lunedì 30 settembre 2013

Il vittimismo di massa nella (fiacca) «Repubblica del dolore»

(articolo apparso su Prima Pagina del 29 settembre 2013)
 
Negli ultimi vent'anni, grosso modo a partire dal crollo della Prima Repubblica, si è fatto un gran parlare di memoria collettiva, di gendarmi della memoria, di revisionismo e di uso politico della storia. Spesso però questi concetti sono evocati con troppa superficialità, conseguenza essenzialmente dell'incapacità (o mancata volontà) di rispondere adeguatamente alla domanda: «Cosa s'intende per memoria collettiva?».
La risposta, in realtà, è piuttosto ovvia. Con memoria collettiva deve intendersi un patto attraverso il quale i contraenti (ovvero i cittadini, ma, nel concreto, le istituzioni) si accordano su cosa preservare e cosa dimenticare (ovviamente non in sede storiografica, ma nell'ambito della religione civile) degli eventi di un passato comune. Ogniqualvolta si compia una scelta su come strutturare i programmi scolastici, sull'impostazione dei manuali, sul calendario delle festività civili, sui monumenti o sui criteri di allestimento di un museo, di fatto si rinnova il patto, si stabilisce cosa è bene e cosa è male. È sulla base degli eventi degni di essere ricordati, afferma il professor Giovanni De Luna, che «si costruisce l'albero genealogico di una nazione».
Come stabilire, tuttavia, cosa ricordare? Il passato è in costante movimento: dal momento che i contraenti del patto della memoria cambiano in continuazione, è mutevole la percezione di esso nel presente. In Italia i partiti che suggellarono l'accordo fondativo della Prima Repubblica sono stati spazzati via dal terremoto degli anni 1992-1994; e ad essi sono subentrate formazioni politiche che, con la storia, hanno un rapporto contraddittorio o del tutto inesistente. Forza Italia liquidò il problema delle proprie radici storiche rivendicando una generica appartenenza alla tradizione liberale, richiamandosi con grande disinvoltura a Sturzo, Amendola, Turati, Matteotti, Salvemini, Einaudi e De Gasperi, tutti egualmente paladini della libertà; Pds e Alleanza nazionale, che dovevano fare i conti con un passato troppo ingombrante, preferirono "smaltire" il peso della propria eredità; la Lega, infine, fu costretta ad inventarsi una tradizione necessariamente in conflitto con quella dello Stato-nazione. Di fatto, sul piano istituzionale solo la presidenza della Repubblica è rimasta stabile contraente del patto della memoria, secondo un processo, iniziato con Pertini, che ha portato al tentativo di sostituire, nel ruolo simbolico di custode dei valori dell'unità nazionale, il Parlamento con il Quirinale.
La Prima Repubblica ha fondato il proprio patto memoriale sui due capisaldi del Risorgimento e della Resistenza, concependo sostanzialmente il secondo come il completamento del primo. Con la scomparsa dei partiti "tradizionali" si è resa tuttavia necessaria una sorta di rifondazione complessiva, dal momento che le nuove formazioni politiche – di fatto astoriche, come si è detto – si sono trovate nelle condizioni di dover a tutti i costi rinnovare l'apparato simbolico della religione civile di una patria in crisi di identità. E il risultato di questa operazione, giudicato dopo vent'anni di Seconda Repubblica, è fallimentare, come risulta in maniera evidente dalla constatazione che «il sentirsi italiani, il riconoscersi in un valore che non sia l'essere tutti figli dello stesso benessere e che si fondi su un comune nucleo civico, è oggi un sentimento che non suscita passione».
Ciò che infatti caratterizza il nuovo patto della memoria è la dimensione del dolore che scaturisce dalla memoria delle vittime, con la conseguente privatizzazione del ricordo. È la costruzione di «una memoria avvinta dall'emozione e assorbita dalla sofferenza» che consente di «tenere insieme la Resistenza e i "ragazzi di Salò", le foibe e i lager, il terrorismo delle Br e la mafia». Da quando lo spazio pubblico è stato «colonizzato dal lutto» si è assistito quindi al consolidamento di un «paradigma» che ha posto in ombra la storia (con tutta la sua complessità) per consentire la celebrazione, in senso assoluto, dello status di vittima (della mafia, del terrorismo, della Shoah, delle foibe, del dovere, delle catastrofi naturali, e via dicendo).
Per dimostrare come l'Italia contemporanea si sia trasformata in una «Repubblica del dolore», De Luna elenca le leggi approvate negli ultimi dieci anni in tema di memoria collettiva. Queste le più significative: «La legge 20 luglio 2000 che dichiara il 27 gennaio "giorno della memoria" legandolo alla Shoah e alla deportazione "dei militari e politici italiani" nei campi nazisti; la legge 30 marzo 2004 che indica il 10 febbraio "giorno del ricordo" in memoria delle vittime delle foibe; la legge 15 aprile 2005 che istituisce il "giorno della libertà" in data 9 novembre, in ricordo dell'abbattimento del muro di Berlino; la legge 4 maggio 2007 che dichiara il 9 maggio "giorno della memoria" dedicato alle vittime del terrorismo; la legge 12 novembre 2009 che introduce quella data come "giornata del ricordo dei Caduti militari e civili nelle missioni internazionali per la pace"».
Questi provvedimenti (cui vanno aggiunti molti altri progetti di legge, alcuni dei quali – come quello per l'istituzione di una giornata del ricordo delle «vittime dell'odio politico» – francamente bizzarri) sono il risultato del maldestro tentativo di uno Stato «sempre meno "potente"» di costruire una rinnovata memoria ufficiale. Nell'universo, potenzialmente infinito, del paradigma vittimario la storia cede il passo alla rivendicazione, che nasce da istanze di parte e, sfruttando la debolezza delle istituzioni, riesce ad imporsi conquistando la certificazione, in realtà solo apparente, di memoria condivisa. I simboli eroici di una patria che oggi puzza di vecchio sono pur sempre simboli positivi, attivi, che richiamano gesta compiute, non violenze subite. La vittima è invece un simbolo passivo attraverso il quale il dolore diviene un efficace strumento con cui si nega, e non si afferma, un valore (e, progressivamente, tutti i valori). Se gli italiani, cioè, si riconoscono solo nelle vittime – e accade quindi, inevitabilmente, che ciascun italiano si riconosca "di più" in una categoria di vittime piuttosto che in un'altra –, viene meno il senso di appartenenza a una causa condivisa avvertita come giusta. E l'orgoglio di essere italiani annega in un mare di rivendicazioni che stravolgono continuamente quel giudizio sul passato comune che ogni cittadino, vista l'assenza dello Stato, ha oramai definitivamente avocato a sé.
Il «trionfo delle vittime» – inizialmente giustificato, scrive De Luna, dall'esigenza di "umanizzare" la ricostruzione delle sofferenze della Shoah (emblema dei mali del secolo) – ha a lungo andare prodotto a sua volta una vittima, ovvero la storia, ridotta ad «arma da usare per legittimare una parte politica contro l'altra». Arma che è efficace a patto che «rifiut[i] la complessità» e lasci da parte la riflessione critica per diventare strumento.
Nella «Repubblica del dolore» è inevitabile che si ingeneri una competizione tra vittime (le vittime, ad esempio, del dovere – ovvero i membri della forza pubblica e armata caduti nell'adempimento del proprio dovere – si fronteggiano naturalmente con le vittime delle forze dell'ordine), col risultato che i legami sociali, anziché rafforzarsi, si indeboliscono. Emozioni private quali il rancore o il desiderio di vendetta hanno conquistato lo spazio pubblico, spinte da una cultura (editoria, musei, televisione, rete) che sempre più considera il denaro generatore unico di tutti i valori. I media, in altre parole, hanno trasformato le emozioni in merci sottoposte alle regole della domanda e dell'offerta: sul piccolo schermo i sentimenti sono messi in mostra per essere venduti, poiché la logica del mercato prevede che uno spazio pubblicitario sia acquistato in cambio della garanzia dell'audience. Uno Stato debole, pertanto, ha rinunciato al proprio ruolo di costruttore di memoria, schiacciato sotto il peso di un vittimismo di massa che è il prodotto di una società che ha smesso di pensare. Gli stessi partiti mostrano di avere introiettato il paradigma vittimario, con una Sinistra vittima dell'oppressione economica capitalistica, una Destra vittima dell'egemonia culturale postcomunista e una Lega vittima dei complotti di "Roma ladrona".
La televisione, incontrastata produttrice di cultura, ha portato alla spettacolarizzazione della ricostruzione storica, a detrimento delle regole scientifiche che vincolano, invece, la scrittura di un saggio. Di fatto, oggi si è imposto il modello della fiction – libera commistione di trame melodrammatiche ed effetti speciali –, che, a colpi di esasperato revisionismo e immagini sensazionali, sacrifica qualunque intento pedagogico sull'altare dell'Auditel. La memoria individuale, che un tempo poteva essere valorizzata per aiutare a comprendere il passato, dando un senso al ricordo delle vittime, non accompagna più la riflessione critica, ma si è sostituita ad essa. La storia ha ceduto il passo alle tecniche di fascinazione di uno spettatore – quasi mai anche lettore – che si lascia sedurre dall'ostentazione del dolore. La cultura, nell'era nichilistica di internet e delle televisioni commerciali, corre seriamente il rischio di essere sopraffatta dallo show.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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