(articolo apparso su Prima Pagina del 3 agosto 2014)
In Italia siamo fatti così: è
sufficiente che giornali e televisioni ci indichino la strada da percorrere, e
noi – senza porci domande – ci facciamo guidare come un docile cagnolino
ammaestrato. Vale per la politica; e, ancor più, per le mode e gli
insignificanti fenomeni di costume. Ebbene, scopo delle righe che seguono vuole
essere quello di mettere a nudo questa triste peculiarità italica attraverso la
parziale demolizione di un mito nazional-popolare: Diego Armando Maradona. Sia
chiaro: nessuno intende affermare che il «Pibe de Oro» non sia stato un
grandissimo campione. Ma da qui a sostenere che Maradona, senza ombra di
dubbio, sia stato il più grande calciatore di tutti i tempi ce ne corre (fermo
restando che è tutto da dimostrare che si possa realmente stabilire che un
atleta di una determinata epoca sia migliore di chi l'ha preceduto e di chi è
venuto dopo). Opinione di chi scrive, in sostanza, è che Maradona sia
ridimensionabile. È stato sicuramente un fenomeno, non il fenomeno.
Dunque: per cominciare, è necessario
fare un piccolo sforzo. Cancelliamo dalla mente le immagini del Maradona
trionfante, i suoi goal memorabili e i roboanti titoli della «Gazzetta dello
Sport»; fingiamo di non averlo mai sentito nominare; e immaginiamo che sia un
personaggio storico, sfuggito all'oblio solo grazie ad asettici documenti
(statistiche, classifiche e, in generale, dati oggettivamente riscontrabili).
Mettiamo per un momento da parte, cioè, la retorica per concentrarci sui fatti.
Ed esaminiamo con lucidità la carriera calcistica di Maradona.
Il palmarès, non c'è che dire, è di
tutto rispetto: con i club, 1 campionato argentino [Boca Juniors], 1 Coppa di
Spagna, 1 Coppa della Liga, 1 Supercoppa di Spagna [Barcellona], 2 campionati
italiani, 1 Coppa Italia, 1 Supercoppa italiana e 1 Coppa Uefa [Napoli]; con la
nazionale argentina, 1 campionato del mondo e 1 Coppa Artemio Franchi.
Indubbiamente, siamo al cospetto di
un grande calciatore. Ma, se ci limitiamo ai titoli, c'è chi non è da meno o ha
fatto addirittura meglio. Tralasciando le coppe minori e considerando esclusivamente
i campionati nazionali e le competizioni internazionali, scopriamo che – cito
tre esempi tra i vari disponibili, escludendo volutamente il troppo scontato
Pelé – Michel Platini ha vinto 1 campionato francese, 2 campionati italiani, 1
Coppa delle Coppe, 1 Coppa Uefa, 1 Coppa dei Campioni, 1 Coppa
Intercontinentale e, con la nazionale francese, 1 campionato europeo; Zinedine
Zidane ha conquistato 2 campionati italiani, 1 campionato spagnolo, 2 Coppa
Intercontinentale, 2 Supercoppa Uefa, 1 Champions League (la vecchia Coppa dei
Campioni) e, con la nazionale francese, 1 europeo ed 1 mondiale; e, infine, Lionel
Messi ha vinto 6 campionati spagnoli, 3 Champions League, 2 Coppa del mondo per
club (la vecchia Intercontinentale), 2 Supercoppa Uefa e, con la nazionale
argentina, 1 oro olimpico.
Già questo semplice elenco pone
quindi alcuni interrogativi. Punto primo: possibile che i migliori giocatori
siano solo attaccanti? Chi fa goal, si sa, è sempre il più osannato dalla
critica. Ma che dire di chi costruisce il gioco? Prendiamo, per esempio, Andrea
Pirlo, e constatiamo che ha all'attivo 5 campionati italiani, 2 Champions
League, 2 Supercoppa Uefa, 1 Coppa del mondo per club e, con la nazionale
italiana, 1 mondiale. Mica male! In pratica, è all'incirca il doppio di quanto
conquistato da Maradona...
Altro quesito: com'è possibile che il
più grande calciatore di tutti i tempi abbia vinto solo una misera Coppa Uefa a
livello di competizioni internazionali per club? Rispondere senza intaccare
l'indiscusso primato del Pibe risulta, in effetti, complicato. Perché se si
afferma – come immagino starete pensando in questo momento – che a calcio si
gioca in undici e che i dieci compagni di Maradona (nel Barcellona e nel
Napoli) non erano all'altezza del loro mitico numero dieci, allora bisogna, per
forza, ammettere che nemmeno lui era
in grado – contrariamente a quanto si legge sulle gazzette – di vincere le
partite da solo. A confermare questa deduzione, del resto, sono proprio le
statistiche che si riferiscono al cammino del Napoli nella Coppa Uefa vinta
(stagione 1988-89): in quella competizione, Maradona segnò la miseria di 3 goal
(tutti su calcio di rigore) in 12 partite. Statistiche confermate anche nelle
due apparizioni del Napoli in Coppa dei Campioni: un'uscita al primo turno
contro il Real Madrid (1987-88) ed una al secondo contro lo Spartak Mosca
(1990-91), per un magro totale di 2 goal (più quello, ininfluente, ai calci di
rigore contro lo Spartak) in 6 partite.
D'accordo – si dirà: con i club il
Pibe non fu un granché in Europa. Ma in Italia e con la nazionale vinse da
solo. Sicuri? Vi ricordo che ci siamo dati una regola: niente retorica, solo
dati oggettivi.
Partiamo dal Napoli. Maradona vinse
due scudetti (gli unici della storia dei partenopei), segnando appena 10 reti
(di cui 3 su rigore) nel 1986-87 (stagione – giova ricordarlo – nella quale il
Napoli fu eliminato ai trentaduesimi di finale di Coppa Uefa proprio a causa
dell'errore decisivo del Pibe dal dischetto), e 16 (di cui 7 su rigore) nel 1989-90.
Ora, ammettiamo pure che il suo contributo sia stato decisivo; e che, con ogni
probabilità, quel Napoli non avrebbe trionfato senza Maradona. Ma, siamo
onesti: con 26 reti in due stagioni non si può affermare che il Pibe abbia
potuto fare a meno dell'apporto dei compagni. Anche perché c'è un altro dato
interessante da considerare: nel campionato 1986-87 il Napoli vinse solo 15
partite su 30 (50%); tre anni dopo si migliorò (62%, con 21 vittorie su 34 gare,
di cui una a tavolino), ma il totale – 36 su 64, pari al 54% – non lascia dubbi
su un dato: nei due campionati terminati col successo del Napoli, quasi una
volta su due l'uomo che vinceva le partite da solo non è riuscito ad avere la
meglio sull'avversario. Che dire? A me sembra, onestamente, un po' pochino
vista la sua fama di indiscusso numero uno (cito solo un altro dato: Messi –
stando ai giornali, l'erede incompiuto di Maradona – ha finora segnato, complessivamente,
354 reti in 425 incontri con la maglia del Barcellona; diviso per 10 stagioni –
Messi è in prima squadra dall'annata 2004-05 –, fanno 35,4 reti di media a
stagione!).
Passiamo alla nazionale. E qui – ne
sono certo – sarà più dura persuadere i sostenitori del Pibe. Perché lo sanno
tutti: a parte Maradona, nell'Argentina degli anni '80-'90 giocavano solo
pippe. Ancora sicuri? D'accordo, lo ammetto: ai mondiali del 1986 Maradona
dimostrò di essere un campionissimo. Fino agli ottavi di finale, per la verità,
non più di tanto: mise infatti a segno una sola rete in quattro gare. Poi però
si scatenò: due goal all'Inghilterra nei quarti (di cui uno di mano), ed altri
due in semifinale contro il Belgio. Restò a secco, invece, in finale contro la
Germania, anche se ebbe il merito di rimediare ad una prestazione opaca
servendo l'assist per la rete decisiva di Burruchaga.
Nel 1990, invece, Maradona deluse
(classificandosi pur sempre secondo – merito questa volta dei compagni? – alle
spalle della Germania): non mise a segno nemmeno un goal su azione, limitandosi
a trasformare dal dischetto il rigore che, in semifinale, costò l'eliminazione
all'Italia di Vicini dopo i tempi supplementari. Rileggendo alcune cronache, in
finale praticamente non vide mai la palla.
Torniamo però brevemente al 1986.
Cosa sarebbe successo se Burruchaga – un po' come Higuain nella finale persa
dall'Argentina poche settimane fa – avesse ciabattato solo davanti al portiere?
Se Maradona – che, come detto, non giocò al meglio la finale – avesse perso
quel mondiale, parleremmo lo stesso di lui come di una leggenda vivente, come
del migliore di tutti i tempi? La mia risposta – alla luce di quanto esposto
finora – non può che essere «sì». Ma come?, direte. E le statistiche, allora, a
cosa sono servite? È molto semplice: a dimostrare che Maradona è considerato il
migliore non perché sia dimostrabile, oggettivamente, che è stato il più forte
sui campi di gioco, bensì per una serie di fattori che con il calcio non hanno
nulla a che vedere.
Sono due, a mio avviso, le
circostanze favorevoli che trasformarono Maradona in una leggenda. Prima:
conquistò due scudetti in una piazza – Napoli – che vive il calcio con una
passione sconfinata, ma che prima del suo arrivo non aveva mai vinto il
campionato. Una piazza, per di più, dove il tricolore, dopo l'addio del Pibe,
non è ancora stato riportato in bacheca: il che, non c'è dubbio, rafforza il
mito dell'eroe capace di portare al trionfo, lui solo, la maglia azzurra. Ve lo
immaginate, del resto, un Maradona campione d'Italia con la Juventus, il Milan
o l'Inter? Sarebbe stato, semplicemente, uno dei tanti, laddove a Napoli è
passato alla storia come l'artefice di un'impresa che pare irripetibile, o
quasi.
Seconda circostanza: Maradona incarna
il prototipo del calciatore ribelle, che fa valere il suo immenso talento su
tutto e tutti. Ecco allora che il Pibe non ha bisogno di allenarsi e può
tranquillamente condurre una vita sregolata; se segna di mano (come contro
l'Inghilterra ai mondiali dell'86), le gazzette non lo accusano di essere
scorretto, ma coniano per lui l'altisonante epiteto di «Mano de Dios»; se
infine viene squalificato dopo un controllo antidoping poiché abusa di cocaina,
la vittima è lui, perseguitato da un sistema che le prova tutte pur di
fermarlo. Il vittimismo è insito nella natura del personaggio. Maradona, in Italia,
porta al successo un sud da sempre, irrimediabilmente, oppresso, persino
vilipeso da un nord tracotante, a tratti tirannico; e, con l'Argentina,
riscatta un intero popolo, vendicando l'onta delle Falkland segnando – di mano,
come è giusto che sia – contro i perfidi britannici. Il Pibe è un romantico
rivoluzionario prestato ai campi di calcio. È il Che Guevara del pallone, che
ha un debole per Cuba e per Fidel Castro e odia gli Stati Uniti, con tutto ciò
che essi rappresentano. Altro che Messi: uno che si allena sempre
scrupolosamente, che conduce una vita da atleta professionista e tende a farsi
i fatti suoi non può competere con l'incarnazione del binomio genio e
sregolatezza. Perché – chissà quante donne potrebbero confermarlo – non ci si
innamora mai dei bravi ragazzi.
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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