sabato 23 agosto 2014

Il Novecento: il secolo di sangue

(articolo apparso su Prima Pagina del 10 agosto 2014)

Per la storia dell'umanità, il Novecento ha significato molto in termini di civiltà e progresso (intendendo con questa parola sostanzialmente il miglioramento della qualità della vita). Basti pensare alle conquiste sindacali, all'emancipazione femminile, alla valorizzazione teorica dei diritti cosiddetti inalienabili e del concetto di pace contrapposta alla guerra, alla nascita della sensibilità ambientale, allo sviluppo del volontariato e, più in generale, al tentativo di adeguare la politica – in tutte le sue forme – alle esigenze della modernità.
A fronte però di questo evidente primato nell'ambito del riconoscimento dei diritti e delle conquiste sociali, il Novecento si segnala nella storia per un'altra, drammatica peculiarità: è stato, senza dubbio, il secolo del sangue e della violenza, molto più di tutte le epoche che l'hanno preceduto. Scrive al riguardo lo storico Giorgio Vecchio: «Nessuna epoca dell'umanità è andata esente dall'uso e dall'abuso della forza: guerre, saccheggi, stupri, rapine, omicidi pubblici e privati segnano il programma della storia [...]. Riconosciuto questo, tuttavia, non si può fare a meno di notare che il Novecento ha visto il crescere esponenziale della violenza, negando alla radice l'idea che la storia possa essere concepita come una linea di pur lento, ma inarrestabile, progresso».
Se si dovesse scegliere un'immagine simbolo del XX secolo, la scelta probabilmente cadrebbe su una delle tante fotografie che ritraggono i volti sofferenti e smagriti di deportati in un campo di concentramento. Il Lager – per come lo intendiamo noi oggi – è infatti una delle più atroci "novità" introdotte dal Novecento. A partire dai campi costruiti dagli inglesi durante la guerra anglo-boera del 1899-1902 (in totale ben 44, con un pesante bilancio – dovuto alle pessime condizioni di vita al loro interno – di 28.000 morti, di cui 22.000 sotto i 16 anni), la deportazione e l'internamento divennero prassi comune a tutti i popoli – in teoria – più avanzati. Alcuni casi sono celebri: si pensi ai campi destinati ad accogliere (si fa per dire...) i prigionieri della Grande Guerra, al sistema GULag sovietico del periodo staliniano e ai Lager nazisti. Altri, invece, sono senz'altro meno conosciuti: è il caso – giusto per fare qualche esempio – dei campi aperti dagli italiani nel periodo 1936-1943 per l'internamento di etiopi e jugoslavi; di quelli statunitensi destinati agli immigrati giapponesi ed italiani durante la Seconda guerra mondiale; o di quelli francesi allestiti nel corso della guerra d'Algeria (1954-1962). Impossibile, in questa sede, offrire un elenco esaustivo. Al di là dei numeri, infatti, è sufficiente notare che il XXI secolo non si è certo dimenticato di questo barbaro strumento e che la nazione guida del progredito Occidente (gli USA) non si è fatta troppi scrupoli quando si è trattato di aprire l'ormai celebre campo di Guantanamo.
Gabriele Ranzato, a proposito della violenza senza pari che ha insanguinato il Novecento, ha scritto che essa sarebbe ascrivibile alla diffusione planetaria dei concetti di guerra e nemico totale. A suo parere, «fondamentale presupposto emotivo e morale della guerra totale è l'esistenza oggettiva – o anche solo la percezione soggettiva – di un nemico totale, cioè di un nemico che non si limita a contendere il possesso di un territorio o di una risorsa importante per il benessere di un paese, ma di un nemico che metta in giuoco, in imminente pericolo, la civiltà, la libertà, l'esistenza stessa del paese, dei suoi uomini e delle loro famiglie». In sostanza, è «il senso di questo pericolo estremo» – reale o supposto che sia – a giustificare il ricorso a drastici metodi di lotta che vanno ben al di là della tradizionale e consolidata concezione della guerra. Con la conseguenza che quando il conflitto diviene totale esso viene condotto senza esclusione di colpi (come accaduto, per esempio, con la furia nazista o con il ricorso alla bomba atomica, micidiale arma di distruzione di massa).
A causa della diffusione dell'odio ideologico, il Novecento non ha avuto rispetto per nessuno. Altro suo triste primato, infatti, è stato quello dei genocidi. Anche in questo caso, come per i campi di internamento, alcuni stermini sono ben noti (basti pensare a quello degli armeni nel 1915-1916 e, soprattutto, alla Shoah), mentre altri sono per lo più materia di studio per specialisti. Un caso singolare, su cui vale la pena soffermarsi se non altro perché fu uno dei primi genocidi del secolo, è per esempio quello che vide coinvolta la popolazione degli herero in Namibia. Tra il 1904 e il 1906 le forze di occupazione coloniale tedesche agli ordini del generale Lothar von Trotha sterminarono sistematicamente un intero popolo per reprimere un'insurrezione: il bilancio, secondo alcune stime, fu di oltre 70.000 vittime, con una percentuale di morti – ha rilevato John Daniel – di circa nove herero su dieci. Più che una guerra, fu un deliberato massacro. Prosegue infatti lo storico sudafricano: «L'armata tedesca determinò una percentuale di vittime del 90% grazie a tre metodi principali. Il primo era sostanzialmente il principio di non fare prigionieri e comportava l'uccisione di quanti più nemici possibile in combattimenti diretti; il secondo riguardava l'esecuzione indiscriminata dei prigionieri che in qualche modo fossero riusciti a evitare l'annientamento negli scontri a fuoco; la terza e ultima strategia consisteva nel condurre gli uomini herero sopravvissuti, insieme alle donne e ai bambini, nelle zone aride e desertiche della Namibia, dopo aver però distrutto o avvelenato le sorgenti d'acqua conosciute».
Ciò che rende tristemente unico il Novecento nella storia dell'uomo è il ricorso sistematico a pratiche barbariche finalizzate all'annientamento di un nemico. Un caso limite, in questo senso, è quello degli stupri di massa, sempre giustificati sulla base dell'odio ideologico. Nel corso della Prima guerra mondiale toccò inizialmente a francesi e belgi subire ripetute violenze sessuali per mano dei tedeschi (il che portò alla formulazione di teorie razziste, giacché in Francia la propaganda pose l'accento sul rischio di contaminazione del popolo francofono); ma identico trattamento fu riservato, dopo Caporetto, anche agli italiani, sui quali gli occupanti austro-tedeschi in più occasioni infierirono colpendo persino bambine e donne anziane.
Lo stupro divenne in sostanza un'arma di annientamento psicologico, oltre che uno strumento per indebolire – in chiave razzistica – un popolo considerato nemico. Ripetuti episodi di violenza sessuale si ebbero, per esempio, all'interno del cosiddetto sistema GULag, anche se il caso limite è probabilmente quello legato alla guerra sino-giapponese degli anni Trenta. In quell'occasione, infatti, le autorità militari del Sol Levante pianificarono una politica sessuale avente come scopo il rastrellamento di un numero esorbitante di donne (circa 200.000!) – per lo più cinesi, ma anche provenienti dagli altri paesi occupati – destinate alla prostituzione coatta. Ma non è tutto. Quando Nanchino, capitale della Cina nazionalista, nel 1937 cadde in mano giapponese, per l'inerme popolazione locale si scatenò un autentico inferno. Questa la ricostruzione di Giorgio Vecchio: «A decine di migliaia i maschi di Nanchino furono fucilati, o bruciati vivi o usati per le esercitazioni militari al posto dei manichini; si ebbero vere e proprie gare di velocità legate al taglio delle teste. Le stime sul numero complessivo delle vittime cinesi sono molto diversificate, ma alcune portano fino alla cifra di 350.000 persone uccise. Tra le 20.000 e le 80.000 donne furono violentate e in moltissimi casi lo stupro fu seguito dall'uccisione. Gli stupri ebbero caratteri particolarmente crudeli, sia perché esercitati anche su bambine e anziane (spesso con conseguenze mortali), sia per il ricorso a torture, mutilazioni, esposizioni in strada in pose pornografiche, e così via. Uomini e donne cinesi, membri d'una stessa famiglia, furono costretti a violentarsi reciprocamente».
Durante il secondo conflitto mondiale tutti gli eserciti furono responsabili di stupri. Volendo citare due casi tra i meno conosciuti, si potrebbero prendere in considerazione la tragedia vissuta dalle donne tedesche nei territori occupati dall'Armata Rossa in avanzamento verso Berlino e quella delle donne italiane nella zona di Cassino (le cosiddette "marocchinate"), le quali subirono ripetute violenze per mano dei goumiers, truppe marocchine dell'esercito francese impiegate dagli Alleati per lo sfondamento della linea Gustav.
Quella dello stupro risulta essere in sostanza una pratica così diffusa da apparire scontata, come se si trattasse di un danno collaterale pressoché inevitabile in ogni guerra. La fine del secondo conflitto mondiale non coincise infatti con l'abbandono di questo genere di barbarie. Dai crimini dei francesi in Algeria alla tragedia delle donne bosniache nel corso degli anni '90 (passando attraverso le sistematiche violenze perpetrate nei paesi dell'America Latina soggetti a dittature militari), le vittime di questa indefinibile brutalità sono talmente numerose che non si contano. Sono loro, insieme con tutti i milioni di morti provocati dall'odio, i veri protagonisti del secolo scorso?

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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