(articolo apparso su Prima Pagina del 31 agosto 2014)
Il 7 febbraio 1945, guidato da Mario Toffanin detto
«Giacca», un commando dei GAP comunisti di Udine attaccò presso le Malghe di Porzus
il comando delle formazioni partigiane «Osoppo» – di orientamento cattolico e
azionista –, accusato di tradimento e collaborazione col nemico (in particolare
a causa di alcuni contatti con la X MAS in funzione antislava). Quattro persone
(il comandante, il commissario politico, un giovane volontario e una ragazza)
furono fucilate immediatamente dopo il disarmo, mentre per i restanti osovani
(diciassette) il destino si compì nei giorni successivi. «Costretti a scendere
a valle e caricati su dei camion – scrive Elena Aga-Rossi –, furono portati
nella zona del Bosco Romagno (Cividale del Friuli), dove furono trucidati a
piccoli gruppi. Solo due partigiani, che accettarono di passare nelle fila
garibaldine, furono risparmiati». Tra le vittime di quello che da allora è
ricordato come l'eccidio di Porzus figuravano anche Francesco De Gregori
(comandante della «Osoppo», zio dell'omonimo cantautore) e il fratello minore
di Pier Paolo Pasolini, Guido, appena diciannovenne.
Ma come si arrivò a quella carneficina? Per prima cosa,
occorre considerare che il comune denominatore dell'antifascismo non impediva
ad osovani e comunisti di dividersi in modo radicale su una questione
fondamentale: l'italianità del Friuli orientale e della Venezia Giulia, difesa
con determinazione dai primi e, al contrario, avversata dai secondi per tenere
fede all'alleanza – di natura ideologica – con i partigiani sloveni. I
propositi di questi ultimi erano chiari. Come scrisse il leader comunista
sloveno Edvard Kardelj in una lettera del 9 settembre 1944, tra le formazioni
della Resistenza italiana occorreva «fare un repulisti di tutti gli elementi
imperialisti e fascisti»; il che, tradotto, significava che le forze di Tito
non avrebbero dovuto «lasciare su questi territori nemmeno una unità nella
quale lo spirito imperialistico italiano potrebbe essere camuffato da falsi democratici».
A fronte di questa aggressività slava, il PCI si mostrò
opportunisticamente arrendevole. Il 17 ottobre 1944 Togliatti incontrò a Roma
Kardelj, il quale in seguito commentò il colloquio col «Migliore» con queste
parole: «Egli non mette in discussione che Trieste spetti alla Jugoslavia,
tuttavia ci raccomanda di applicare una politica nazionale atta a soddisfare
gli italiani». A conferma di questa versione è sufficiente citare la missiva
che lo stesso Togliatti, pochi giorni dopo l'incontro con Kardelj, inviò a
Vincenzo Bianco, alto dirigente e rappresentante del PCI nella Venezia Giulia:
nella lettera veniva impartita la direttiva di favorire con ogni mezzo «l'occupazione
della regione giuliana da parte delle truppe del maresciallo Tito» e di
«prendere posizione contro tutti quegli elementi italiani che si mantengono sul
terreno e agiscono a favore dell'imperialismo e nazionalismo italiano e contro
tutti coloro che contribuiscono in qualsiasi modo a creare discordia tra i due
popoli». Superfluo sottolineare che i membri della «Osoppo» rientravano in
questa categoria, anche perché – come ha scritto Tommaso Piffer – «erano [...]
gli stessi comunisti a imporre i prerequisiti necessari per far parte del campo
antifascista, tacciando di filofascismo ogni divergenza tattica o pregiudiziale
anticomunista».
Le direttive di Togliatti furono presto accolte. In
novembre le formazioni comuniste passarono infatti sotto il controllo di quelle
slovene, che diedero inizio ad una violenta opera di propaganda antitaliana
(fatta di minacce e di intimidazioni). Di fatto, come ricorda un garibaldino
amico di alcuni esponenti osovani, gli sloveni pianificarono una slavizzazione
forzata dei territori da loro occupati «con plebisciti, chiusura di scuole
italiane, imposizioni della lingua slovena, il reclutamento coatto dei
giovani». In pratica, a difendere la causa nazionale italiana rimasero le sole
formazioni della «Osoppo», un serio ostacolo che si frapponeva tra le forze
titine e la realizzazione dei loro piani annessionistici.
A questo proposito, giova citare un documento rinvenuto
negli archivi di Stato inglesi e pubblicato nel 2008. A rilevarne l'importanza
è ancora Elena Aga-Rossi: «Si tratta del resoconto di un incontro avvenuto in
Val Resia il 1° gennaio 1945 tra un comandante di una brigata “Osoppo” operante
in quella zona, Romano Zoffo, e gli sloveni. L'intenzione di questi ultimi,
esplicitamente dichiarata nel corso del colloquio, era quella di ottenere il
completo controllo militare della zona, per poi annetterla attraverso un
plebiscito da tenere sotto la minaccia delle armi. La presenza di forze
partigiane italiane autonome era evidentemente un ostacolo per la realizzazione
di questo piano. Nel corso del colloquio gli sloveni intimarono il passaggio
sotto il loro comando della formazione “Osoppo”, con la minaccia di procedere,
in caso contrario, al disarmo delle forze osovane. La proposta fu seccamente
respinta, e “Livio”, questo il nome di battaglia del partigiano, dichiarò che
il destino della Val Resia sarebbe stato deciso dal trattato di pace. Questo
scontro verbale non ebbe effetti immediati, ma suona come il prologo di una
tragedia annunciata, che si sarebbe compiuta un mese dopo a Porzus».
Come è facile intuire, i punti centrali della questione
sono essenzialmente due. Da un lato, l'apparente paradosso di un clamoroso ed
efferato fatto di sangue che ha coinvolto due formazioni partigiane che, in
teoria, avrebbero dovuto avere come primario obiettivo la comune lotta contro
il nemico nazifascista; dall'altro, l'ambigua politica di un PCI che si presta
al doppio gioco con Mosca, sacrificando la causa nazionale sull'altare
dell'ideologia. A questo proposito è bene ricordare che già nel 1941 Stalin, in
occasione di una visita a Mosca del ministro degli Esteri britannico Anthony
Eden, aveva proposto una riorganizzazione dei confini europei per il dopoguerra
che prevedeva che «la Jugoslavia dovrebbe essere ricostituita nei suoi vecchi
confini e un po' ampliata a spese dell'Italia (Trieste, Fiume, le isole
nell'Adriatico ecc.)». La strategia sovietica, del resto, era chiara: estendere
il più possibile il territorio posto sotto il controllo delle formazioni
comuniste, al fine di poterlo poi rivendicare, a guerra conclusa, nei confronti
delle potenze occidentali (individuate come nemici in quella guerra fredda di
cui già si avvertivano le avvisaglie). L'annessione della Venezia Giulia alla
Jugoslavia era dunque funzionale a questo intento, come prova, tra le altre
cose, un telegramma datato 15 aprile 1944 inviato da Stalin e Molotov a Tito,
nel quale il leader sovietico e il suo ministro degli Esteri dichiaravano di
considerare la Jugoslavia «il nostro principale baluardo nell'Europa orientale
meridionale».
Alla luce di queste considerazioni, non sorprende che il
tema dell'eccidio di Porzus sia tuttora piuttosto delicato. In gioco entra
infatti la credibilità del PCI quale partito nazionale, accusato di tradimento
per aver operato a danno degli interessi italiani nelle regioni del confine
orientale. Da questa accusa i responsabili dell'eccidio di Porzus furono
assolti al processo di Lucca del 1952 (che pure inflisse 800 anni complessivi
di reclusione a 33 imputati detenuti a ad altri latitanti) e, nuovamente, a
quello di Firenze del 1954, anche se in quel caso si stabilì che gli imputati
avevano compiuto la strage reputandola «utile e necessaria per conseguire lo
scopo di distaccare dallo Stato Italiano parte del suo territorio» (l'assoluzione
fu motivata dalla constatazione che, al di là dell'intenzione, occorreva che
sussistesse un concreto pericolo di aggressione al suolo nazionale; questa
interpretazione fu poi contestata dalla Corte di Cassazione, ma tutto si
risolse nel nulla per l'intervenuta amnistia del 1958).
Ancora oggi, dopo settant'anni di controversie politiche
e storiografiche, risulta complicato giungere ad una memoria condivisa dei
fatti di Porzus, a causa soprattutto dell'ostinato rifiuto da parte dell'ANPI
(Associazione Nazionale Partigiani d'Italia, sin da subito organizzatasi sotto
l'egida del PCI) di riconoscere le responsabilità – morali e strategiche – del
Partito comunista. Solo nel 2001 Giovanni Padoan (commissario politico
garibaldino) e don Redento Bello (cappellano delle «Osoppo») si incontrarono
alle Malghe per un tentativo di riconciliazione, che tuttavia non ebbe seguito.
In quell'occasione, Padoan lesse un'importantissima dichiarazione, nella quale,
tra le altre cose, si diceva: «L'eccidio di Porzus e del Bosco Romagno [...] è
stato un crimine di guerra che esclude ogni giustificazione. [...] Benché il
mandante dell'eccidio sia stato il Comando sloveno del IX Korpus, gli
esecutori, però, erano gappisti dipendenti anche militarmente dalla Federazione
del PCI di Udine, i cui dirigenti si resero complici del barbaro misfatto; e
siccome i GAP erano formazioni garibaldine, anche se personalmente non sono
stato coinvolto nell'eccidio, quale dirigente del PCI d'allora e come ultimo
membro del Comando Raggruppamento divisioni “Garibaldi-Friuli”, assumo la
responsabilità oggettiva [...]. E chiedo formalmente perdono e scusa agli eredi
delle vittime».
Il perdono, infatti, è ciò che manca per porre davvero
fine all'intera vicenda. Le ferite della Seconda guerra mondiale faticano a
rimarginarsi proprio perché l'odio ideologico impedisce, ancora oggi, di
trovare un punto d'incontro sulle responsabilità. L'eccidio di Porzus, del
resto, lascia ben pochi dubbi su chi siano state le vittime e chi i carnefici.
Commemorando il fratello pochi mesi dopo la sua morte, Pasolini lo disse
chiaramente: «Essendo stato richiesto a questi giovani, veramente eroici, di
militare nelle file garibaldino-slave, essi si sono rifiutati dicendo di voler
combattere per l'Italia e la libertà; non per Tito e il comunismo. Così sono
stati ammazzati tutti, barbaramente».
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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