giovedì 11 settembre 2014

Il massacro di Katyn: storia di un eccidio negato per cinquant’anni

(articolo apparso su Prima Pagina del 7 settembre 2014)

Tra l’aprile e il maggio del 1940 gli agenti del Nkvd (Commissariato del Popolo per gli Affari Interni, il padre del più celebre Kgb) sterminarono 25.000 cittadini polacchi – in prevalenza ufficiali dell’esercito, ma anche diverse altre categorie di prigionieri – caduti in mano sovietica durante l’occupazione della Polonia orientale, precedentemente concordata con la Germania nazista attraverso il patto Molotov-Ribbentrop. L’eccidio è ricordato come massacro di Katyn dal nome della località situata presso la città di Smolensk (sede di uno dei campi di concentramento riservati agli internati polacchi), dove nel 1943 furono rinvenute le fosse comuni scavate dai russi per occultare i corpi delle vittime.
Katyn, a prescindere dalla drammaticità dell’evento, è realmente un caso singolare. Per decenni la macchina propagandistica sovietica ha addossato ai nazisti la responsabilità della strage e, complice la sconcertante arrendevolezza delle potenze occidentali, è riuscita a tenere più o meno nascoste le colpe del regime staliniano. Solo durante il periodo della perestrojka Gorbaciov – che pure si mostrò eccessivamente prudente e reticente – consentì che alcuni documenti chiave venissero alla luce, rompendo un silenzio che durava ormai da cinquant’anni. Infine, fu il crollo dell’URSS a fugare gli ultimi dubbi, permettendo che fossero resi noti i nomi dei responsabili e degli esecutori materiali dell’eccidio.
Come anticipato, le origini e le ragioni del massacro vanno ricercate nel patto Molotov-Ribbentrop, di fatto il compimento della politica di avvicinamento reciproco tra i totalitarismi tedesco e russo promossa da Hitler e da Stalin a partire dai primi mesi del 1939. L’alleanza tra Berlino e Mosca era funzionale alla spartizione dell’Europa in due sfere di influenza, come l’occupazione “congiunta” della Polonia (invasa dalle truppe naziste il 1° settembre 1939 e dall’Armata Rossa due settimane dopo) si incaricò, di lì a poco, di dimostrare. Nell’architettare il piano d’azione sovietica, Stalin diede prova di grande cinismo, progettando di trarre beneficio da una guerra che, nelle sue previsioni, avrebbe inferto un colpo mortale al capitalismo occidentale. Quanto poi alla Polonia, vittima sacrificale destinata ad essere fagocitata dall’imperialismo russo-tedesco, la sua posizione – stando a quanto riportato sul suo diario dal segretario generale del Comintern Georgij Dimitrov – era chiara: «È uno stato fascista, opprime gli ucraini, i bielorussi ecc. Nella situazione attuale la distruzione di questo stato significherebbe uno stato borghese fascista di meno! Che cosa ci sarebbe di male se, come effetto della sconfitta della Polonia, noi estendessimo il sistema socialista a nuovi territori e popolazioni?».
La Russia, ad ogni modo, aggredì la Polonia senza dichiarazione formale di guerra, tentando di presentare l’invasione come «una mano fraterna» tesa al popolo polacco per impedire l’ingresso delle truppe tedesche nelle regioni orientali in cui vivevano ucraini e bielorussi. La guerra fu brevissima – per via della schiacciante superiorità russo-tedesca – e fruttò ai sovietici il 52% del territorio polacco e circa 250.000 prigionieri. Di questi, oltre 25.000 scomparvero, di lì a poco, nel nulla. Una lettera di Berija a Stalin del 5 marzo 1940 consente di fare chiarezza sull’accaduto. In essa, infatti, il capo del Nkvd suggeriva al dittatore di sottoporre al Commissariato del Popolo «1) i casi relativi ai 14.700 detenuti che si trovano nei campi per prigionieri di guerra: ex ufficiali polacchi, funzionari, proprietari terrieri, agenti di polizia e dei servizi segreti, gendarmi e guardie carcerarie, 2) e parimenti i casi relativi ai circa 11 mila detenuti che si trovano nelle prigioni delle regioni occidentali di Ucraina e Bielorussia: membri di diverse organizzazioni spionistiche e sabotatrici, ex proprietari terrieri, imprenditori, ex ufficiali polacchi, funzionari e traditori». Trattandosi – argomentava Berija – di «nemici inveterati e incorreggibili del potere sovietico», la lettera consigliava di «esaminare i casi secondo una procedura speciale, applicando nei confronti dei detenuti la più alta misura punitiva: la fucilazione».
Le richieste di Berija furono prontamente accolte dal Politburo (l’ufficio politico del Partito comunista sovietico), che non esitò ad autorizzare una «procedura speciale» per l’immediata esecuzione dei prigionieri, ovvero – sono sempre parole del capo del Nkvd – «senza mandare i detenuti a processo, senza elevare a loro carico capi di imputazione, senza documentare la chiusura dell’istruttoria e senza formulare accuse». In sostanza, il regime comunista decideva di sbarazzarsi di 25.000 uomini considerati nemici di classe in quanto – ha scritto Victor Zaslavsky – «membri della nazione polacca che nel futuro avrebbero potuto guidare una lotta per la sua rinascita».
Ma cosa accadde in seguito? Nel giugno del 1941 le armate hitleriane invasero l’URSS, sottraendo ai russi i territori in cui si trovavano i campi che erano stati riservati ai detenuti polacchi. Meno di due anni dopo, precisamente il 13 aprile 1943, i tedeschi annunciarono di avere scoperto le fosse comuni di Katyn, dove – dissero – erano stati rinvenuti i corpi di migliaia di ufficiali polacchi fucilati dagli agenti del Nkvd. Immediatamente, per alimentare la propaganda antisovietica, fu istituita una Commissione medica internazionale d’inchiesta, incaricata di documentare scientificamente il massacro. La conclusione di quest’ultima fu che i cadaveri risalivano alla primavera del 1940: una data che accusava in maniera incontrovertibile i sovietici e che fu confermata anche da una Commissione tecnica della Croce Rossa polacca (che annoverava, all’insaputa dei tedeschi, alcuni membri della resistenza e che, per non favorire la propaganda nazista, preferì non pubblicare le proprie conclusioni, affidandole in gran segreto al governo britannico).
In seguito, quando l’Armata Rossa in avanzamento verso ovest recuperò Katyn, i sovietici si affrettarono ad istituire una propria Commissione per confutare i risultati dell’inchiesta internazionale. La nuova versione, scontata, addossava ai nazisti la responsabilità dell’eccidio, collocabile cronologicamente nell’agosto-settembre del 1941. In questa sede, per questioni di spazio, non è possibile entrare nel merito delle opposte conclusioni delle due Commissioni: basti dire, però, che i corrispondenti occidentali – appositamente invitati per accreditare la nuova inchiesta – notarono che i cadaveri degli ufficiali polacchi indossavano abiti invernali, di fatto costringendo – non senza imbarazzo – i sovietici a rettificare la data dei decessi e ad inserire questi ultimi in un arco temporale compreso «tra l’agosto e il dicembre del 1941».
La versione sovietica – sfacciatamente manipolata – fu ad ogni modo “protetta” dalla complicità occidentale, considerata la necessità, nell’immediato, di concentrare gli sforzi per annientare definitivamente la Germania nazista. Churchill, al riguardo, fu piuttosto esplicito, e al capo del governo polacco in esilio, Sikorski, che chiedeva spiegazioni su Katyn, rispose cinicamente: «Se sono morti non c’è niente che possa riportarli indietro. […] Dobbiamo sconfiggere Hitler e questo non è il momento per litigi e accuse». Posizione, quella inglese, che se era comprensibile in tempo di guerra, certo divenne ingiustificabile dopo il 1945, quando prevalse la volontà di evitare lo scontro diplomatico con una grande potenza (e di non compromettere vantaggiosi rapporti economici).
Anche Roosevelt, piuttosto indifferente rispetto al destino dell’Europa orientale, preferì non inimicarsi Stalin più del dovuto; il che contribuì a rafforzare la menzogna sovietica, che già aveva tratto credibilità dall’inconcludenza dei giudici alleati del processo di Norimberga, i quali, pilatescamente, avevano sorvolato sui fatti di Katyn. Di fatto, l’arrendevolezza occidentale convinse i russi a tenere duro. Scrive al riguardo Zaslavsky: «I servizi segreti sovietici approfittarono di questo clima di complicità e indifferenza per organizzare una campagna internazionale tesa a gettare discredito e costringere a tacere le persone che conoscevano il caso Katyn per esperienza diretta, in particolare quei membri della Commissione medica internazionale che vivevano nei paesi fuori del raggio d’azione immediata degli uomini di Berija. La loro sorveglianza fu affidata ai partiti comunisti locali».
Anche il membro italiano della Commissione, professor Vincenzo Palmieri, fu tenuto sotto stretta sorveglianza da parte del PCI e sottoposto a pesanti attacchi intimidatori, dal momento che non accettava di ritrattare la sua versione su Katyn. L’accanimento nei suoi confronti fu tale da spingere il corpo docente dell’Università di Napoli a chiederne l’allontanamento dall’insegnamento, il che non avvenne solo grazie all’intervento diretto del rettore Adolfo Omodeo. Era infatti il clima stesso della guerra fredda ad impedire che il PCI ammettesse le responsabilità sovietiche e accettasse che la verità prendesse il sopravvento sull’ideologia. Ancora nel 1990, giusto per fare un esempio, nella Storia dell’Unione Sovietica del comunista Giuseppe Boffa si leggeva che «la verità sulla tragedia di Katyn non potrà mai essere stabilita in modo oggettivo». Oggi, fortunatamente, dopo il crollo dell’URSS e l’apertura degli archivi sovietici, simili menzogne non sono più sostenibili. Resta però da chiedersi: quanti studenti, anche di livello universitario, attualmente conoscono questa pagina drammatica della storia contemporanea?

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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