellettuale italiana». Ed è interessante
l’uso di questo aggettivo: «corruttore». A Gentile, cioè, non si perdonava la
presunta volontà di fare un uso strumentale del richiamo alla pacificazione al
solo scopo di risparmiare ai fascisti l’inevitabile resa dei conti. Sotto
accusa, in particolare, era finito il Discorso
agli Italiani pronunciato in Campidoglio il 24 giugno 1943, nel quale il
filosofo aveva parlato – rivolgendosi «a tutti gli Italiani, fascisti o non
fascisti» – della necessità di continuare a credere in una vittoria essenzialmente
morale, «tenendo sempre alta [...] la bandiera della Patria»; e, ancor di più, il
discorso pronunciato a Firenze il 19 marzo 1944 (quindi in piena RSI), in
occasione della prima manifestazione pubblica della nuova Accademia d’Italia,
di cui Gentile aveva assunto la presidenza. Significativamente, esso conteneva
un chiaro appello alla concordia nazionale, condannava la guerra fratricida e
deprecava la distruzione dei simboli della cultura e della religione.
Quello che Gentile cercava di ottenere – in assoluta
buona fede, secondo l’opinione di Perfetti – era il riconoscimento del supremo
valore della cultura quale collante in grado di unire gli italiani (l’Accademia,
nelle sue intenzioni, doveva assolvere la missione della «custodia del fuoco
sacro della Patria»). Ma l’obiettivo del filosofo era proprio ciò che i
comunisti non potevano permettere, come emerge chiaramente da una nota
pubblicata dal giornale clandestino «La Nostra Lotta» subito dopo il discorso del
19 marzo, che suona evidentemente come un’inappellabile sentenza di morte:
«Quanti oggi invitano alla concordia, sono complici degli assassini nazisti e
fascisti; quanti oggi invitano alla tregua vogliono disarmare i Patrioti e
rifocillare gli assassini nazisti e fascisti perché indisturbati consumino i
loro crimini. La spada non va riposta finché l’ultimo nazista non abbia
ripassato le Alpi, finché l’ultimo traditore fascista non sia sterminato. Per i
manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, senatore
Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: MORTE!».
Queste righe furono vergate da Girolamo Li Causi
(responsabile della stampa e della propaganda nella direzione del PCI in Alta
Italia), sulla base di un precedente intervento apparso sul quotidiano
socialista di Lugano «Libera Stampa» a firma del noto latinista Concetto
Marchesi. Quest’ultimo, in particolare, aveva preso posizione contro un
articolo di Gentile pubblicato dal «Corriere della Sera» il 28 dicembre 1943,
nel quale il filosofo, tra le altre cose, aveva scritto: «Colpire dunque il
meno possibile; andare incontro alle masse per conquistarne la fiducia e richiamarle
alla coscienza del comune dovere. Non insistere sempre sui tradimenti, che
disonorano la Nazione e non soltanto i colpevoli, se questi erano a capo della
Nazione. Non perseguitare pel gusto di una giustizia che si compia anche a
danno del Paese; sentire una volta la nausea degli scandali, che era logico
fossero inscenati quando si trattava di preparare l’obbrobrio dell’8 settembre
e prostrare il Paese; ma non possono entrare nel programma della ricostruzione,
che richiede rinnovata e salda fiducia del Paese nelle sue forze morali».
Come bene spiega lo storico comunista Roberto Battaglia,
l’assassinio di Gentile era una conseguenza della presa di coscienza da parte
del PCI della «necessità di colpire più a fondo, fino alle radici», al fine di
instaurare una nuova egemonia culturale. I comunisti, conclude Perfetti,
giacché non guardavano alla democrazia parlamentare come a un traguardo,
avevano assoluto bisogno di conquistare «un ruolo di preminenza e in un certo
senso di guida all’interno della coalizione antifascista, e ciò sarebbe stato
possibile soltanto mettendo in difficoltà la componente più forte, quanto meno
dal punto di vista intellettuale, della coalizione, ossia quella azionista di
cui la maggior parte degli esponenti era di formazione gentiliana. Si
comprende, quindi, perché l’uccisione di Gentile non potesse che essere
funzionale al disegno rivoluzionario ed egemonico del Pci quale era stato
concepito da Togliatti».
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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