(articolo apparso su Prima Pagina del 4 gennaio 2015)
Quella per l’unità d’Italia fu una guerra civile?
Tecnicamente, esiste una sola risposta possibile: no. La cosiddetta seconda
guerra d’indipendenza fu combattuta dal Piemonte di Vittorio Emanuele II,
alleato della Francia di Napoleone III, contro l’Austria, potenza egemone nella
penisola; l’obiettivo iniziale era l’espansione a est dello Stato sabaudo, non
certo l’unificazione di una nazione italiana che come tale non era mai esistita
(e forse, guardando il presente, non esiste neppure oggi…). Poi però le guerre
sono imprevedibili: Cavour non pensava di arrivare a Firenze – figurarsi a
Napoli, o a Palermo! –, ma alla notizia che era scoppiata una guerra contro gli
Asburgo le popolazioni di Toscana ed Emilia furono animate da improvviso
fermento, di fatto “consigliando” ai sovrani figli della Restaurazione di
abbandonare le rispettive capitali (Leopoldo II di Toscana lasciò Firenze il 27
aprile, seguito – dopo la sconfitta austriaca a Magenta – da Luisa Maria di
Parma il 9 giugno e da Francesco V d’Austria-Este l’11 giugno). Ed è qui che la
guerra si complica. Con i duchi prudentemente partiti per l’esilio, l’esercito
franco-piemontese trionfante e la benevola neutralità dell’Inghilterra, ogni
famiglia deve scegliere da che parte stare. Certo, molti si mostrano cauti, cercando
di non sbilanciarsi troppo in attesa che si ritorni alla normalità; ma c’è
anche chi sente il dovere di prendere una decisione: o col Savoia, o con i
vecchi sovrani (il che significa, in concreto, con l’Austria). E allora si deve
tornare alla domanda da cui siamo partiti: se accadde che in una stessa
famiglia vi furono partigiani dell’uno e dell’altro schieramento, è lecito
affermare che alla base del Risorgimento vi fu uno scontro fratricida, una
guerra civile?
Nei fatti, il percorso accidentato che portò
all’unificazione della penisola fu caratterizzato anche da un aspro conflitto tra italiani, che vide il suo acme in
quella che le generazioni postrisorgimentali avrebbero ribattezzato – con
evidente faziosità – lotta al brigantaggio. Occorre però essere cauti
nell’emettere sentenze: perché il confine tra brigante e patriota (o, in
maniera analoga – volendo evocare ricordi più recenti –, tra bandito e
partigiano) è labile, e basta davvero poco per passare da una categoria a
quella opposta. A ben vedere, è tutta una questione di prospettive: un soldato
della Brigata Estense che resta fedele al suo sovrano in esilio è al contempo
un patriota modenese e un italiano ribelle nei confronti del Regno sabaudo. Così
come Mazzini è un terrorista fino al 1861 (era considerato a tutti gli effetti
il Bin Laden dell’epoca), e un padre della patria dopo.
Non è facile dunque giudicare, anche perché il rischio di
cadere nell’anacronismo è alto. La storia, certo, ha emesso il suo verdetto, e
oggi – che ci piaccia o no – a Modena siamo italiani e non più sudditi del
duca. Ma un conto è leggere gli avvenimenti sui libri, altra cosa è viverli,
col rischio di prendere posizione dalla parte sbagliata (o giusta ma perdente,
secondo i punti di vista), fermo restando che si può essere sconfitti e avere
allo stesso tempo un forte senso dell’onore. Ecco allora che forse l’atteggiamento
più corretto è quello della comprensione, che prevede che si riconoscano ai
vinti i giusti meriti, oltre che una certa dignità. Comprensione che naturalmente
non annulla – sia chiaro – il dovere storico di dare un peso alle scelte dei
diversi protagonisti (giacché non avrebbe senso ignorare il corso degli eventi
e mettere tutti sullo stesso piano), ma che va intesa come sforzo di mantenere
un certo salutare distacco rispetto al passato.
La premessa è d’obbligo allorché si voglia prendere in esame
un libro come Il quinto Francesco di
Roberto Vaccari (Edizioni Artestampa 2014), incentrato sul dramma di una guerra
che divide due fratelli (uno filo-duchista, l’altro mazziniano) e costringe
all’esilio – che risulterà definitivo – il sovrano estense, tutto sommato un
buon governante, moderato e non privo di un certo acume politico. Quello di
Vaccari è un romanzo storico che segue due filoni paralleli: Francesco V
d’Austria-Este da una parte – con il suo addio a Modena, il sofferto esilio e
l’epopea dei soldati della Brigata Estense rimasti coraggiosamente fedeli al
loro sovrano decaduto – e la famiglia Melotti dall’altra – un padre ricco
commerciante, pragmaticamente propenso a difendere l’ordine costituito, e due
figli (Erio e Paolo), rispettivamente ufficiale dell’esercito del duca e
volontario sotto le bandiere dei Savoia.
Il lettore è pertanto trasportato all’interno di una
tragedia collettiva, che coinvolge gli uomini di potere come le persone di
umili origini. Molto ben riuscita è senz’altro la descrizione dello stato
d’animo di Melotti, incredulo e soprattutto spaesato di fronte a una guerra
piombatagli addosso come un fulmine a ciel sereno, ma allo stesso
tempo consapevole che non sempre è possibile sottrarsi alla responsabilità di
difendere con coerenza le proprie idee. I suoi due figli, del resto, non
sentono ragioni: è l’onore – dicono – che impone loro il sacrificio degli
interessi personali. Patrioti e briganti a seconda dei punti di vista, per
Melotti Erio e Paolo hanno entrambi valide ragioni: «Non ti dirò di tornare
vincitore – raccomanda al secondogenito mazziniano prima della sua partenza per
il Piemonte – perché tradirei tuo fratello. Ma chiunque vincerà la sfida,
voglio che vi rispettiate. Lui sta facendo il suo dovere forse più di te.
Promettimi che lo riabbraccerai non appena il mondo tornerà a girare nel verso
giusto». E ancora, riflettendo sulla causa che sta a cuore a Paolo: «Italia,
che strano suono pronunciato in casa sua, una parola leggera e insana, un
concetto che brucia nei cuori degli idealisti e dei fannulloni. Una terribile
speranza che ha già condotto a morte molti uomini. Eppure oggi Melotti sente
che quanto va farneticando il figlio può non essere del tutto sbagliato».
I fratelli Melotti si comportano con onore e senso del
dovere, anche se la guerra finisce inesorabilmente per dividerli. Erio, in
particolare, dà prova di grande coraggio accettando di seguire il suo duca in
esilio: per lui conta il giuramento, anche a costo di farsi trascinare nel
baratro della sconfitta. La sua diviene la storia degli oltre tremila volontari
che andarono a comporre la Brigata Estense, come vennero chiamate le truppe che
– unicamente per devozione – abbandonarono Modena l’11 giugno 1859 determinate
a condividere fino all’ultimo il destino del loro sovrano. A nulla valsero le
lusinghe (come gli avanzamenti di carriera prospettati dal dittatore Farini a
quanti avessero disertato per confluire nell’esercito sabaudo) e le
intimidazioni dei piemontesi: solo pochi uomini cedettero e accettarono di
rientrare in patria, ma, nel complesso, il numero degli effettivi della Brigata
aumentò per il costante afflusso di giovani volontari. Identico esito ebbe il
decreto di amnistia emanato da Vittorio Emanuele II il 21 settembre 1862, che
minacciava la confisca dei beni e la perdita dei diritti civili a quanti non
avessero fatto ritorno nel territorio del Regno d’Italia entro sei mesi: in
tutto abbandonarono Francesco V solo 12 ufficiali e circa 160 soldati,
nonostante il duca, per risparmiare inutili sacrifici ai suoi uomini, avesse
autorizzato il congedo.
Lo scioglimento della Brigata avvenne solo su sentenza
dell’Imperatore, datata 14 agosto 1863, quando ormai era chiaro che, con il
consolidamento dell’unità d’Italia, Francesco V non sarebbe mai rientrato in
possesso del suo Stato. A Cartigliano Veneto, il 24 settembre, tutti i soldati
furono decorati con una medaglia recante su un lato la scritta Fidelitati et constantiae in adversis. Alcuni
di loro – è il caso di Erio – scelsero di prendere servizio nell’esercito
imperiale austriaco.
Per il più anziano dei fratelli Melotti la possibilità di
rientrare a Modena – retrocessa da capitale di un Stato a secondaria città di
provincia – non è dunque contemplata. Neppure Paolo – giunto appositamente a
Cartigliano per indurlo a ragionare – riesce a smuoverlo dalle sue ostinate convinzioni:
Erio ha scelto la sua strada, e – schiavo com’è del senso dell’onore – congeda
bruscamente il fratello. «L’asserzione di Erio è pacata – chiarisce la voce
narrante –, forte e malinconica allo stesso tempo. Le parole irrevocabili hanno
il segno inequivocabile dell’errore, perché di colpo sembrano confermare quanto
Paolo ha supposto: la causa per cui Erio porta la divisa è morta, ed è solo per
il grande orgoglio che uomini come lui si isolano. Quando alla ragione si
sostituisce l’orgoglio, e questo sopraffà la volontà, non esiste aggio per
riprendere il controllo: tutto è deciso dallo spirito caustico della vanità. La
vanità impedisce di vedere la giustezza delle proporzioni. Si dovrebbe avere il
coraggio di ammetterlo e chinare la testa, invece di lasciarsi andare alla
frustrazione, un dolce veleno che scalda le membra e il cuore fino a ubriacare».
Nel romanzo, Erio e Paolo non si vedranno più dopo
l’incontro di Cartigliano. Stessa sorte il destino riservò a Francesco V nei
confronti di Modena: sorto ufficialmente il Regno d’Italia sulle ceneri degli
Stati preunitari, il duca estense dovette rassegnarsi a considerare per sempre
perduta la sua vecchia capitale. In esilio, a Vienna, morì il 20 novembre 1875.
È sepolto nella Cripta Imperiale della Chiesa dei Cappuccini, mausoleo degli Asburgo,
nonché abituale luogo di pellegrinaggio di qualche modenese incuriosito o
nostalgico.
Appuntamento ogni fine settimana su Prima Pagina con la rubrica Cose d'altri tempi
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