(articolo apparso su Prima Pagina del 17 agosto 2014)
Il termine 'totalitarismo' fu introdotto intorno agli
anni Venti negli ambienti antifascisti per definire polemicamente il regime
instaurato da Mussolini. A dispetto però della sua iniziale accezione
denigratoria, esso non fu respinto dal duce, che anzi lo utilizzò, insieme con
Giovanni Gentile, nella stesura della voce Fascismo
dell'Enciclopedia italiana. Ciò che
Mussolini intendeva comunicare era l'idea della totale identificazione tra
Stato e società: il fascismo non era cioè da intendersi come una tradizionale
forza politica, bensì come una religione laica – fattasi Stato – che doveva
permeare ogni singolo aspetto dell'esistenza (civile, sociale e morale)
dell'individuo, definendone di fatto il significato ed il fine ultimo.
Successivamente, il concetto di totalitarismo venne
impiegato in riferimento a tutti i regimi a partito unico, senza distinzioni
ideologiche. Fu tuttavia il celebre libro di Hannah Arendt – Le origini del totalitarismo (1951) – a
fare ulteriore e definitiva chiarezza sull'utilizzo del termine: dall'uscita di
quel lavoro, ancora oggi siamo soliti definire totalitario un regime mirante alla
“costruzione” dell'uomo nuovo in cui convivano indottrinamento ideologico e
terrore repressivo. Sbaglia pertanto chi non scorge la differenza che sussiste
tra i due aggettivi 'autoritario' e 'totalitario', essendo il primo di uso
comune in riferimento a governi preoccupati del solo annientamento del dissenso
e il secondo attribuibile a quelle forze politiche che non possono fare a meno
della ricerca del consenso delle masse. Ciò che pertanto accomuna fascismo,
nazismo e comunismo (ovvero le tre forme principali di totalitarismo) è la
volontà di mobilitare l'intera società (di nazionalizzare le masse, per dirla
con George L. Mosse). Volontà che consente di valutare il percorso storico di
questi tre movimenti politici privilegiando le analogie rispetto alle
differenze, pur senza pretendere di considerarli come un tutt'uno (come
ignorare, per esempio, che il fascismo fu un totalitarismo imperfetto per via
di due forti contrappesi – monarchia e Chiesa – che ne limitavano l'azione, o
che il nazismo si basava su una premessa razzista assente in Italia e in URSS?).
Analizziamo dunque, in estrema sintesi, alcuni tratti
comuni ai tre grandi totalitarismi del Novecento.
L’ideologia –
Si tratta dell’elemento fondamentale, che si caratterizza come concezione antropologica
in base alla quale al regime uscito vittorioso dalla rivoluzione spetta il
compito di forgiare un uomo nuovo (o “purificato”, nel caso del nazismo, dalla
contaminazione ebraica). In questa prospettiva – come ha rilevato Tzvetan
Todorov – il totalitarismo scaturisce da «una promessa di pienezza, di vita
armoniosa e di felicità», strutturandosi, di fatto, come una sorta di
«millenarismo ateo» che si propone di garantire il raggiungimento
dell’obiettivo della felicità in terra. Perché ciò avvenga è però necessario
che si instauri un rapporto fideistico tra il capo e l’immensa massa liturgica
della nazione, partendo dal presupposto che ogni forma di dissenso non è altro
che un ostacolo – da rimuovere con ogni mezzo – che si frappone tra il popolo e
il suo immancabile destino di grandezza.
Le ideologie sono di varia natura, ma hanno tutte un
sostrato mitologico che attinge spunti dalla storia in modo strumentale (si
pensi al paganesimo germanico, alla Roma imperiale e alla canonizzazione di Lenin
quale apostolo della rivoluzione marxista). Altro elemento decisivo, infine, è
l'odio, sfruttato quale potente fattore di aggregazione (si pensi agli ebrei
per Hitler o ai sabotatori per Stalin; Mussolini in questo fu più vario, ma
ebbe sempre un nemico pronto per la propaganda, come la classe dirigente
liberale, la borghesia, le «democrazie plutocratiche», e via dicendo). Al riguardo,
lo scrittore statunitense Eric Hoffer ha notato che «l'odio è il più
accessibile e completo di tutti gli agenti unificanti: discosta e svelle
l'individuo dal proprio Io, lo distrae dal suo benessere e dal suo futuro, lo
libera da gelosie ed egoismi, ed egli diventa un corpuscolo anonimo che freme
per fondersi e mescolarsi ai suoi simili in una massa incandescente. [...] I movimenti
di massa possono sorgere e propagarsi anche senza un Dio in cui credere, ma mai
senza un diavolo, e alla vividezza e tangibilità di quest'ultimo è in genere
proporzionata la forza del movimento».
L’ambiguo rapporto
con la modernità – Il totalitarismo si propone come garanzia di sicurezza
psicologica dinanzi all’inquietante dilagare di quella modernità che ai primi
del Novecento cominciava a sovvertire usanze e abitudini plurisecolari.
L’industrializzazione aveva però anche un lato suadente ed accattivante, dal
momento che dava l’illusione di poter rendere accessibile a tutti il benessere
materiale. Ecco quindi che si spiegano alcune contraddizioni tipiche dei regimi
totalitari del XX secolo: la modernizzazione (in particolar modo quella
relativa agli armamenti) era ovunque esaltata come sinonimo di potenza della
nazione, ma l’immagine di famiglia che si voleva trasmettere era ancora,
rigorosamente, quella rurale, con la campagna preferita alla città quale luogo
di crescita e sopravvivenza dei valori tradizionali.
Il culto del capo
– In tutti i totalitarismi del XX secolo il capo ricopre un ruolo decisivo,
essendo incarnazione della patria, sua guida ed indiscusso punto di
riferimento. Mussolini, in altre parole, era
l'Italia, così come Hitler era la Germania
e Stalin la Russia. Ne conseguiva che sottrarsi a un ordine del capo
significava, di fatto, rinnegare la patria.
Il capo è pertanto un essere divinizzato, i cui scritti
costituiscono una sorta di vangelo laico della nazione. La propaganda gli attribuisce
un epiteto altisonante per distinguerlo da tutte le altre cariche dello Stato
(Duce, Fuhrer, Padre del popolo russo) e per sottolineare il forte legame con
il popolo, da cui si presume derivi il conferimento del suo ruolo di leader
indiscusso. Al riguardo, l'iconografia del tempo consente di constatare come
tutti i dittatori amassero farsi ritrarre accanto a bambini, o (soprattutto nel
caso di Mussolini) mentre erano intenti a svolgere attività manuali. L'idea di
fondo, in sostanza, era che tra capo e folla non dovesse sussistere alcuna
barriera: il contatto – come doveva risultare evidente durante i discorsi
pubblici, infarciti di domande retoriche che davano al popolo l'impressione di
dialogare direttamente e liberamente con il suo leader – era diretto, non
mediato.
Il partito unico
– Come ha scritto lo storico Giorgio Vecchio, nei totalitarismi «il partito fu
presentato come l'unico autentico interprete della società nuova che la
'rivoluzione' avrebbe costruito. Esso era dunque l'interprete e l'avanguardia
della nazione, dotato per di più di mezzi coercitivi, avendo a disposizione
almeno in certe circostanze delle milizie armate». Suo compito era quello di
alimentare la fede laica nella patria (attraverso collaudate liturgie di massa)
e di politicizzare l'intera società.
L'appartenenza al partito – inizialmente inteso come
comunità di eletti – divenne col tempo un requisito imprescindibile per poter
ricoprire determinati ruoli (pubblici e professionali). La conseguenza fu che,
ovunque, i partiti unici si ingrandirono a dismisura, arrivando a contare
milioni di iscritti. Le inevitabili frizioni che sorsero con le istituzioni
statali furono gestite in modo differente dai tre grandi regimi totalitari del
Novecento: in Italia Mussolini preferì occupare di persona le cariche di capo
del governo e ministro degli Interni, attribuendo al PNF un ruolo per lo più
onorifico; in URSS prevalse invece la soluzione opposta, essendo il potere
stabilmente nelle mani del segretario del PCUS; in Germania, infine, Hitler assunse
le cariche di cancelliere e presidente della repubblica (unificandole in quella
di Fuhrer), sommandole a quella di
leader indiscusso del partito nazista.
A conclusione di questa breve sintesi dei principali
tratti comuni ai tre grandi regimi totalitari del secolo scorso è bene
richiamare la summenzionata riflessione di Todorov. Se è vero, infatti, che il
totalitarismo pretende di appropriarsi della vita delle persone alle quali è
imposto come struttura di potere, come è possibile che esso abbia goduto di
enorme fascino, tanto da risultare estremamente più seducente della democrazia?
Risponde lo storico bulgaro: «Il totalitarismo contiene una promessa di
pienezza, di vita armoniosa e di felicità. È vero che non la mantiene, ma la
promessa perdura, e ci può sempre raccontare che la prossima volta sarà quella
buona e che verremo salvati. La democrazia liberale, invece, non contiene una
promessa simile; si impegna soltanto a permettere a ognuno di cercare per
proprio conto felicità, armonia e pienezza. Assicura, nel migliore dei casi, la
tranquillità dei cittadini, la loro partecipazione alla conduzione degli affari
pubblici, la giustizia nei loro reciproci rapporti e in quelli con lo stato;
non promette la salvazione. L'autonomia, sia individuale che collettiva, pietra
angolare dei regimi democratici, corrisponde al diritto di cercare attraverso
se stessi, non alla certezza di trovare».
Resta dunque spazio per un'ulteriore domanda: meglio la
libertà connessa al rischio – concreto – del fallimento individuale, o
l'appagamento che deriva dal sentirsi parte di qualcosa, costi quello che
costi? Forse il segreto per comprendere il totalitarismo sta tutto in questo
dilemma.
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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