(articolo apparso su Prima Pagina del 1° settembre 2013)
Introduzione di Luigi Malavasi Pignatti Morano
Sui banchi di scuola a tutti gli studenti italiani viene
insegnato che la seconda guerra d'indipendenza fu una sorta di cavalcata
trionfale, rallentata solo provvisoriamente dal tradimento francese di
Villafranca. Tutto filò liscio insomma, con i vecchi sovrani costretti ad
abbandonare i rispettivi troni, messi in fuga da un'ondata inarrestabile di
insurrezioni filosabaude. Dulcis in fundo,
la grande partecipazione popolare con la quale venne suggellato il nuovo regime
attraverso i cosiddetti plebisciti, eredità del periodo napoleonico.
Ovviamente – lo capirebbe anche un bambino – una
ricostruzione di questo tipo è fuorviante e parecchio reticente. Prendiamo il
caso del Ducato di Modena. Possibile che esso si sia sciolto come neve al sole,
senza un accenno di resistenza, dopo secoli di governo
estense? Realmente possiamo ancora credere che l'opinione pubblica fosse
compattamente disposta ad
accogliere come liberatori i franco-piemontesi? In gioco, si badi, non
c'è l'eredità storica del Risorgimento, che oggi, trascorsi oltre 150 anni, non
ha molto senso mettere in discussione. Un'Italia divisa in Stati regionali non
è riproponibile nel 2013. Ciò che però bisogna a tutti i costi recuperare è la
serietà, l'onestà di riconoscere che non si può piegare la ricostruzione
storica alle esigenze dell'ideologia. Raccontare il Risorgimento come un'epopea
senza ombre è, oltre che sbagliato, profondamente controproducente, poiché la
menzogna da sempre alimenta la volontà di rivalsa degli sconfitti. Se non si ha
paura di rivendicare l'eredità del Risorgimento, non si tema neanche né di
ammettere gli errori commessi dalla classe dirigente del Regno di Sardegna, né
di riconoscere (e di raccontare) il valore mostrato dai suoi avversari.Al riguardo, una vicenda singolare fu senza dubbio quella che ebbe per protagonista la cosiddetta Brigata Estense, come vennero chiamate le truppe che seguirono volontariamente il duca Francesco V sulla via dell'esilio nel Lombardo-Veneto austriaco. In tutto circa 3600 soldati che, unicamente per sincera devozione, abbandonarono Modena l'11 giugno 1859 per non venir meno al giuramento di fedeltà prestato al loro sovrano. A nulla valsero le lusinghe (come gli avanzamenti di carriera prospettati dal dittatore Farini a quanti avessero disertato per confluire nell'esercito sabaudo) e le intimidazioni dei piemontesi: solo pochi uomini cedettero e accettarono di rientrare in patria, ma, nel complesso, il numero degli effettivi della Brigata aumentò per il costante afflusso di giovani volontari.
Identico esito ebbe il decreto di amnistia emanato da Vittorio Emanuele II il 21 settembre 1862, che minacciava la confisca dei beni e la perdita dei diritti civili e politici a quanti non avessero fatto ritorno nel territorio del Regno d'Italia entro sei mesi: in tutto abbandonarono Francesco V solo 12 ufficiali e circa 160 soldati, nonostante il duca, per risparmiare inutili sacrifici ai suoi uomini, avesse autorizzato il congedo.
Lo scioglimento della Brigata avvenne solo su sentenza dell'Imperatore, datata 14 agosto 1863, quando ormai era chiaro che, con l'Unità d'Italia, Francesco V non sarebbe mai rientrato in possesso del suo Stato. A Cartigliano Veneto, il 24 settembre, tutti i soldati vennero decorati con una medaglia recante su un lato la scritta Fidelitati et constantiae in adversis. Molti di loro scelsero di prendere servizio nell'esercito imperiale austriaco.
L'accusa di Riccardo Bertoncelli
«La Brigata ha preferito rimanere legata al mondo che
tramontava»
Nel
giugno del 1859 i soldati della Brigata Estense anziché festeggiare per l'unità
nazionale che si andava costruendo prendevano la via dell'esilio insieme al
loro sovrano Francesco V. Reputo la loro decisione sbagliata perché antistorica
e contraria agli interessi dell'Italia.
Questa
mia profonda convinzione pure non mi impedisce di criticare l'atteggiamento
tenuto dalla storiografia ufficiale italiana di fronte a episodi simili. Ha
preferito nascondere i fatti che non si accordavano con il mito risorgimentale
piuttosto che ammetterli, spiegarli e quindi "neutralizzarli". E così
oggi quei fatti stanno tornando a galla e assumono il fascino che sempre
circonda gli sconfitti "belli e dannati". Si sarebbe dovuto dire la verità e spiegare che, in occasione degli accadimenti che hanno fatto progredire la storia, c'è sempre stato chi ha preferito guardare al passato e rimanere legato al mondo che tramontava. E tramontare con esso. E che questo tuttavia non sminuisce la portata dei grandi eventi.
I soldati della Brigata Estense hanno sbagliato perché hanno preferito rimanere legati a una piccola patria piuttosto che gettarsi tra le braccia di una Patria più grande.
Mi rendo conto dei rischi che corro parlando di Patria. L'accusa di fascismo è sempre dietro l'angolo. In fondo la politica ha recuperato un po' di nazionalismo solo di recente, ma lo pratica con poca convinzione e ancor meno credibilità, in maniera strumentale contro le risorgenti spinte centrifughe. E la cosa è spiegabile tenendo presente le due tradizioni maggioritarie alle quali questa politica si rifà.
Da una parte quella comunista, il cui leader maximo, Palmiro Togliatti, definiva il patriottismo "cosa da mandolinari"; dall'altra quella democristiana di un De Gasperi che non si faceva scrupolo, durante la guerra, di chiedere allo straniero americano di bombardare la patria capitale Roma. E quando Giovannino Guareschi, lui sì vero patriota, portò alla luce lo scandalo, il "grande statista" con l'aiuto di una magistratura compiacente lo fece finire nelle galere, pur sempre patrie.
Entrambe queste tradizioni non hanno mai avuto un buon rapporto con il Risorgimento, dal momento che il loro acerrimo nemico, il Fascismo, col Risorgimento si è posto in entusiastica continuità e anzi ne ha rivendicato un ruolo conclusivo e culminante.
Nonostante questi alti, bassi e usi "impropri", continuo a pensare che il Risorgimento sia stato un momento esaltante della storia nazionale. Certo, deve essere purificato da una retorica eccessiva che a volte lo ridicolizza, e si deve liberare di quei personaggi del mondo della cultura, delle università e della politica che lo cavalcano per interesse personale ma non lo conoscono, non lo stimano e ne offuscano con la loro sola presenza la dimensione eroica.
Ma il Risorgimento rimane l'origine di un'Italia finalmente unita e, per un breve periodo, anche indipendente.
Quindi bisogna avere umano rispetto per chi ha fatto scelte diverse, ma essere nello stesso tempo irremovibili nel definire quelle scelte "sbagliate". Questo non vuol dire che gli autori di quelle scelte debbano essere dimenticati.
La difesa di Elena
Bianchini Braglia
«L'Italia e gli italiani hanno bisogno di
esempi come questo»
Al termine della sua storia di Capitale, Modena offrì un
commovente esempio, oggi quasi dimenticato, di coraggio, coerenza e fedeltà.
L'11 giugno 1859 il Duca lasciava la città per
l'incalzare dell'attacco franco-piemontese. Non sarebbe più tornato, e Modena
di lì a poco sarebbe entrata a far parte di un nuovo regno, poi dell'Italia
unita. Francesco V però non se ne andava da solo. Lo seguivano le sue truppe. Oltre tremila soldati lasciavano beni e famiglia per tener fede al giuramento prestato, offrendo un esempio straordinario che meravigliò anche i più accesi antiduchisti. Chi voleva far credere che l'allontanamento dei sovrani avvenisse per volontà popolare ebbe nella vicenda delle truppe estensi un'incontestabile smentita: «Se ancor si rifletta che a ciò non furono né violentate né costrette, ma vi si condussero con spontaneo entusiasmo, non si può non scorgere in questa loro abnegazione un plebiscito solenne, assai più splendido e spontaneo di quanti ebbero in seguito a porsi in scena con menzognero prestigio» scriveva il ministro Teodoro Bayard de Volo.
La paga in quei periodi difficili non poteva essere alta e il futuro era incerto. Eppure i soldati non solo rimasero accanto al Duca, ma non si lasciarono nemmeno tentare da allettamenti e minacce del governo piemontese. Accettarono di smobilitare solo quando a ordinarlo fu l'Imperatore. Il 24 settembre 1863 a Cartigliano Veneto si consumò la cerimonia dello scioglimento. Dopo anni di sacrifici i soldati salutavano fra le lacrime Francesco V, e venivano decorati con la medaglia Fidelitati et costantiae in adversis.
Il Giornale della Reale Ducale Brigata Estense, che riportava in una sorta di diario tutte le vicende dei coraggiosi soldati in esilio, terminava così la sua narrazione: «Col 1° ottobre l'esistenza della Reale Brigata Estense era purtroppo di fatto del tutto cessata. Essa soggiacque vittima del turbine rivoluzionario. La sventura fu immensamente grande, ma… l'onore era salvo. Sì, era salvo l'onore; tutti, anche negli ultimi e ben disastrosi e difficilissimi momenti dell'esistenza della Brigata, fecero a gara per mantenervelo. Come onorato e senza macchia si ripiegò il nostro vessillo, onorata e senza macchia si chiude l'esistenza della truppa estense».
Al di là delle prese di posizione di parte, è innegabile che uomini capaci di affrontare sacrifici, di andare contro ogni interesse personale e materiale per tener fede a un ideale andrebbero ricordati con orgoglio. L'Italia e gli italiani hanno bisogno di esempi come questo, che invece sono stati sacrificati a una sterile retorica. E questo dovrebbe farci riflettere, anche perché all'epoca la vicenda della Brigata Estense non passò inosservata. Odiata e temuta dagli avversari, lodata dai più, ebbe vasta eco anche all'estero. Mentre i soldati si consolavano delle loro sventure col pensiero che la storia avrebbe certamente celebrato il loro esempio e il loro sacrificio, il giornale parigino Union scriveva che la vicenda della Brigata Estense sarebbe stata in futuro ricordata «da tutti gli uomini di cuore, da tutti gli uomini d'onore». Il problema che ora si pone è: gli italiani di oggi sono, o vogliono essere, uomini di cuore e di onore?
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