lunedì 25 agosto 2014

Il rebus Togliatti, ovvero: come può uno stretto collaboratore di Stalin costituire un modello di azione politica?

(articolo apparso su Prima Pagina del 24 agosto 2014)

Di recente sulle pagine di questo giornale è apparsa una polemica tra la parlamentare del PD Giuditta Pini e il vicesegretario regionale del Partito Repubblicano Paolo Ballestrazzi. Oggetto della contesa, un giudizio su Palmiro Togliatti, storico segretario del PCI. Per farla breve, alla Pini che ha affermato che «Paragonarmi al segretario Pci Togliatti che evitò la guerra civile mi onora», Ballestrazzi ha replicato tacciando la deputata democratica di «superficialità» e delineando un breve profilo poco lusinghiero della figura del «Migliore».
Per dovere di correttezza nei confronti del lettore, è bene fare chiarezza su un aspetto: l’autore delle righe che state scorrendo concorda pienamente con le perplessità espresse dall’esponente repubblicano in merito all’opportunità di richiamarsi all’esperienza storica di un uomo che nasconde diversi grossi scheletri nell’armadio. In sostanza, volendo anticipare la tesi finale di questo articolo, chi scrive ritiene che Togliatti non sia certo una figura di cui la sinistra italiana possa andare fiera. E siccome Ballestrazzi si è soffermato, nel suo pezzo, essenzialmente sul periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, compito di questa pagina sarà argomentare l’opinione poc’anzi espressa compilando un breve excursus delle malefatte del Migliore per quanto attiene agli anni precedenti la Liberazione.
Tralasciando – per questioni di spazio – le prime esperienze giovanili, possiamo cominciare dal 25 luglio 1935. Quel giorno, in occasione dell’apertura a Mosca del VII congresso dell’Internazionale Comunista, Togliatti tenne un discorso di omaggio a Stalin, lodando il dittatore sovietico per aver «mantenuto la purezza della dottrina marxista-leninista». Erano parole di circostanza – di certo consigliabili (per usare un eufemismo…) nella Russia di quegli anni –, ma rivelatrici, involontariamente, di una caratteristica fondamentale del cosiddetto «compagno Ercoli»: l’innata capacità – ha scritto Massimo Salvadori – di riconoscere «nel conformismo il presupposto vitale del comunismo internazionale». Nell’Unione Sovietica degli anni Trenta (quelli delle purghe, per intendersi) la fedeltà a Stalin era infatti un essenziale requisito di sopravvivenza, e in questa particolare gara dell’ossequio – formale e sostanziale – Togliatti non era secondo a nessuno.
Al riguardo, ha scritto Philippe Baillet: «In Togliatti, l’approvazione delle purghe staliniste fu spinta alle estreme conseguenze. Essa rispondeva a una logica rigorosa, a una sorta di ingranaggio che, una volta avviato, diveniva fatale. A partire dal momento in cui accede ad altissime funzioni all’interno del Comintern, Togliatti dà talvolta l’impressione – a prescindere dal fanatismo e dalla convinzione – di agire sotto la sua influenza, di essere “tenuto in pugno”».
Di certo il Migliore era talmente scrupoloso quando si trattava di seguire le direttive di Stalin che non guardava in faccia a nessuno. Nemmeno alle decine di italiani (108, secondo alcune recenti stime) che tra il 1935 e il 1938 furono tratti in arresto con le accuse più assurde e pretestuose (è noto che Stalin era ossessionato dall’incubo del sabotaggio), per poi essere torturati (era questo il metodo utilizzato per estorcere le confessioni) e infine giustiziati. In base a quanto emerso dalle ricerche di Elena Dundovich – che ha ricostruito i processi delle vittime –, Togliatti diede il proprio assenso all’eliminazione di molti di questi presunti oppositori. In un recente volume, Giancarlo Lehner e Francesco Bigazzi hanno riassunto un caso specifico che vale la pena citare a titolo esemplificativo: «In un documento datato 25 dicembre 1936, catalogato come “segretissimo”, al terzo paragrafo c’è una lista di tredici comunisti italiani, fra cui Vincenzo Baccalà, bollati come “elementi negativi”. Accanto ai nomi di Rossetti (Baccalà) e di Modugno, c’è una nota: “trotzkista, deportare” […]. E in fondo al testo, la scritta: “Soglasen” (“Sono d’accordo”), firmato “Ercoli”».
L’intransigenza di Togliatti non fu ad ogni modo riservata ai soli connazionali. Nel 1938, infatti, il Migliore appose la propria firma in calce al documento di scioglimento del Partito comunista polacco, i cui dirigenti, che erano stati etichettati come trotzkisti e buchariniani, furono immediatamente liquidati. Sul ruolo e sul comportamento del leader comunista italiano, scrive Francesco Bigazzi: «Palmiro Togliatti rientrò improvvisamente a Mosca dalla Spagna, dove rappresentava la Terza Internazionale durante le guerra civile, per ratificare la scomparsa nel nulla di un intero partito, come se non fosse mai esistito. Solo in questo modo si spiega come mai il compagno Ercoli, che era il “numero due” del Comintern, abbia firmato per ultimo».
Di lì a pochi anni furono poi nuovamente gli italiani a dover sperimentare gli effetti del cinismo togliattiano. Inverno 1942-43: decine di migliaia di soldati dell’ARMIR cadono prigionieri nelle mani dei russi e sono trasferiti nelle retrovie in condizioni al limite della sopravvivenza. Nei campi di detenzione, tuttavia, il loro tasso di mortalità è così elevato da suscitare le perplessità di Vincenzo Bianco, stretto collaboratore di Togliatti. Questi, scrivendo al compagno Ercoli, chiede che si intervenga affinché i prigionieri «non muoiano in massa», ma la risposta che ottiene è in linea con il fanatismo che Stalin pretende da parte di tutti i suoi sottoposti: «La nostra posizione di principio rispetto agli eserciti che hanno invaso l’Unione Sovietica è stata definita da Stalin, e non vi è più niente da dire. Nella pratica, però, se un buon numero di prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da ridire. […] Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini, e soprattutto la spedizione contro la Russia, si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore, il più efficace degli antidoti». In totale, secondo quanto calcolato da Elena Aga-Rossi e Victor Zaslavsky, furono circa 85.000 i prigionieri italiani in URSS: nel 1946, quando l’ambasciata sovietica informò Roma di avere terminato le procedure di rimpatrio, fecero ritorno in Italia 21.193 persone, delle quali 11.000 erano in realtà ex prigionieri dei tedeschi catturati dopo l’8 settembre e passati in seguito sotto il controllo dell’Armata Rossa.
Da questa vicenda emerge dunque un ritratto di Togliatti in versione Ponzio Pilato: in sostanza, quando si trattava di prendere posizione per tentare di salvare delle vite – specie se quelle di connazionali –, il Migliore spesso preferì fare un passo indietro, onde evitare di esporsi in prima persona. Così fece anche per quanto concerne i massacri anti-italiani perpetrati da Tito (le foibe, ma anche più “tradizionali” deportazioni), che – secondo i calcoli di Gianni Oliva – costarono la vita a 10.137 persone. In quell’occasione, infatti, non solo Togliatti non mosse un dito per protestare contro la pulizia etnica di matrice slava, ma si preoccupò di scrivere sull’«Unità» del 1° maggio 1945 che i triestini avrebbero dovuto accogliere i soldati di Tito «come truppe liberatrici» e collaborare strettamente con essi «per schiacciare la resistenza tedesca e fascista».
Un’ultima annotazione riguarda infine il ruolo svolto dal PCI durante il periodo della Resistenza. In poche parole, se la lotta partigiana non fu solo guerra di liberazione, ma anche – e per certi versi soprattutto – guerra civile, la responsabilità fu anche dei comunisti, determinati a sfruttare lo sfacelo politico post-8 settembre per impadronirsi del potere. Ad accreditare questa tesi fu, tra i primi, Renzo De Felice: «Da parte comunista [...] non fu mai accettata l’idea che la lotta partigiana dovesse portare a un ritorno della democrazia “parlamentare borghese” e che la “svolta di Salerno”, realizzata appena rientrato Togliatti in Italia, potesse non essere un espediente tattico. Per Secchia, per Longo, per la gran maggioranza dei dirigenti del nord [...] l’obiettivo finale del Pci era e rimase sino alla fine [...] la realizzazione di una democrazia “popolare” [...] concepita come momento tattico e di transizione – come giustamente ha scritto il Bertelli – verso il “raggiungimento dell’irrinunciabile mito della dittatura del proletariato”».
Aggiunge poi lo stesso De Felice in un altro passo significativo: «La disponibilità degli archivi russi non lascia ormai più dubbi sul fatto che la politica del Pci [...] fu concepita e diretta da Mosca in funzione della realizzazione dei propri obiettivi di espansione diretta e indiretta e che i dirigenti comunisti italiani aderirono totalmente ad essa. In particolare, contrariamente a quanto Togliatti subito si preoccupò di accreditare e la vulgata, politica e storiografica, comunista si è adoperata a rendere una sorta di dogma [...], la documentazione oggi disponibile rivela che alla “svolta di Salerno” non può essere attribuito alcun carattere di autonomia politica rispetto all’Urss».
È proprio questo, del resto, il punto della questione. Può uno stretto collaboratore di Stalin – cioè, per essere chiari, un uomo che ha lavorato fianco a fianco con uno dei più grandi criminali che la storia ricordi – costituire un modello di azione politica nel 2014? L’impressione è che se l’Italia fosse un paese democraticamente più maturo questo semplice accostamento sarebbe sufficiente a delegittimare definitivamente una figura così ingombrante come Togliatti. Forse sarebbe ora che alcune frange della sinistra la facessero finita una volta per tutte con certe imbarazzanti nostalgie.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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