giovedì 16 ottobre 2014

Foibe: il dramma (poco conosciuto) di migliaia di italiani vittime dei partigiani di Tito

(articolo apparso su Prima Pagina del 12 ottobre 2014)

Si dice il peccato, non il peccatore. Secondo questa consuetudine, non faremo in questa sede il nome del manuale di storia contemporanea consultato, tra i vari disponibili, per verificare la presenza di una clamorosa lacuna: laddove si parla della Seconda guerra mondiale e delle sue drammatiche conseguenze, alla tragedia delle foibe è dedicata una sola misera frase. Il manuale in questione è del 2005, ed è tra i più diffusi nelle università italiane. A proposito di Tito e della guerra di Liberazione condotta dai suoi partigiani, si può leggere solo quanto segue: «Il contrasto fra italiani e slavi – esasperato durante il fascismo dalla dura repressione contro le minoranze etniche condotta dal regime – era riesploso alla fine della guerra, nelle zone occupate dagli jugoslavi, con una serie di sanguinose vendette contro gli italiani, culminate nell’esecuzione di alcune migliaia di persone, gettate nelle foibe (profonde fosse naturali del Carso)».
Il manuale si ferma qui. Non una parola sull’entità di quella che oggi viene spesso definita «pulizia etnica»; non una parola, soprattutto, sulle reali cause che portarono alla morte migliaia di italiani, peraltro riassunte e banalizzate attraverso la sottolineatura di una mera contrapposizione – acuita da vent’anni di fascismo – tra italiani e slavi; non una parola, infine, sulle modalità (atroci) di esecuzione delle vittime. Ma non è tutto. A fine di ogni capitolo, il manuale suggerisce una bibliografia di riferimento per approfondire le tematiche affrontate: una bibliografia, peraltro, in genere piuttosto accurata e ricca di titoli di facile reperibilità. Ebbene: sulle foibe, sul delicato problema del confine italo-slavo, sull’esodo di migliaia di italiani dell’Istria e della Dalmazia, non compare nemmeno un volume.
Certo, un pregio non scontato il manuale comunque ce l’ha: quantomeno, la tragedia delle foibe è citata, seppur in modo incompleto e piuttosto reticente. Ma è un inizio, se si considera che sino a non molti anni fa i libri di scuola non contenevano neppure la parola «foiba». Un esempio, in questo senso, potrebbe essere il comportamento tenuto nel 1999 (quindi oltre 50 anni dopo i fatti in questione) dal sindaco pidiessino di Pisa, il quale rifiutò di intitolare una via della sua città ai martiri delle foibe poiché queste – così disse – erano nient’altro che una «credenza».
Ma passiamo oltre. Cosa sono, di preciso, le foibe, sia dal punto di vista geologico, sia da quello storico? Tra le tante disponibili, una delle definizioni più esaustive ed efficaci è quella di Gianni Oliva (contenuta nel volume Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria, Mondadori 2002): «Dal punto di vista geologico, esse sono un aspetto tipico del paesaggio carsico e indicano le fenditure, profonde anche molte decine di metri, che si aprono sul fondo di una dolina o di una depressione del terreno e che l’erosione millenaria delle acque ha scavato nella spugna della roccia in forme gigantesche e tortuose. Qui, alla fine della Seconda guerra mondiale, sono stati gettati i cadaveri di migliaia di cittadini italiani eliminati per motivi politici dall’esercito di liberazione jugoslavo del maresciallo Tito».
Le ondate repressive che ebbero come epilogo gli infoibamenti di italiani furono sostanzialmente due, e vanno ristrette a due fasi temporali ben precise: le settimane successive all’8 settembre 1943 (quando, in seguito allo sbandamento dell’esercito italiano, le forze titine penetrarono oltre confine) e quelle che seguirono alla fine della guerra, in coincidenza con l’occupazione di Trieste e di parte della Venezia Giulia da parte dei partigiani slavi.
Epicentro della prima ondata fu l’Istria. In seguito all’avanzamento delle formazioni di Tito, il potere venne assunto (fatti salvi i centri strategici di Trieste, Pola e Fiume, prontamente occupati dai tedeschi) dal movimento di Liberazione jugoslavo, che procedette immediatamente ad arrestare decine di italiani (ufficialmente compromessi con il fascismo). «Ben presto però – scrive Raoul Pupo –, il campo delle violenze si allargò fino a coinvolgere le figure più rappresentative delle comunità italiane [...], vittime di una fiammata di furore nazionalista che però non era fine a se stessa, ma funzionale a un disegno politico di distruzione della classe dirigente italiana, che era vista come un ostacolo all’affermazione del nuovo corso politico».
Cosa accadde di preciso a quelle persone fu evidente nel momento in cui i tedeschi rioccuparono con una controffensiva i territori caduti in mano slava. Il velo dell’omertà che aveva tenuto nascosta la sorte di circa un migliaio di potenziali vittime, scomparse nel nulla, venne pian piano dissolto da alcune testimonianze che consentirono di individuare le foibe come luogo di sepoltura di decine di cadaveri. Nel dicembre del 1943 cominciarono le prime operazioni di recupero delle salme, le quali portarono ad un’agghiacciante scoperta: spesso i corpi delle vittime si presentavano legati tra loro e con i polsi serrati dal filo di ferro: per ogni gruppo di infoibati, era frequente che solo il primo cadavere presentasse ferite da arma da fuoco, segno evidente che i partigiani slavi non di rado sparavano solo al primo condannato, in modo che questo con il proprio peso trascinasse nel baratro decine di persone ancora vive, con una sorta di effetto-domino.
La seconda ondata repressiva ebbe inizio nel maggio del 1945, allorché le formazioni di Tito estesero il loro controllo su gran parte della Venezia Giulia. L’obiettivo del maresciallo era chiaro: precedere le forze alleate nell’occupazione di quei territori che costituivano oggetto di rivendicazione, al fine di garantirsene l’annessione in sede di trattative di pace. Trieste e il Goriziano, in altre parole, dovevano cadere in mano slava prima dell’arrivo degli anglo-americani e, soprattutto, dovevano essere resi inoffensivi nei confronti di Belgrado: urgeva pertanto il pugno di ferro contro qualsiasi manifestazione di ostilità all’annessione alla Jugoslavia. Ripresero così gli infoibamenti, che colpirono anche sloveni e croati contrari al nuovo regime, ma soprattutto gli italiani, in gran parte ritenuti sospetti (in quanto quasi tutti, ovviamente, contrari all’annessione) per una mera questione di appartenenza etnica. Scrive al riguardo Maurizio Tortorella: «Quella nuova guerra così brutale e nascosta, in quanto esplosa a conflitto mondiale ormai terminato, in gran parte della regione durò almeno fino all’11 maggio 1945, quando gli Alleati angloamericani decisero di non tollerare oltre le prepotenze territoriali e i continui sconfinamenti del regime jugoslavo e stabilirono un argine più solido alle sue pretese, inviando nuove truppe – formate soprattutto da soldati neozelandesi – a prendere in pugno la situazione. Nella Venezia Giulia si stabilirono allora i primi, incerti, confini tra Est e Ovest. Nella zona finita sotto il controllo degli eserciti occidentali ricominciarono immediatamente le tristi operazioni di recupero dei cadaveri, e le foibe ne restituirono in silenzio prima a decine, quindi a centinaia, infine a migliaia».
Ma quante furono, in totale, le vittime italiane delle foibe? Rispondere senza approssimazione risulta complicato, se non impossibile, a causa delle enormi difficoltà incontrate nel recupero e nell’identificazione dei corpi. Secondo Raoul Pupo e Gianni Oliva la cifra più verosimile si aggira intorno alle 4-5000 unità, cui però andrebbero aggiunti i deportati e le persone scomparse. Con tutta evidenza, si tratta di numeri consistenti, che mal si conciliano con il silenzio che ha avvolto l’intera tragedia delle foibe fino a non molti anni fa. Silenzio che – come spiega Oliva – se ha più di una motivazione razionale (la volontà del governo italiano di non contrariare Tito dopo la sua rottura con Stalin, nella speranza di attrarre la Jugoslavia nell’orbita occidentale; il desiderio di lasciarsi alle spalle un triste passato e di non soffermarsi su una pagina di storia – quella relativa al confine orientale – che era una prova concreta di come l’Italia avesse perso la guerra; l’imbarazzo del PCI per l’ambiguità di Togliatti, il quale, messo alle strette da Tito, si era detto favorevole all’occupazione slava della Venezia Giulia ma non all’annessione, per la quale, a suo parere, si sarebbe dovuta esprimere la conferenza di pace), non per questo risulta giustificabile o tollerabile.
Oggi, a distanza di settant’anni da un dramma collettivo cui è stata a lungo (e, per certi versi, è tuttora) negata una memoria condivisa, forse un modo valido per onorare il ricordo di migliaia di morti dimenticati è quello di rileggere le testimonianze dei pochi fortunati che, per miracolo, riuscirono a sopravvivere all’inferno delle foibe. Concludiamo pertanto con il racconto di uno di loro, Graziano Udovisi, insegnante istriano: «Eccoci a Fianona, notte alta. Questa volta ci hanno rinchiusi in una ex caserma. Venti persone in una stanza tre per quattro. Poi ci fanno uscire e comincia la marcia verso la foiba. Il destino era segnato e avevo un modo solo per sfuggirgli: gettarmi nella voragine prima di essere colpito da un proiettile. Una voce urla in slavo: “Morte al fascismo, libertà ai popoli”, uno slogan che ripetono a ogni piè sospinto. Io mi tuffo dentro la foiba e precipito sopra un alberello sporgente. Non vedevo nulla, i cadaveri mi cascavano addosso. Poi, quando tutti i rumori cessarono, cominciai a risalire, raggiunsi la superficie. Evidentemente, non era ancora arrivata la mia ora».

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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