venerdì 8 agosto 2014

Diego Armando Maradona: il più grande calciatore di tutti i tempi?

(articolo apparso su Prima Pagina del 3 agosto 2014)

In Italia siamo fatti così: è sufficiente che giornali e televisioni ci indichino la strada da percorrere, e noi – senza porci domande – ci facciamo guidare come un docile cagnolino ammaestrato. Vale per la politica; e, ancor più, per le mode e gli insignificanti fenomeni di costume. Ebbene, scopo delle righe che seguono vuole essere quello di mettere a nudo questa triste peculiarità italica attraverso la parziale demolizione di un mito nazional-popolare: Diego Armando Maradona. Sia chiaro: nessuno intende affermare che il «Pibe de Oro» non sia stato un grandissimo campione. Ma da qui a sostenere che Maradona, senza ombra di dubbio, sia stato il più grande calciatore di tutti i tempi ce ne corre (fermo restando che è tutto da dimostrare che si possa realmente stabilire che un atleta di una determinata epoca sia migliore di chi l'ha preceduto e di chi è venuto dopo). Opinione di chi scrive, in sostanza, è che Maradona sia ridimensionabile. È stato sicuramente un fenomeno, non il fenomeno.
Dunque: per cominciare, è necessario fare un piccolo sforzo. Cancelliamo dalla mente le immagini del Maradona trionfante, i suoi goal memorabili e i roboanti titoli della «Gazzetta dello Sport»; fingiamo di non averlo mai sentito nominare; e immaginiamo che sia un personaggio storico, sfuggito all'oblio solo grazie ad asettici documenti (statistiche, classifiche e, in generale, dati oggettivamente riscontrabili). Mettiamo per un momento da parte, cioè, la retorica per concentrarci sui fatti. Ed esaminiamo con lucidità la carriera calcistica di Maradona.
Il palmarès, non c'è che dire, è di tutto rispetto: con i club, 1 campionato argentino [Boca Juniors], 1 Coppa di Spagna, 1 Coppa della Liga, 1 Supercoppa di Spagna [Barcellona], 2 campionati italiani, 1 Coppa Italia, 1 Supercoppa italiana e 1 Coppa Uefa [Napoli]; con la nazionale argentina, 1 campionato del mondo e 1 Coppa Artemio Franchi.
Indubbiamente, siamo al cospetto di un grande calciatore. Ma, se ci limitiamo ai titoli, c'è chi non è da meno o ha fatto addirittura meglio. Tralasciando le coppe minori e considerando esclusivamente i campionati nazionali e le competizioni internazionali, scopriamo che – cito tre esempi tra i vari disponibili, escludendo volutamente il troppo scontato Pelé – Michel Platini ha vinto 1 campionato francese, 2 campionati italiani, 1 Coppa delle Coppe, 1 Coppa Uefa, 1 Coppa dei Campioni, 1 Coppa Intercontinentale e, con la nazionale francese, 1 campionato europeo; Zinedine Zidane ha conquistato 2 campionati italiani, 1 campionato spagnolo, 2 Coppa Intercontinentale, 2 Supercoppa Uefa, 1 Champions League (la vecchia Coppa dei Campioni) e, con la nazionale francese, 1 europeo ed 1 mondiale; e, infine, Lionel Messi ha vinto 6 campionati spagnoli, 3 Champions League, 2 Coppa del mondo per club (la vecchia Intercontinentale), 2 Supercoppa Uefa e, con la nazionale argentina, 1 oro olimpico.
Già questo semplice elenco pone quindi alcuni interrogativi. Punto primo: possibile che i migliori giocatori siano solo attaccanti? Chi fa goal, si sa, è sempre il più osannato dalla critica. Ma che dire di chi costruisce il gioco? Prendiamo, per esempio, Andrea Pirlo, e constatiamo che ha all'attivo 5 campionati italiani, 2 Champions League, 2 Supercoppa Uefa, 1 Coppa del mondo per club e, con la nazionale italiana, 1 mondiale. Mica male! In pratica, è all'incirca il doppio di quanto conquistato da Maradona...
Altro quesito: com'è possibile che il più grande calciatore di tutti i tempi abbia vinto solo una misera Coppa Uefa a livello di competizioni internazionali per club? Rispondere senza intaccare l'indiscusso primato del Pibe risulta, in effetti, complicato. Perché se si afferma – come immagino starete pensando in questo momento – che a calcio si gioca in undici e che i dieci compagni di Maradona (nel Barcellona e nel Napoli) non erano all'altezza del loro mitico numero dieci, allora bisogna, per forza, ammettere che nemmeno lui era in grado – contrariamente a quanto si legge sulle gazzette – di vincere le partite da solo. A confermare questa deduzione, del resto, sono proprio le statistiche che si riferiscono al cammino del Napoli nella Coppa Uefa vinta (stagione 1988-89): in quella competizione, Maradona segnò la miseria di 3 goal (tutti su calcio di rigore) in 12 partite. Statistiche confermate anche nelle due apparizioni del Napoli in Coppa dei Campioni: un'uscita al primo turno contro il Real Madrid (1987-88) ed una al secondo contro lo Spartak Mosca (1990-91), per un magro totale di 2 goal (più quello, ininfluente, ai calci di rigore contro lo Spartak) in 6 partite.
D'accordo – si dirà: con i club il Pibe non fu un granché in Europa. Ma in Italia e con la nazionale vinse da solo. Sicuri? Vi ricordo che ci siamo dati una regola: niente retorica, solo dati oggettivi.
Partiamo dal Napoli. Maradona vinse due scudetti (gli unici della storia dei partenopei), segnando appena 10 reti (di cui 3 su rigore) nel 1986-87 (stagione – giova ricordarlo – nella quale il Napoli fu eliminato ai trentaduesimi di finale di Coppa Uefa proprio a causa dell'errore decisivo del Pibe dal dischetto), e 16 (di cui 7 su rigore) nel 1989-90. Ora, ammettiamo pure che il suo contributo sia stato decisivo; e che, con ogni probabilità, quel Napoli non avrebbe trionfato senza Maradona. Ma, siamo onesti: con 26 reti in due stagioni non si può affermare che il Pibe abbia potuto fare a meno dell'apporto dei compagni. Anche perché c'è un altro dato interessante da considerare: nel campionato 1986-87 il Napoli vinse solo 15 partite su 30 (50%); tre anni dopo si migliorò (62%, con 21 vittorie su 34 gare, di cui una a tavolino), ma il totale – 36 su 64, pari al 54% – non lascia dubbi su un dato: nei due campionati terminati col successo del Napoli, quasi una volta su due l'uomo che vinceva le partite da solo non è riuscito ad avere la meglio sull'avversario. Che dire? A me sembra, onestamente, un po' pochino vista la sua fama di indiscusso numero uno (cito solo un altro dato: Messi – stando ai giornali, l'erede incompiuto di Maradona – ha finora segnato, complessivamente, 354 reti in 425 incontri con la maglia del Barcellona; diviso per 10 stagioni – Messi è in prima squadra dall'annata 2004-05 –, fanno 35,4 reti di media a stagione!).
Passiamo alla nazionale. E qui – ne sono certo – sarà più dura persuadere i sostenitori del Pibe. Perché lo sanno tutti: a parte Maradona, nell'Argentina degli anni '80-'90 giocavano solo pippe. Ancora sicuri? D'accordo, lo ammetto: ai mondiali del 1986 Maradona dimostrò di essere un campionissimo. Fino agli ottavi di finale, per la verità, non più di tanto: mise infatti a segno una sola rete in quattro gare. Poi però si scatenò: due goal all'Inghilterra nei quarti (di cui uno di mano), ed altri due in semifinale contro il Belgio. Restò a secco, invece, in finale contro la Germania, anche se ebbe il merito di rimediare ad una prestazione opaca servendo l'assist per la rete decisiva di Burruchaga.
Nel 1990, invece, Maradona deluse (classificandosi pur sempre secondo – merito questa volta dei compagni? – alle spalle della Germania): non mise a segno nemmeno un goal su azione, limitandosi a trasformare dal dischetto il rigore che, in semifinale, costò l'eliminazione all'Italia di Vicini dopo i tempi supplementari. Rileggendo alcune cronache, in finale praticamente non vide mai la palla.
Torniamo però brevemente al 1986. Cosa sarebbe successo se Burruchaga – un po' come Higuain nella finale persa dall'Argentina poche settimane fa – avesse ciabattato solo davanti al portiere? Se Maradona – che, come detto, non giocò al meglio la finale – avesse perso quel mondiale, parleremmo lo stesso di lui come di una leggenda vivente, come del migliore di tutti i tempi? La mia risposta – alla luce di quanto esposto finora – non può che essere «sì». Ma come?, direte. E le statistiche, allora, a cosa sono servite? È molto semplice: a dimostrare che Maradona è considerato il migliore non perché sia dimostrabile, oggettivamente, che è stato il più forte sui campi di gioco, bensì per una serie di fattori che con il calcio non hanno nulla a che vedere.
Sono due, a mio avviso, le circostanze favorevoli che trasformarono Maradona in una leggenda. Prima: conquistò due scudetti in una piazza – Napoli – che vive il calcio con una passione sconfinata, ma che prima del suo arrivo non aveva mai vinto il campionato. Una piazza, per di più, dove il tricolore, dopo l'addio del Pibe, non è ancora stato riportato in bacheca: il che, non c'è dubbio, rafforza il mito dell'eroe capace di portare al trionfo, lui solo, la maglia azzurra. Ve lo immaginate, del resto, un Maradona campione d'Italia con la Juventus, il Milan o l'Inter? Sarebbe stato, semplicemente, uno dei tanti, laddove a Napoli è passato alla storia come l'artefice di un'impresa che pare irripetibile, o quasi.
Seconda circostanza: Maradona incarna il prototipo del calciatore ribelle, che fa valere il suo immenso talento su tutto e tutti. Ecco allora che il Pibe non ha bisogno di allenarsi e può tranquillamente condurre una vita sregolata; se segna di mano (come contro l'Inghilterra ai mondiali dell'86), le gazzette non lo accusano di essere scorretto, ma coniano per lui l'altisonante epiteto di «Mano de Dios»; se infine viene squalificato dopo un controllo antidoping poiché abusa di cocaina, la vittima è lui, perseguitato da un sistema che le prova tutte pur di fermarlo. Il vittimismo è insito nella natura del personaggio. Maradona, in Italia, porta al successo un sud da sempre, irrimediabilmente, oppresso, persino vilipeso da un nord tracotante, a tratti tirannico; e, con l'Argentina, riscatta un intero popolo, vendicando l'onta delle Falkland segnando – di mano, come è giusto che sia – contro i perfidi britannici. Il Pibe è un romantico rivoluzionario prestato ai campi di calcio. È il Che Guevara del pallone, che ha un debole per Cuba e per Fidel Castro e odia gli Stati Uniti, con tutto ciò che essi rappresentano. Altro che Messi: uno che si allena sempre scrupolosamente, che conduce una vita da atleta professionista e tende a farsi i fatti suoi non può competere con l'incarnazione del binomio genio e sregolatezza. Perché – chissà quante donne potrebbero confermarlo – non ci si innamora mai dei bravi ragazzi.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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