(articolo apparso su Prima Pagina del 22 marzo 2015)
Ogni volta che esce un volume sulla guerra civile del
1943-45 o su un suo specifico episodio, la pubblica opinione è pressoché
costretta a drizzare le antenne: sarà un libro revisionista o appartenente alla
vulgata resistenziale? Sembra questa, infatti, la sola domanda che interessa in
questi casi. E si tratta di una domanda che sottintende una profonda spaccatura
tra la cosiddetta storia ufficiale (dove “ufficiale” sta – secondo i detrattori
– per menzognera o reticente) e la storia sempre “contro” di chi – per lo più
giornalisti e appassionati – ha la pretesa di sfatare un tabù dopo l’altro.
Posta in questi termini la questione, diviene arduo
giudicare un libro per il suo intrinseco valore. Più infatti l’argomento è
delicato, più è facile che entrino in gioco considerazioni legate alle appartenenze
politiche, con l’ovvia conseguenza che – nel nostro caso –
una persona “di destra” privilegerà gli scritti di un Pansa o di un Pisanò,
mentre una “di sinistra” concederà la propria preferenza ai professori
universitari. È evidente: stando così le cose, il pregiudizio avrà sempre la
meglio sulla riflessione.
La sola strada percorribile è dunque
quella di ignorare il nome dell’autore, la sua biografia e i suoi trascorsi
politici, e di concentrarsi su un’unica, fondamentale domanda: le sue tesi sono
sufficientemente documentate? Perché delle due l’una: o i fatti sono
accertabili (attraverso fonti affidabili), oppure sono rielaborati con una
certa dose (poco importa quanto grande) di fantasia, e in questo caso sono
contestabili. Tertium non datur,
dicevano i latini.
Fatta questa premessa, prendiamo
finalmente in esame il volume di Elena Bianchini Braglia, intitolato Calvario rosso. Marianna Azzolini. Storia di
una violenza partigiana (Edizioni ’900Storia 2015). E nel farlo,
anticipiamone la tesi centrale: Pietro e Marianna (fratelli, entrambi fascisti)
furono il primo assassinato, la seconda seviziata, stuprata, infine a lungo
incarcerata, senza un valido motivo, per mero odio politico e di classe, per mano di un gruppo
di partigiani comunisti. Essi non meritarono la violenza che subirono per il
semplice fatto che erano persone per bene, lui medico sempre sollecito nel
prestare la propria competenza al servizio di chiunque avesse bisogno del suo
intervento, lei professoressa e donna pia, innocua, di certo non una spia, come
risulta dalle incongruenze emerse in sede processuale. Entrambi finirono in
quell’immenso tritacarne che fu la guerra civile, travolti dai sospetti, dal
desiderio di vendetta e dalla rabbia di chi si credeva in diritto di
giustificare ogni abominio contro la dignità umana in nome della rivoluzione e
di una libertà a senso unico.
Pietro fu ingannato con la solita messinscena:
«C’è un ferito grave da curare», gli dissero. Ma era solo una scusa per
prelevarlo nella notte e farlo fuori, così su due piedi, senza processo. Marianna
divenne invece un elemento sospetto per il semplice fatto di avere perso un
fratello in quel modo: normale che cercasse vendetta, che facesse la spia. E
per questo, con un banale pretesto, con prove evidentemente false, fu arrestata.
Ma c’è dell’altro: per i partigiani la giovane professoressa è un nemico di
classe, è una fascista, e per di più non collabora! Nega di essere una spia,
non fa nomi, non ha paura di tenere testa agli uomini che la interrogano. Una
notte, mentre è tenuta in custodia in una stanza di un casolare, i suoi carcerieri
decidono di approfittarsi della sua debolezza: Marianna è sola, e non può
opporsi alla violenza di chi, violando il suo corpo, intende umiliare il nemico
al punto da disumanizzarlo. Tanto la scusa è pronta: dopo tutto il male di cui
il regime si è reso responsabile, uno stupro passa in secondo piano. Quando è
in gioco l’avvenire di un popolo non c’è spazio per i sentimentalismi e la
pietà. Certi eccessi vanno messi in conto.
La logica della guerra civile è
proprio questa: non esistono più le persone, ma solo i gruppi di appartenenza.
Un fascista è un fascista, prima che un uomo. E un partigiano è un ribelle, un
sovversivo. Ancora oggi c’è chi fatica a mostrare pietà per gli uomini, a
prescindere dalle divise indossate in quei tumultuosi mesi di sangue. Gli
storici sono divisi, e molti ancora discutono dell’opportunità di sviscerare
certe vicende scomode. Chiunque faccia luce sulle zone d’ombra della Resistenza
(anche se non ne mette per nulla in discussione l’assoluto valore morale) è
accusato di revisionismo, di ignorare le responsabilità del fascismo, o peggio di
essere un servo della destra attuale.
Prendiamo il caso di Pansa. Nel suo
libro La grande bugia egli precisa
che «la Resistenza è, da sempre, la mia patria morale»; tuttavia i suoi libri
sono puntualmente infangati, giacché – molti sembrano esserne convinti – osano
mettere in discussione il valore della lotta partigiana. Ma quale sarebbe il
vero peccato di Pansa? Dice inesattezze? Racconta storie inventate? Se così
fosse, sarebbe davvero il caso di scandalizzarsi. Tuttavia Pansa è attaccato
per altri motivi. Si legga quanto scrisse Sergio Luzzatto, stimato docente
universitario torinese, a proposito de Il
sangue dei vinti (il noto bestseller che affronta lo spinoso tema delle
vendette del dopo 25 aprile): «Il libro ripete cose che si sanno. Che
sono state dette e ridette, scritte e riscritte, interpretate e reinterpretate –
con ben maggiore sottigliezza rispetto a quella di Pansa – da tutti i migliori
studiosi della guerra civile e dell’immediato dopoguerra».
Chi avesse voglia di fare qualche
click sul web potrebbe reperire senza difficoltà diversi commenti come questo.
Commenti che sembrano tutti avere un singolare elemento in comune: non
censurano le singole affermazioni di Pansa – che evidentemente non sono
facilmente confutabili, anche perché sono «cose che si sanno» –, ma fanno una
sorta di processo alle intenzioni del giornalista piemontese. In altre parole,
nessuno parla di contenuti, nessuno si assume la responsabilità di dire:
«Questo non è vero». Ciò che conta è stabilire perché Pansa ha scritto quello
che ha scritto, chi ha voluto ingraziarsi, quale subdolo fine intendeva
perseguire.
Eppure, tornando in tema, le stragi
del dopoguerra non le ha certo raccontate per primo Il sangue dei vinti. Si legga, per esempio, questo breve passo
tratto da Storia del Novecento italiano
(libro uscito nel 2000, tre anni prima, quindi, dell’uscita del libro che fece
scoppiare il caso-Pansa) di Simona Colarizi (docente di Storia contemporanea
alla Sapienza di Roma): «[Nel Nord Italia] le condanne sono state già
pronunciate fuori dalle aule dei tribunali e le esecuzioni si fanno per le
strade, nei viottoli delle campagne, sotto i cavalcavia e nei fossati in piena
notte, con un colpo alla nuca. Per tre mesi nelle province rosse, in
particolare l’Emilia Romagna, i partigiani si scatenano. Alla fine del giugno
1945 i dati raccolti dal Comando generale dei carabinieri sono impressionanti:
sono 270 le persone giustiziate a Bologna, 117 a Ferrara, 120 a Ravenna, 110 a
Reggio Emilia, per dare solo le cifre più significative. E non viene neppure
risparmiato chi è in carcere in attesa di processo: a Cesena, a Ferrara, a
Carpi si dà l’assalto alle prigioni per impadronirsi degli imputati che sono
passati per le armi davanti alla folla. È una pagina di vergogna […]».
Par di capire, in sostanza, che il
punto non sia l’attendibilità di Pansa, bensì il suo enorme successo. I suoi
non sono saggi per specialisti, ma libri alla portata di tutti. E nelle
librerie si vendono a decine di migliaia. È questo – se siamo onesti – che dà
più fastidio: il fatto che un volume non agiografico (ma – si badi – nemmeno
denigratorio) sulla Resistenza interessi a così tanti lettori. Poco importa,
infatti, che Pansa si sia a lungo occupato, in gioventù, della lotta partigiana:
raccontare le magagne del PCI, ancora oggi, espone al rischio di vedersi
piombare addosso una valanga di polemiche e di insulti. Chi nega che le cose
stiano così o è miope, o è in malafede.
Queste considerazioni vanno fatte
allorché si decide di pubblicare un volume come quello di Elena Bianchini
Braglia. Perché Calvario rosso può
essere documentato fin che vuole, ma il fatto che nelle sue pagine alcuni
partigiani garibaldini vestano i panni degli aguzzini certamente irriterà più
di un lettore. La Braglia infatti non ha difficoltà ad annoverare Pietro e
Marianna Azzolini tra le vittime della guerra civile. Il che non significa
ch’ella intenda riabilitare il fascismo. Le responsabilità del regime e di un
Mussolini che per mera ambizione finì soffocato tra le spire di Hitler, nessuno
si sogna di metterle in discussione. La guerra civile fu la tragica conseguenza
delle decisioni scellerate del duce, nonché l’epilogo di una dittatura
ventennale. La storia ha già emesso la sua sentenza: e il fascismo ne è uscito
sconfitto. Detto questo, però, non si può far finta che la Resistenza fosse un
movimento coeso in difesa della libertà e della democrazia. Al suo interno, le
preponderanti forze comuniste avevano in programma la rivoluzione e
l’instaurazione della cosiddetta dittatura del proletariato. Per i garibaldini,
la Liberazione era solo il primo passo; il che ci aiuta a comprendere il perché
di tanta violenza gratuita, di tanto odio di classe, da parte di chi – in
teoria – avrebbe dovuto recitare la parte del “buono”.
Il punto è che si potrebbero
benissimo conciliare i libri di Pansa e della Braglia con una visione matura,
scevra di preconcetti politici, del nostro più recente passato. Cosa cambia, in
fondo, se anche i partigiani hanno ammazzato? Perché negare l’evidenza e
arroccarsi in difesa di un mito comunque destinato a sgretolarsi (ma esistono
poi miti inscalfibili?), quando si potrebbe tranquillamente difendere il valore
morale complessivo della Resistenza e, allo stesso tempo, riconoscere che al
suo interno non era tutto rose e viole? Forse vale la pena rileggere quanto
scrisse Italo Calvino, rivolgendosi – nella Presentazione dell’edizione del
1964 de Il sentiero dei nidi di ragno
– ai detrattori della Resistenza: «D’accordo, farò come se aveste ragione voi,
non rappresenterò i migliori partigiani, ma i peggiori possibili, metterò al
centro del mio romanzo un reparto tutto composto di tipi un po’ storti. Ebbene:
cosa cambia? Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha
agito un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi
centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche
attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere».
Ecco, questo ha fatto, in definitiva,
Elena Bianchini Braglia: ha raccontato la storia di una famiglia vittima di un
gruppo di partigiani «un po’ storti». Non resta che augurarle buona fortuna per
gli strali di cui presto diverrà bersaglio.
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica Cose d'altri tempi
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