(articolo apparso su Prima Pagina del 24 agosto 2014)
Di recente sulle pagine di questo giornale è apparsa una
polemica tra la parlamentare del PD Giuditta Pini e il vicesegretario regionale
del Partito Repubblicano Paolo Ballestrazzi. Oggetto della contesa, un giudizio
su Palmiro Togliatti, storico segretario del PCI. Per farla breve, alla Pini
che ha affermato che «Paragonarmi al segretario Pci Togliatti che evitò la
guerra civile mi onora», Ballestrazzi ha replicato tacciando la deputata
democratica di «superficialità» e delineando un breve profilo poco lusinghiero
della figura del «Migliore».
Per dovere di correttezza nei confronti del lettore, è
bene fare chiarezza su un aspetto: l’autore delle righe che state scorrendo
concorda pienamente con le perplessità espresse dall’esponente repubblicano in
merito all’opportunità di richiamarsi all’esperienza storica di un uomo che nasconde
diversi grossi scheletri nell’armadio. In sostanza, volendo anticipare la tesi
finale di questo articolo, chi scrive ritiene che Togliatti non sia certo una
figura di cui la sinistra italiana possa andare fiera. E siccome Ballestrazzi
si è soffermato, nel suo pezzo, essenzialmente sul periodo successivo alla
Seconda guerra mondiale, compito di questa pagina sarà argomentare l’opinione
poc’anzi espressa compilando un breve excursus delle malefatte del Migliore per
quanto attiene agli anni precedenti la Liberazione.
Tralasciando – per questioni di spazio – le prime
esperienze giovanili, possiamo cominciare dal 25 luglio 1935. Quel giorno, in
occasione dell’apertura a Mosca del VII congresso dell’Internazionale
Comunista, Togliatti tenne un discorso di omaggio a Stalin, lodando il
dittatore sovietico per aver «mantenuto la purezza della dottrina
marxista-leninista». Erano parole di circostanza – di certo consigliabili (per
usare un eufemismo…) nella Russia di quegli anni –, ma rivelatrici,
involontariamente, di una caratteristica fondamentale del cosiddetto «compagno
Ercoli»: l’innata capacità – ha scritto Massimo Salvadori – di riconoscere «nel
conformismo il presupposto vitale del comunismo internazionale». Nell’Unione
Sovietica degli anni Trenta (quelli delle purghe, per intendersi) la fedeltà a
Stalin era infatti un essenziale requisito di sopravvivenza, e in questa
particolare gara dell’ossequio – formale e sostanziale – Togliatti non era
secondo a nessuno.
Al riguardo, ha scritto Philippe Baillet: «In Togliatti,
l’approvazione delle purghe staliniste fu spinta alle estreme conseguenze. Essa
rispondeva a una logica rigorosa, a una sorta di ingranaggio che, una volta
avviato, diveniva fatale. A partire dal momento in cui accede ad altissime
funzioni all’interno del Comintern, Togliatti dà talvolta l’impressione – a
prescindere dal fanatismo e dalla convinzione – di agire sotto la sua
influenza, di essere “tenuto in pugno”».
Di certo il Migliore era talmente scrupoloso quando si
trattava di seguire le direttive di Stalin che non guardava in faccia a
nessuno. Nemmeno alle decine di italiani (108, secondo alcune recenti stime)
che tra il 1935 e il 1938 furono tratti in arresto con le accuse più assurde e
pretestuose (è noto che Stalin era ossessionato dall’incubo del sabotaggio),
per poi essere torturati (era questo il metodo utilizzato per estorcere le
confessioni) e infine giustiziati. In base a quanto emerso dalle ricerche di
Elena Dundovich – che ha ricostruito i processi delle vittime –, Togliatti
diede il proprio assenso all’eliminazione di molti di questi presunti
oppositori. In un recente volume, Giancarlo Lehner e Francesco Bigazzi hanno
riassunto un caso specifico che vale la pena citare a titolo esemplificativo:
«In un documento datato 25 dicembre 1936, catalogato come “segretissimo”, al
terzo paragrafo c’è una lista di tredici comunisti italiani, fra cui Vincenzo
Baccalà, bollati come “elementi negativi”. Accanto ai nomi di Rossetti
(Baccalà) e di Modugno, c’è una nota: “trotzkista, deportare” […]. E in fondo
al testo, la scritta: “Soglasen”
(“Sono d’accordo”), firmato “Ercoli”».
L’intransigenza di Togliatti non fu ad ogni modo
riservata ai soli connazionali. Nel 1938, infatti, il Migliore appose la
propria firma in calce al documento di scioglimento del Partito comunista polacco,
i cui dirigenti, che erano stati etichettati come trotzkisti e buchariniani,
furono immediatamente liquidati. Sul ruolo e sul comportamento del leader
comunista italiano, scrive Francesco Bigazzi: «Palmiro Togliatti rientrò
improvvisamente a Mosca dalla Spagna, dove rappresentava la Terza
Internazionale durante le guerra civile, per ratificare la scomparsa nel nulla
di un intero partito, come se non fosse mai esistito. Solo in questo modo si
spiega come mai il compagno Ercoli, che era il “numero due” del Comintern,
abbia firmato per ultimo».
Di lì a pochi anni furono poi nuovamente gli italiani a
dover sperimentare gli effetti del cinismo togliattiano. Inverno 1942-43:
decine di migliaia di soldati dell’ARMIR cadono prigionieri nelle mani dei
russi e sono trasferiti nelle retrovie in condizioni al limite della
sopravvivenza. Nei campi di detenzione, tuttavia, il loro tasso di mortalità è
così elevato da suscitare le perplessità di Vincenzo Bianco, stretto
collaboratore di Togliatti. Questi, scrivendo al compagno Ercoli, chiede che si
intervenga affinché i prigionieri «non muoiano in massa», ma la risposta che
ottiene è in linea con il fanatismo che Stalin pretende da parte di tutti i
suoi sottoposti: «La nostra posizione di principio rispetto agli eserciti che
hanno invaso l’Unione Sovietica è stata definita da Stalin, e non vi è più
niente da dire. Nella pratica, però, se un buon numero di prigionieri morirà,
in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente
niente da ridire. […] Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la
guerra di Mussolini, e soprattutto la spedizione contro la Russia, si concludano
con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore, il più efficace degli
antidoti». In totale, secondo quanto calcolato da Elena Aga-Rossi e Victor
Zaslavsky, furono circa 85.000 i prigionieri italiani in URSS: nel 1946, quando
l’ambasciata sovietica informò Roma di avere terminato le procedure di
rimpatrio, fecero ritorno in Italia 21.193 persone, delle quali 11.000 erano in
realtà ex prigionieri dei tedeschi catturati dopo l’8 settembre e passati in
seguito sotto il controllo dell’Armata Rossa.
Da questa vicenda emerge dunque un ritratto di Togliatti
in versione Ponzio Pilato: in sostanza, quando si trattava di prendere
posizione per tentare di salvare delle vite – specie se quelle di connazionali
–, il Migliore spesso preferì fare un passo indietro, onde evitare di esporsi
in prima persona. Così fece anche per quanto concerne i massacri anti-italiani
perpetrati da Tito (le foibe, ma anche più “tradizionali” deportazioni), che –
secondo i calcoli di Gianni Oliva – costarono la vita a 10.137 persone. In
quell’occasione, infatti, non solo Togliatti non mosse un dito per protestare
contro la pulizia etnica di matrice slava, ma si preoccupò di scrivere sull’«Unità»
del 1° maggio 1945 che i triestini avrebbero dovuto accogliere i soldati di
Tito «come truppe liberatrici» e collaborare strettamente con essi «per
schiacciare la resistenza tedesca e fascista».
Un’ultima annotazione riguarda infine il ruolo svolto dal
PCI durante il periodo della Resistenza. In poche parole, se la lotta
partigiana non fu solo guerra di liberazione, ma anche – e per certi versi
soprattutto – guerra civile, la responsabilità fu anche dei comunisti,
determinati a sfruttare lo sfacelo politico post-8 settembre per impadronirsi
del potere. Ad accreditare questa tesi fu, tra i primi, Renzo De Felice: «Da
parte comunista [...] non fu mai accettata l’idea che la lotta partigiana
dovesse portare a un ritorno della democrazia “parlamentare borghese” e che la
“svolta di Salerno”, realizzata appena rientrato Togliatti in Italia, potesse non
essere un espediente tattico. Per Secchia, per Longo, per la gran maggioranza
dei dirigenti del nord [...] l’obiettivo finale del Pci era e rimase sino alla
fine [...] la realizzazione di una democrazia “popolare” [...] concepita come momento
tattico e di transizione – come giustamente ha scritto il Bertelli – verso il
“raggiungimento dell’irrinunciabile mito della dittatura del proletariato”».
Aggiunge poi lo stesso De Felice in un altro passo
significativo: «La disponibilità degli archivi russi non lascia ormai più dubbi
sul fatto che la politica del Pci [...] fu concepita e diretta da Mosca in
funzione della realizzazione dei propri obiettivi di espansione diretta e
indiretta e che i dirigenti comunisti italiani aderirono totalmente ad essa. In
particolare, contrariamente a quanto Togliatti subito si preoccupò di
accreditare e la vulgata, politica e storiografica, comunista si è adoperata a
rendere una sorta di dogma [...], la documentazione oggi disponibile rivela che
alla “svolta di Salerno” non può essere attribuito alcun carattere di autonomia
politica rispetto all’Urss».
È proprio questo, del resto, il punto della questione.
Può uno stretto collaboratore di Stalin – cioè, per essere chiari, un uomo che
ha lavorato fianco a fianco con uno dei più grandi criminali che la storia
ricordi – costituire un modello di azione politica nel 2014? L’impressione è
che se l’Italia fosse un paese democraticamente più maturo questo semplice
accostamento sarebbe sufficiente a delegittimare definitivamente una figura così
ingombrante come Togliatti. Forse sarebbe ora che alcune frange della sinistra
la facessero finita una volta per tutte con certe imbarazzanti nostalgie.
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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