lunedì 16 settembre 2013

«Patirò volentieri con Cristo»: il processo inquisitoriale di Baldassarre Fini

(articolo apparso su Prima Pagina del 25 agosto 2013)

L’edizione del 2001 della rivista Rassegna frignanese, curata dall’Accademia dello Scoltenna, contiene un interessante intervento del professor Armeno Fontana avente per oggetto il processo inquisitoriale che, tra 1598 e 1601, vide imputato tal Baldassarre Fini di Groppo, «persona facoltosa, professore, avvocato». L’Inquisizione romana, ovvero la cosiddetta Congregazione del Sant’Uffizio istituita da Paolo III nel 1542 nel quadro generale della Controriforma, costituiva un potente strumento che, al fine di reprimere l’eresia, esercitava di fatto un ferreo controllo della vita e della cultura del tempo. In un contesto sociale fortemente condizionato dalla religione, essere torchiati dall’Inquisitore non era certo un’esperienza che lasciasse indifferenti. Anche per questo, quindi, seguire da vicino una vicenda specifica come quella di Baldassarre Fini consente – più di quanto non sia possibile fare attraverso una asettica e generale descrizione del periodo – di aprire una finestra sul passato.
Tutto ebbe inizio il 21 aprile 1598, quando il Rettore della Chiesa di S. Pietro di Groppo, don Gio. Battista Fini, si recò dall’Inquisitore di Modena per denunciare il suo parrocchiano Baldassarre Fini, il cui comportamento destava scandalo tra i fedeli del piccolo paese. Questi infatti, secondo diverse testimonianze, aveva parecchie cose da farsi perdonare: ospitava una concubina, dalla quale aveva avuto due figli; prestava denaro a interessi elevati, da usuraio, con la scusa di essere a sua volta in debito con un imprecisato ebreo; nutriva scarso rispetto per i ministri di Dio e si prodigava addirittura per dissuadere i parrocchiani dall’elargire elemosine.
Di fronte a una siffatta congerie di accuse, all’Inquisitore non restò che avviare una minuziosa indagine. Vennero così raccolte e trascritte numerose testimonianze, a partire ovviamente da quella del primo accusatore, il Rettore di Groppo. Tutti gli interrogati insistettero in particolare su un aspetto: Baldassarre usava la sua autorità di uomo di lettere per approfittarsi delle persone di umile condizione, le quali, pur vittime di strozzinaggio, non osavano reagire temendo ripercussioni. Ma, più in generale, «l’Inquisitore, il suo Vicario o un suo delegato – scrive Fontana – non si lasciano sfuggire nulla: la stessa persona viene più volte interrogata, in tempi diversi, e le domande sono sempre quelle e il notaio verbalizzante le riporta scrupolosamente con le risposte date: usura, concubinato, inosservanza del divieto di mangiare carne e latticini nei giorni e nei tempi prescritti dalla Chiesa, comportamento riprovevole in chiesa, disprezzo per i preti e i religiosi».
Il 16 ottobre 1598 fu la volta di Baldassarre. L’imputato dichiarò di essersi trasferito a Sestola tre anni prima e di avere lasciato a Groppo la moglie Lorenza: motivo dell’abbandono del tetto coniugale era stata la volontà di difendersi dalle persone che continuamente minacciavano la sua “roba”. Parlò poi del rapporto con Jacoma (la concubina, originaria di Riolunato), ribadendo quanto già in passato era stato costretto a spiegare al vescovo: e cioè «che havendo la moglie sterile et [essendo] desideroso di prole acciocché hereditasse le non poche facultade et anco acciò che nella mia vecchiezza havessi chi mi sollevasse, m’indussi a congiungermi con detta donna». Ricevuto però l’ordine del vescovo di separarsi da lei, Baldassarre affermò di non averla più «toccata carnalmente né in altro modo».
Quanto alle altre accuse, il Fini respinse tutti gli addebiti. Si dichiarò buon cristiano, rispettoso dei precetti; negò di essere in possesso di libri proibiti e precisò di non aver esitato a bruciare gli Adagia di Erasmo da Rotterdam dopo che il vescovo di Reggio aveva rifiutato di concedergli il permesso di leggerli.
Acquisita la testimonianza dell’imputato, l’Inquisitore volle ascoltare altri pareri. Ovviamente, man mano che si procedeva con l’indagine, i verbali si arricchirono di nomi e versioni. Un punto su cui molti degli interrogati insistettero fu il consumo di carne e latticini nei giorni proibiti: «O Signore Iddio – si legge in una deposizione –, noi che siamo poveretti e non habbiamo per il nostro vivere se non castagnacci e acqua, facciamo la quadragesima e quelli di ms. B. F. che hanno di tutti li beni e modo di farla non la fanno».
Una certa impressione dovette destare nell’Inquisitore la testimonianza di tal Segnarino, un pover’uomo di Groppo, cui Baldassarre, a proposito del denaro destinato all’elemosina, avrebbe rivolto questo accalorato consiglio: «O coglione, faresti meglio darlo a mangiare ai tuoi figlioli!».
Altra grave accusa, infine, fu quella relativa al possesso di un “breve”, ovvero un talismano dotato di presunti poteri magici.
Un simile impianto accusatorio convinse l’Inquisitore della necessità di inviare il suo vicario a Groppo e Riolunato per proseguire più da vicino le indagini. Furono così acquisite nuove deposizioni, tutte sfavorevoli al Fini. Raccolti pareri e testimonianze in numero sufficiente, il 26 aprile 1599 il vicario fece ritorno a Modena: aveva trascorso in Appennino quasi due mesi.
A questo punto la macchina del Sant’Uffizio parve fermarsi, finché il 9 marzo 1601 Baldassarre Fini non fu nuovamente convocato a Modena per fornire la sua versione al cospetto dell’Inquisitore generale. A partire da quel giorno fino alla sua tragica fine, l’imputato frignanese sarebbe rimasto prigioniero o sotto stretta sorveglianza, sostenendo diversi interrogatori (talvolta di più giorni ciascuno). Durante quello del 9 marzo egli ribadì quanto detto tre anni prima, soffermandosi in particolare sulle minacce ricevute da molti suoi debitori intenzionati a non pagare.
Il secondo interrogatorio (che ebbe inizio il 21 marzo) affrontò le questioni inerenti il mancato rispetto dei precetti e la relazione con la concubina. Ancora una volta, Fini respinse ogni accusa: ma era chiaro, come rileva Fontana, che il processo stava trasformandosi in «un confronto serrato tra l’Inquisitore che vuole credere ai testimoni e l’inquisito che si difende sostenendo la tesi della congiura contro di lui di chi gli vuol male». In altre parole, il gran numero di testimonianze a suo sfavore rendeva giorno dopo giorno più precaria la posizione di Baldassarre.
Concluso l’interrogatorio, l’imputato fu lasciato libero di tornare a casa. In Appennino giunse però anche il vicario dell’Inquisitore, incaricato di acquisire nuove deposizioni. Una di queste, in particolare, aggravò la posizione del Fini. Proveniva dalla bocca di don Giacomo Stefani, Rettore di Roccapelago: «Quel che è peggio, alcune mie pecore che sono sotto il mio governo, temo che non si vadino appestando di questa sua maledetta peste, imparando questo suo modo di far usura. Onde in coscientia dico che sarebbe opera di carità grande che il M. R. Inquisitore lo facesse stare perpetuamente in carcere, acciò non ammorbasse gl’altri».
Parole analoghe furono pronunciate dal Parroco di Riolunato, che evocò anche presunte protezioni di cui si sospettava che il Fini godesse presso la corte ducale (egli aveva infatti svolto alcune mansioni all’estero su incarico di Alfonso II). La politica fu poi tirata in ballo anche dal Rettore di Groppo, che riportò alcune frasi ingiuriose pronunciate dall’inquisito contro la Chiesa in merito alla questione della Devoluzione di Ferrara del 1598 («Non vi havevano raggione alcuna – avrebbe detto il Fini a proposito dei preti e della Santa Sede –, ma se havessero havuto a fare con me, li havrei ben fatto stare io»).
Tutte queste testimonianze rendevano di fatto a dir poco precaria la posizione di Baldassarre, che non poté giovarsi nemmeno del parere favorevole della moglie, la quale dichiarò di non nutrire dubbi sulle qualità di buon cristiano del marito. Ma le dichiarazioni contrarie all’imputato erano troppo numerose per essere ignorate dall’Inquisitore. Tanto più che andavano persino diffondendosi voci di contatti del Fini col diavolo.
Riprese così il processo. Gli interrogatori si fecero sempre più pressanti, ma Baldassarre non pareva disposto a cedere e negava ostinatamente ogni accusa. Il 29 maggio, evidentemente stremato, ebbe uno scatto d’orgoglio: «Potete pormi in prigione e in ceppi e in catene che io non dirò mai altramente e patirò volentieri la morte per sostenere questa verità, e patirò volentieri con Cristo». Ma qualunque cosa dicesse, l’Inquisitore aveva buon gioco a ripetergli le testimonianze che lo condannavano.
Le ultime contraddizioni sorsero in merito alle questioni dogmatiche legate all’Eucarestia. Al riguardo, l’ultima dichiarazione del Fini, il 7 giugno 1601, fu la seguente: «Io credo che Iddio sii in quello Sacramento […] e in tutte le ostie consacrate […] et di più io intendo che spezzata l’hostia consacrata in mille parti […] vi sia intieramente in ogni parte il corpo di Cristo, rimettendomi alla decisione della Chiesa, che il suo intendere voglio che sia il mio». Ma la pressione, unita alla volontà di non farsi estorcere alcuna confessione, dovette risultare insostenibile. Tre giorni dopo, prima che fosse emessa la sentenza del Tribunale dell’Inquisizione, Baldassarre Fini si tolse la vita.

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