(articolo apparso su Prima Pagina del 10 agosto 2014)
Per la storia dell'umanità, il Novecento ha significato
molto in termini di civiltà e progresso (intendendo con questa parola sostanzialmente
il miglioramento della qualità della vita). Basti pensare alle conquiste
sindacali, all'emancipazione femminile, alla valorizzazione teorica dei diritti
cosiddetti inalienabili e del concetto di pace contrapposta alla guerra, alla
nascita della sensibilità ambientale, allo sviluppo del volontariato e, più in
generale, al tentativo di adeguare la politica – in tutte le sue forme – alle
esigenze della modernità.
A fronte però di questo evidente primato nell'ambito del
riconoscimento dei diritti e delle conquiste sociali, il Novecento si segnala
nella storia per un'altra, drammatica peculiarità: è stato, senza dubbio, il
secolo del sangue e della violenza, molto più di tutte le epoche che l'hanno
preceduto. Scrive al riguardo lo storico Giorgio Vecchio: «Nessuna epoca
dell'umanità è andata esente dall'uso e dall'abuso della forza: guerre,
saccheggi, stupri, rapine, omicidi pubblici e privati segnano il programma
della storia [...]. Riconosciuto questo, tuttavia, non si può fare a meno di
notare che il Novecento ha visto il crescere esponenziale della violenza,
negando alla radice l'idea che la storia possa essere concepita come una linea
di pur lento, ma inarrestabile, progresso».
Se si dovesse scegliere un'immagine simbolo del XX
secolo, la scelta probabilmente cadrebbe su una delle tante fotografie che
ritraggono i volti sofferenti e smagriti di deportati in un campo di
concentramento. Il Lager – per come lo intendiamo noi oggi – è infatti una
delle più atroci "novità" introdotte dal Novecento. A partire dai
campi costruiti dagli inglesi durante la guerra anglo-boera del 1899-1902 (in
totale ben 44, con un pesante bilancio – dovuto alle pessime condizioni di vita
al loro interno – di 28.000 morti, di cui 22.000 sotto i 16 anni), la
deportazione e l'internamento divennero prassi comune a tutti i popoli – in
teoria – più avanzati. Alcuni casi sono celebri: si pensi ai campi destinati ad
accogliere (si fa per dire...) i prigionieri della Grande Guerra, al sistema
GULag sovietico del periodo staliniano e ai Lager nazisti. Altri, invece, sono
senz'altro meno conosciuti: è il caso – giusto per fare qualche esempio – dei
campi aperti dagli italiani nel periodo 1936-1943 per l'internamento di etiopi
e jugoslavi; di quelli statunitensi destinati agli immigrati giapponesi ed italiani
durante la Seconda guerra mondiale; o di quelli francesi allestiti nel corso
della guerra d'Algeria (1954-1962). Impossibile, in questa sede, offrire un
elenco esaustivo. Al di là dei numeri, infatti, è sufficiente notare che il XXI
secolo non si è certo dimenticato di questo barbaro strumento e che la nazione
guida del progredito Occidente (gli USA) non si è fatta troppi scrupoli quando
si è trattato di aprire l'ormai celebre campo di Guantanamo.
Gabriele Ranzato, a proposito della violenza senza pari
che ha insanguinato il Novecento, ha scritto che essa sarebbe ascrivibile alla
diffusione planetaria dei concetti di guerra e nemico totale. A suo parere,
«fondamentale presupposto emotivo e morale della guerra totale è l'esistenza oggettiva
– o anche solo la percezione soggettiva – di un nemico totale, cioè di un
nemico che non si limita a contendere il possesso di un territorio o di una
risorsa importante per il benessere di un paese, ma di un nemico che metta in
giuoco, in imminente pericolo, la civiltà, la libertà, l'esistenza stessa del
paese, dei suoi uomini e delle loro famiglie». In sostanza, è «il senso di
questo pericolo estremo» – reale o supposto che sia – a giustificare il ricorso
a drastici metodi di lotta che vanno ben al di là della tradizionale e
consolidata concezione della guerra. Con la conseguenza che quando il conflitto
diviene totale esso viene condotto senza esclusione di colpi (come accaduto,
per esempio, con la furia nazista o con il ricorso alla bomba atomica, micidiale
arma di distruzione di massa).
A causa della diffusione dell'odio ideologico, il
Novecento non ha avuto rispetto per nessuno. Altro suo triste primato, infatti,
è stato quello dei genocidi. Anche in questo caso, come per i campi di
internamento, alcuni stermini sono ben noti (basti pensare a quello degli
armeni nel 1915-1916 e, soprattutto, alla Shoah), mentre altri sono per lo più
materia di studio per specialisti. Un caso singolare, su cui vale la pena
soffermarsi se non altro perché fu uno dei primi genocidi del secolo, è per
esempio quello che vide coinvolta la popolazione degli herero in Namibia. Tra il
1904 e il 1906 le forze di occupazione coloniale tedesche agli ordini del
generale Lothar von Trotha sterminarono sistematicamente un intero popolo per
reprimere un'insurrezione: il bilancio, secondo alcune stime, fu di oltre
70.000 vittime, con una percentuale di morti – ha rilevato John Daniel – di
circa nove herero su dieci. Più che una guerra, fu un deliberato massacro.
Prosegue infatti lo storico sudafricano: «L'armata tedesca determinò una
percentuale di vittime del 90% grazie a tre metodi principali. Il primo era
sostanzialmente il principio di non fare prigionieri e comportava l'uccisione
di quanti più nemici possibile in combattimenti diretti; il secondo riguardava
l'esecuzione indiscriminata dei prigionieri che in qualche modo fossero
riusciti a evitare l'annientamento negli scontri a fuoco; la terza e ultima
strategia consisteva nel condurre gli uomini herero sopravvissuti, insieme alle
donne e ai bambini, nelle zone aride e desertiche della Namibia, dopo aver però
distrutto o avvelenato le sorgenti d'acqua conosciute».
Ciò che rende tristemente unico il Novecento nella storia
dell'uomo è il ricorso sistematico a pratiche barbariche finalizzate
all'annientamento di un nemico. Un caso limite, in questo senso, è quello degli
stupri di massa, sempre giustificati sulla base dell'odio ideologico. Nel corso
della Prima guerra mondiale toccò inizialmente a francesi e belgi subire
ripetute violenze sessuali per mano dei tedeschi (il che portò alla
formulazione di teorie razziste, giacché in Francia la propaganda pose
l'accento sul rischio di contaminazione del popolo francofono); ma identico
trattamento fu riservato, dopo Caporetto, anche agli italiani, sui quali gli
occupanti austro-tedeschi in più occasioni infierirono colpendo persino bambine
e donne anziane.
Lo stupro divenne in sostanza un'arma di annientamento
psicologico, oltre che uno strumento per indebolire – in chiave razzistica – un
popolo considerato nemico. Ripetuti episodi di violenza sessuale si ebbero, per
esempio, all'interno del cosiddetto sistema GULag, anche se il caso limite è
probabilmente quello legato alla guerra sino-giapponese degli anni Trenta. In
quell'occasione, infatti, le autorità militari del Sol Levante pianificarono
una politica sessuale avente come scopo il rastrellamento di un numero
esorbitante di donne (circa 200.000!) – per lo più cinesi, ma anche provenienti
dagli altri paesi occupati – destinate alla prostituzione coatta. Ma non è
tutto. Quando Nanchino, capitale della Cina nazionalista, nel 1937 cadde in
mano giapponese, per l'inerme popolazione locale si scatenò un autentico
inferno. Questa la ricostruzione di Giorgio Vecchio: «A decine di migliaia i
maschi di Nanchino furono fucilati, o bruciati vivi o usati per le
esercitazioni militari al posto dei manichini; si ebbero vere e proprie gare di
velocità legate al taglio delle teste. Le stime sul numero complessivo delle
vittime cinesi sono molto diversificate, ma alcune portano fino alla cifra di
350.000 persone uccise. Tra le 20.000 e le 80.000 donne furono violentate e in
moltissimi casi lo stupro fu seguito dall'uccisione. Gli stupri ebbero
caratteri particolarmente crudeli, sia perché esercitati anche su bambine e
anziane (spesso con conseguenze mortali), sia per il ricorso a torture,
mutilazioni, esposizioni in strada in pose pornografiche, e così via. Uomini e
donne cinesi, membri d'una stessa famiglia, furono costretti a violentarsi
reciprocamente».
Durante il secondo conflitto mondiale tutti gli eserciti
furono responsabili di stupri. Volendo citare due casi tra i meno conosciuti,
si potrebbero prendere in considerazione la tragedia vissuta dalle donne
tedesche nei territori occupati dall'Armata Rossa in avanzamento verso Berlino
e quella delle donne italiane nella zona di Cassino (le cosiddette
"marocchinate"), le quali subirono ripetute violenze per mano dei goumiers, truppe marocchine
dell'esercito francese impiegate dagli Alleati per lo sfondamento della linea
Gustav.
Quella dello stupro risulta essere in sostanza una
pratica così diffusa da apparire scontata, come se si trattasse di un danno
collaterale pressoché inevitabile in ogni guerra. La fine del secondo conflitto
mondiale non coincise infatti con l'abbandono di questo genere di barbarie. Dai
crimini dei francesi in Algeria alla tragedia delle donne bosniache nel corso
degli anni '90 (passando attraverso le sistematiche violenze perpetrate nei
paesi dell'America Latina soggetti a dittature militari), le vittime di questa
indefinibile brutalità sono talmente numerose che non si contano. Sono loro,
insieme con tutti i milioni di morti provocati dall'odio, i veri protagonisti
del secolo scorso?
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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