(articolo apparso su Prima Pagina del 12 ottobre 2014)
Si dice il peccato, non il peccatore. Secondo questa
consuetudine, non faremo in questa sede il nome del manuale di storia
contemporanea consultato, tra i vari disponibili, per verificare la presenza di
una clamorosa lacuna: laddove si parla della Seconda guerra mondiale e delle
sue drammatiche conseguenze, alla tragedia delle foibe è dedicata una sola
misera frase. Il manuale in questione è del 2005, ed è tra i più diffusi nelle
università italiane. A proposito di Tito e della guerra di Liberazione condotta
dai suoi partigiani, si può leggere solo quanto segue: «Il contrasto fra
italiani e slavi – esasperato durante il fascismo dalla dura repressione contro
le minoranze etniche condotta dal regime – era riesploso alla fine della
guerra, nelle zone occupate dagli jugoslavi, con una serie di sanguinose
vendette contro gli italiani, culminate nell’esecuzione di alcune migliaia di
persone, gettate nelle foibe
(profonde fosse naturali del Carso)».
Il manuale si ferma qui. Non una parola sull’entità di
quella che oggi viene spesso definita «pulizia etnica»; non una parola,
soprattutto, sulle reali cause che portarono alla morte migliaia di italiani,
peraltro riassunte e banalizzate attraverso la sottolineatura di una mera
contrapposizione – acuita da vent’anni di fascismo – tra italiani e slavi; non
una parola, infine, sulle modalità (atroci) di esecuzione delle vittime. Ma non
è tutto. A fine di ogni capitolo, il manuale suggerisce una bibliografia di
riferimento per approfondire le tematiche affrontate: una bibliografia,
peraltro, in genere piuttosto accurata e ricca di titoli di facile
reperibilità. Ebbene: sulle foibe, sul delicato problema del confine
italo-slavo, sull’esodo di migliaia di italiani dell’Istria e della Dalmazia,
non compare nemmeno un volume.
Certo, un pregio non scontato il manuale comunque ce l’ha:
quantomeno, la tragedia delle foibe è citata, seppur in modo incompleto e
piuttosto reticente. Ma è un inizio, se si considera che sino a non molti anni
fa i libri di scuola non contenevano neppure la parola «foiba». Un esempio, in
questo senso, potrebbe essere il comportamento tenuto nel 1999 (quindi oltre 50
anni dopo i fatti in questione) dal sindaco pidiessino di Pisa, il quale
rifiutò di intitolare una via della sua città ai martiri delle foibe poiché
queste – così disse – erano nient’altro che una «credenza».
Ma passiamo oltre. Cosa sono, di preciso, le foibe, sia
dal punto di vista geologico, sia da quello storico? Tra le tante disponibili,
una delle definizioni più esaustive ed efficaci è quella di Gianni Oliva
(contenuta nel volume Foibe. Le stragi
negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria, Mondadori 2002):
«Dal punto di vista geologico, esse sono un aspetto tipico del paesaggio
carsico e indicano le fenditure, profonde anche molte decine di metri, che si
aprono sul fondo di una dolina o di una depressione del terreno e che l’erosione
millenaria delle acque ha scavato nella spugna della roccia in forme
gigantesche e tortuose. Qui, alla fine della Seconda guerra mondiale, sono
stati gettati i cadaveri di migliaia di cittadini italiani eliminati per motivi
politici dall’esercito di liberazione jugoslavo del maresciallo Tito».
Le ondate repressive che ebbero come epilogo gli
infoibamenti di italiani furono sostanzialmente due, e vanno ristrette a due
fasi temporali ben precise: le settimane successive all’8 settembre 1943 (quando,
in seguito allo sbandamento dell’esercito italiano, le forze titine penetrarono
oltre confine) e quelle che seguirono alla fine della guerra, in coincidenza
con l’occupazione di Trieste e di parte della Venezia Giulia da parte dei
partigiani slavi.
Epicentro della prima ondata fu l’Istria. In seguito all’avanzamento
delle formazioni di Tito, il potere venne assunto (fatti salvi i centri
strategici di Trieste, Pola e Fiume, prontamente occupati dai tedeschi) dal
movimento di Liberazione jugoslavo, che procedette immediatamente ad arrestare
decine di italiani (ufficialmente compromessi con il fascismo). «Ben presto
però – scrive Raoul Pupo –, il campo delle violenze si allargò fino a
coinvolgere le figure più rappresentative delle comunità italiane [...],
vittime di una fiammata di furore nazionalista che però non era fine a se stessa,
ma funzionale a un disegno politico di distruzione della classe dirigente
italiana, che era vista come un ostacolo all’affermazione del nuovo corso
politico».
Cosa accadde di preciso a quelle persone fu evidente nel
momento in cui i tedeschi rioccuparono con una controffensiva i territori
caduti in mano slava. Il velo dell’omertà che aveva tenuto nascosta la sorte di
circa un migliaio di potenziali vittime, scomparse nel nulla, venne pian piano
dissolto da alcune testimonianze che consentirono di individuare le foibe come
luogo di sepoltura di decine di cadaveri. Nel dicembre del 1943 cominciarono le
prime operazioni di recupero delle salme, le quali portarono ad un’agghiacciante
scoperta: spesso i corpi delle vittime si presentavano legati tra loro e con i
polsi serrati dal filo di ferro: per ogni gruppo di infoibati, era frequente
che solo il primo cadavere presentasse ferite da arma da fuoco, segno evidente che
i partigiani slavi non di rado sparavano solo al primo condannato, in modo che
questo con il proprio peso trascinasse nel baratro decine di persone ancora
vive, con una sorta di effetto-domino.
La seconda ondata repressiva ebbe inizio nel maggio del
1945, allorché le formazioni di Tito estesero il loro controllo su gran parte
della Venezia Giulia. L’obiettivo del maresciallo era chiaro: precedere le
forze alleate nell’occupazione di quei territori che costituivano oggetto di
rivendicazione, al fine di garantirsene l’annessione in sede di trattative di
pace. Trieste e il Goriziano, in altre parole, dovevano cadere in mano slava
prima dell’arrivo degli anglo-americani e, soprattutto, dovevano essere resi
inoffensivi nei confronti di Belgrado: urgeva pertanto il pugno di ferro contro
qualsiasi manifestazione di ostilità all’annessione alla Jugoslavia. Ripresero
così gli infoibamenti, che colpirono anche sloveni e croati contrari al nuovo
regime, ma soprattutto gli italiani, in gran parte ritenuti sospetti (in quanto
quasi tutti, ovviamente, contrari all’annessione) per una mera questione di
appartenenza etnica. Scrive al riguardo Maurizio Tortorella: «Quella nuova
guerra così brutale e nascosta, in quanto esplosa a conflitto mondiale ormai
terminato, in gran parte della regione durò almeno fino all’11 maggio 1945,
quando gli Alleati angloamericani decisero di non tollerare oltre le prepotenze
territoriali e i continui sconfinamenti del regime jugoslavo e stabilirono un
argine più solido alle sue pretese, inviando nuove truppe – formate soprattutto
da soldati neozelandesi – a prendere in pugno la situazione. Nella Venezia
Giulia si stabilirono allora i primi, incerti, confini tra Est e Ovest. Nella
zona finita sotto il controllo degli eserciti occidentali ricominciarono immediatamente
le tristi operazioni di recupero dei cadaveri, e le foibe ne restituirono in
silenzio prima a decine, quindi a centinaia, infine a migliaia».
Ma quante furono, in totale, le vittime italiane delle
foibe? Rispondere senza approssimazione risulta complicato, se non impossibile,
a causa delle enormi difficoltà incontrate nel recupero e nell’identificazione dei
corpi. Secondo Raoul Pupo e Gianni Oliva la cifra più verosimile si aggira intorno
alle 4-5000 unità, cui però andrebbero aggiunti i deportati e le persone
scomparse. Con tutta evidenza, si tratta di numeri consistenti, che mal si
conciliano con il silenzio che ha avvolto l’intera tragedia delle foibe fino a
non molti anni fa. Silenzio che – come spiega Oliva – se ha più di una
motivazione razionale (la volontà del governo italiano di non contrariare Tito
dopo la sua rottura con Stalin, nella speranza di attrarre la Jugoslavia nell’orbita
occidentale; il desiderio di lasciarsi alle spalle un triste passato e di non
soffermarsi su una pagina di storia – quella relativa al confine orientale –
che era una prova concreta di come l’Italia avesse perso la guerra; l’imbarazzo
del PCI per l’ambiguità di Togliatti, il quale, messo alle strette da Tito, si
era detto favorevole all’occupazione slava della Venezia Giulia ma non all’annessione,
per la quale, a suo parere, si sarebbe dovuta esprimere la conferenza di pace),
non per questo risulta giustificabile o tollerabile.
Oggi, a distanza di settant’anni da un dramma collettivo
cui è stata a lungo (e, per certi versi, è tuttora) negata una memoria
condivisa, forse un modo valido per onorare il ricordo di migliaia di morti
dimenticati è quello di rileggere le testimonianze dei pochi fortunati che, per
miracolo, riuscirono a sopravvivere all’inferno delle foibe. Concludiamo
pertanto con il racconto di uno di loro, Graziano Udovisi, insegnante istriano:
«Eccoci a Fianona, notte alta. Questa volta ci hanno rinchiusi in una ex
caserma. Venti persone in una stanza tre per quattro. Poi ci fanno uscire e
comincia la marcia verso la foiba. Il destino era segnato e avevo un modo solo
per sfuggirgli: gettarmi nella voragine prima di essere colpito da un
proiettile. Una voce urla in slavo: “Morte al fascismo, libertà ai popoli”, uno
slogan che ripetono a ogni piè sospinto. Io mi tuffo dentro la foiba e
precipito sopra un alberello sporgente. Non vedevo nulla, i cadaveri mi
cascavano addosso. Poi, quando tutti i rumori cessarono, cominciai a risalire,
raggiunsi la superficie. Evidentemente, non era ancora arrivata la mia ora».
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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