(articolo apparso su Prima Pagina del 7 settembre 2014)
Tra l’aprile e il maggio del 1940 gli agenti del Nkvd
(Commissariato del Popolo per gli Affari Interni, il padre del più celebre Kgb)
sterminarono 25.000 cittadini polacchi – in prevalenza ufficiali dell’esercito,
ma anche diverse altre categorie di prigionieri – caduti in mano sovietica
durante l’occupazione della Polonia orientale, precedentemente concordata con
la Germania nazista attraverso il patto Molotov-Ribbentrop. L’eccidio è
ricordato come massacro di Katyn dal nome della località situata presso la
città di Smolensk (sede di uno dei campi di concentramento riservati agli
internati polacchi), dove nel 1943 furono rinvenute le fosse comuni scavate dai
russi per occultare i corpi delle vittime.
Katyn, a prescindere dalla drammaticità dell’evento, è
realmente un caso singolare. Per decenni la macchina propagandistica sovietica
ha addossato ai nazisti la responsabilità della strage e, complice la
sconcertante arrendevolezza delle potenze occidentali, è riuscita a tenere più
o meno nascoste le colpe del regime staliniano. Solo durante il periodo della perestrojka Gorbaciov – che pure si
mostrò eccessivamente prudente e reticente – consentì che alcuni documenti
chiave venissero alla luce, rompendo un silenzio che durava ormai da
cinquant’anni. Infine, fu il crollo dell’URSS a fugare gli ultimi dubbi,
permettendo che fossero resi noti i nomi dei responsabili e degli esecutori
materiali dell’eccidio.
Come anticipato, le origini e le ragioni del massacro
vanno ricercate nel patto Molotov-Ribbentrop, di fatto il compimento della
politica di avvicinamento reciproco tra i totalitarismi tedesco e russo promossa
da Hitler e da Stalin a partire dai primi mesi del 1939. L’alleanza tra Berlino
e Mosca era funzionale alla spartizione dell’Europa in due sfere di influenza,
come l’occupazione “congiunta” della Polonia (invasa dalle truppe naziste il 1°
settembre 1939 e dall’Armata Rossa due settimane dopo) si incaricò, di lì a
poco, di dimostrare. Nell’architettare il piano d’azione sovietica, Stalin
diede prova di grande cinismo, progettando di trarre beneficio da una guerra
che, nelle sue previsioni, avrebbe inferto un colpo mortale al capitalismo
occidentale. Quanto poi alla Polonia, vittima sacrificale destinata ad essere
fagocitata dall’imperialismo russo-tedesco, la sua posizione – stando a quanto
riportato sul suo diario dal segretario generale del Comintern Georgij Dimitrov
– era chiara: «È uno stato fascista, opprime gli ucraini, i bielorussi ecc.
Nella situazione attuale la distruzione di questo stato significherebbe uno
stato borghese fascista di meno! Che cosa ci sarebbe di male se, come effetto
della sconfitta della Polonia, noi estendessimo il sistema socialista a nuovi
territori e popolazioni?».
La Russia, ad ogni modo, aggredì la Polonia senza
dichiarazione formale di guerra, tentando di presentare l’invasione come «una
mano fraterna» tesa al popolo polacco per impedire l’ingresso delle truppe
tedesche nelle regioni orientali in cui vivevano ucraini e bielorussi. La
guerra fu brevissima – per via della schiacciante superiorità russo-tedesca – e
fruttò ai sovietici il 52% del territorio polacco e circa 250.000 prigionieri.
Di questi, oltre 25.000 scomparvero, di lì a poco, nel nulla. Una lettera di
Berija a Stalin del 5 marzo 1940 consente di fare chiarezza sull’accaduto. In
essa, infatti, il capo del Nkvd suggeriva al dittatore di sottoporre al Commissariato
del Popolo «1) i casi relativi ai 14.700 detenuti che si trovano nei campi per
prigionieri di guerra: ex ufficiali polacchi, funzionari, proprietari terrieri,
agenti di polizia e dei servizi segreti, gendarmi e guardie carcerarie, 2) e
parimenti i casi relativi ai circa 11 mila detenuti che si trovano nelle
prigioni delle regioni occidentali di Ucraina e Bielorussia: membri di diverse
organizzazioni spionistiche e sabotatrici, ex proprietari terrieri,
imprenditori, ex ufficiali polacchi, funzionari e traditori». Trattandosi –
argomentava Berija – di «nemici inveterati e incorreggibili del potere
sovietico», la lettera consigliava di «esaminare i casi secondo una procedura
speciale, applicando nei confronti dei detenuti la più alta misura punitiva: la
fucilazione».
Le richieste di Berija furono prontamente accolte dal
Politburo (l’ufficio politico del Partito comunista sovietico), che non esitò
ad autorizzare una «procedura speciale» per l’immediata esecuzione dei
prigionieri, ovvero – sono sempre parole del capo del Nkvd – «senza mandare i
detenuti a processo, senza elevare a loro carico capi di imputazione, senza
documentare la chiusura dell’istruttoria e senza formulare accuse». In
sostanza, il regime comunista decideva di sbarazzarsi di 25.000 uomini
considerati nemici di classe in quanto – ha scritto Victor Zaslavsky – «membri
della nazione polacca che nel futuro avrebbero potuto guidare una lotta per la
sua rinascita».
Ma cosa accadde in seguito? Nel giugno del 1941 le armate
hitleriane invasero l’URSS, sottraendo ai russi i territori in cui si trovavano
i campi che erano stati riservati ai detenuti polacchi. Meno di due anni dopo,
precisamente il 13 aprile 1943, i tedeschi annunciarono di avere scoperto le
fosse comuni di Katyn, dove – dissero – erano stati rinvenuti i corpi di
migliaia di ufficiali polacchi fucilati dagli agenti del Nkvd. Immediatamente,
per alimentare la propaganda antisovietica, fu istituita una Commissione medica
internazionale d’inchiesta, incaricata di documentare scientificamente il
massacro. La conclusione di quest’ultima fu che i cadaveri risalivano alla
primavera del 1940: una data che accusava in maniera incontrovertibile i
sovietici e che fu confermata anche da una Commissione tecnica della Croce
Rossa polacca (che annoverava, all’insaputa dei tedeschi, alcuni membri della
resistenza e che, per non favorire la propaganda nazista, preferì non pubblicare
le proprie conclusioni, affidandole in gran segreto al governo britannico).
In seguito, quando l’Armata Rossa in avanzamento verso
ovest recuperò Katyn, i sovietici si affrettarono ad istituire una propria
Commissione per confutare i risultati dell’inchiesta internazionale. La nuova
versione, scontata, addossava ai nazisti la responsabilità dell’eccidio,
collocabile cronologicamente nell’agosto-settembre del 1941. In questa sede,
per questioni di spazio, non è possibile entrare nel merito delle opposte
conclusioni delle due Commissioni: basti dire, però, che i corrispondenti
occidentali – appositamente invitati per accreditare la nuova inchiesta – notarono
che i cadaveri degli ufficiali polacchi indossavano abiti invernali, di fatto costringendo
– non senza imbarazzo – i sovietici a rettificare la data dei decessi e ad
inserire questi ultimi in un arco temporale compreso «tra l’agosto e il
dicembre del 1941».
La versione sovietica – sfacciatamente manipolata – fu ad
ogni modo “protetta” dalla complicità occidentale, considerata la necessità,
nell’immediato, di concentrare gli sforzi per annientare definitivamente la
Germania nazista. Churchill, al riguardo, fu piuttosto esplicito, e al capo del
governo polacco in esilio, Sikorski, che chiedeva spiegazioni su Katyn, rispose
cinicamente: «Se sono morti non c’è niente che possa riportarli indietro. […]
Dobbiamo sconfiggere Hitler e questo non è il momento per litigi e accuse».
Posizione, quella inglese, che se era comprensibile in tempo di guerra, certo
divenne ingiustificabile dopo il 1945, quando prevalse la volontà di evitare lo
scontro diplomatico con una grande potenza (e di non compromettere vantaggiosi rapporti
economici).
Anche Roosevelt, piuttosto indifferente rispetto al
destino dell’Europa orientale, preferì non inimicarsi Stalin più del dovuto; il
che contribuì a rafforzare la menzogna sovietica, che già aveva tratto
credibilità dall’inconcludenza dei giudici alleati del processo di Norimberga,
i quali, pilatescamente, avevano sorvolato sui fatti di Katyn. Di fatto,
l’arrendevolezza occidentale convinse i russi a tenere duro. Scrive al riguardo
Zaslavsky: «I servizi segreti sovietici approfittarono di questo clima di
complicità e indifferenza per organizzare una campagna internazionale tesa a
gettare discredito e costringere a tacere le persone che conoscevano il caso
Katyn per esperienza diretta, in particolare quei membri della Commissione
medica internazionale che vivevano nei paesi fuori del raggio d’azione
immediata degli uomini di Berija. La loro sorveglianza fu affidata ai partiti
comunisti locali».
Anche il membro italiano della Commissione, professor
Vincenzo Palmieri, fu tenuto sotto stretta sorveglianza da parte del PCI e
sottoposto a pesanti attacchi intimidatori, dal momento che non accettava di
ritrattare la sua versione su Katyn. L’accanimento nei suoi confronti fu tale
da spingere il corpo docente dell’Università di Napoli a chiederne
l’allontanamento dall’insegnamento, il che non avvenne solo grazie
all’intervento diretto del rettore Adolfo Omodeo. Era infatti il clima stesso
della guerra fredda ad impedire che il PCI ammettesse le responsabilità
sovietiche e accettasse che la verità prendesse il sopravvento sull’ideologia.
Ancora nel 1990, giusto per fare un esempio, nella Storia dell’Unione Sovietica del comunista Giuseppe Boffa si
leggeva che «la verità sulla tragedia di Katyn non potrà mai essere stabilita
in modo oggettivo». Oggi, fortunatamente, dopo il crollo dell’URSS e l’apertura
degli archivi sovietici, simili menzogne non sono più sostenibili. Resta però
da chiedersi: quanti studenti, anche di livello universitario, attualmente
conoscono questa pagina drammatica della storia contemporanea?
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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