lunedì 16 settembre 2013

La genesi del male nel triangolo della morte

(articolo apparso su Prima Pagina del 18 agosto 2013)

«Il diavolo è un ottimista, se pensa di poter peggiorare gli uomini, ironizzava Karl Kraus. Infatti […] nelle situazioni di tensione e di crisi la sottile patina di civiltà dell’essere umano viene spazzata via con grande facilità, facendo riaffiorare i più brutali comportamenti primordiali. E dopo la Liberazione, si era verificato un incremento esponenziale dei delitti di “inerzia bellica”».
Con queste parole Enzo Antonio Cicchino e Roberto Olivo – autori di Correva l’anno della vendetta, recente libro che, con un occhio di riguardo per le stragi di Schio e Oderzo, indaga su numerosi eccidi perpetrati nell’immediato dopoguerra – introducono il capitolo riguardante il cosiddetto “triangolo della morte”. L’espressione, negli anni consolidatasi come definizione di un’ampia porzione di territorio emiliano teatro di efferate vendette postbelliche, costituisce un’efficace immagine giornalistica coniata da Enzo Biagi e Lamberto Sechi, i quali inizialmente intendevano con essa riferirsi ad un preciso «fazzoletto di terra, di circa 6 chilometri di lato, con tre vertici geografici: il Comune di Castelfranco Emilia e due sue frazioni, Manzolino e Piumazzo». Entro quest’area, tra il 1945 e il 1948, si registrò «il più alto tasso di violenza di tutto il Nord». Per avere un’idea, solo nel Modenese i morti furono circa 900. Molti sparirono nel nulla, tanto che in Emilia – raccontano gli autori – circolava in quegli anni una macabra battuta: «Non mettere la mano per terra: potrebbe morderti».
L’aspetto più interessante del libro di Cicchino e Olivo non è però la ricostruzione dei fatti di sangue, per la quale, del resto, è sufficiente ricorrere ad una bibliografia fortunatamente sempre più rigorosa, oltre che in espansione. Ciò che rende meritorio il volume è lo studio degli aspetti psicologici (individuali e di massa) che portarono non solo a tollerare, bensì a considerare inevitabili, e quindi legittime, violenze indicibili. L’ambizioso obiettivo degli autori è pertanto quello di spiegare (cosa ben diversa dal raccontare) il male, con l’intento di piegare la ragione a meditare sulla genesi di comportamenti che, in quanto disumani, possono facilmente apparire incomprensibili.
Come prima considerazione è bene tener conto del «senso di estraneità allo Stato e alle istituzioni» che, dopo la Liberazione, favorì «la trasgressione e la disobbedienza civile». Il sentimento prevalente di un’ampia parte della popolazione nei confronti delle forze di polizia era infatti il disprezzo, motivato dalla reale o presunta collusione di queste ultime con le vecchie autorità naziste e repubblichine. Di fatto, almeno fino al 1946, «l’ordine pubblico continuò ad essere nelle mani della polizia partigiana», la quale, «spesso responsabile o complice […] dei delitti che avrebbe dovuto reprimere», non si faceva scrupolo di prelevare «le persone in casa, di notte, per interrogarle nelle sedi della polizia ausiliaria, sopprimendole con un colpo di rivoltella alla nuca, oppure facendole sparire nel nulla». Ogni remora era accantonata di fronte alla ferrea convinzione di agire per il trionfo della “giusta” causa.
Secondo quanto riporta lo psicanalista e psicologo Bert Hellinger, combattere all’interno di un gruppo che si sente minacciato da forze esterne (e che quindi considera perennemente a rischio la propria sopravvivenza) può far ritenere doverosa l’eliminazione fisica degli avversari. Tutto è subordinato alla “santità” della causa. In tal senso, argomentano Cicchino e Olivo, «non c’è molta differenza […] fra un cattolico e un comunista»: «Se un credente confida nel fatto che le sue sofferenze terrene verranno risarcite in Paradiso, la trascendenza comunista è rappresentata dal “sol dell’avvenire”, un radioso futuro in cui tutti saranno uguali, quindi felici». Ma per far sì che la società egualitaria non rimanesse soltanto un miraggio, occorreva prima combattere, senza preoccuparsi dei costi in vite umane.
A favorire la propensione alla violenza delle forze partigiane contribuì poi «l’enorme disponibilità di armi su tutto il territorio nazionale», che «produceva un pericoloso senso di onnipotenza». L’obiettivo era quello di trasformare la lotta di liberazione in rivoluzione proletaria, con la conseguenza che, battuti i tedeschi, l’avversario diveniva il nemico di classe. Ma, al di là dei progetti politici, spesso si ricorreva all’omicidio per motivi futili, per vendetta, o anche solo per questioni personali: per la resa dei conti, in sostanza, era sufficiente poco più di un pretesto. E il risultato fu che a perdere la vita furono anche molte persone che col fascismo non avevano avuto nulla a che fare.
Nel triangolo della morte la violenza divenne parte della routine quotidiana. Nel Modenese, infatti, «esistevano vere e proprie “squadre della morte”, che non andavano tanto per il sottile nell’ammazzare e seviziare collaborazionisti e presunte spie, con la tacita approvazione o il silenzio complice di non pochi dirigenti del PCI di Modena». Nell’Emilia di quel tempo non era perciò infrequente imbattersi in volantini di questo tenore: «Uccideremo e deporteremo tutti i borghesi. […] Compagni, dobbiamo vivere per distruggere: sulla distruzione completa del passato ricostruiremo la nuova Italia».
Come definire pertanto questo cieco fanatismo? Cicchino e Olivo suggeriscono un’interessante lettura degli eccidi postbellici: «Se la violenza è spesso perdita di senso, la violenza rivoluzionaria è un’eccessiva attribuzione di senso a idee prevalentemente insensate». Il concetto di violenza, infatti, non è univoco. Nessuno si sognerebbe di tacciare di violenza un esercito che si difende con le armi per respingere un invasore. A connotare un’azione come violenta, a ben vedere, non è quasi mai solo l’aspetto materiale e concreto di un dato comportamento, ma la motivazione che sta alla base dello stesso. Anche un caso limite come la tortura può diventare controverso: è lecito, per esempio, infliggere dolore a un prigioniero per estorcergli informazioni utili al fine di condurre a termine con successo un’operazione militare (che evidentemente si considera “giusta”)? Per molti comunisti del periodo post-Liberazione scrupoli al riguardo non ve n’erano. A fare la differenza erano infatti le motivazioni, gli obiettivi, la promessa che, seppur a caro prezzo, la “giustizia” sociale avrebbe infine trionfato: «Per quanto la violenza sia detestabile – puntualizzano gli autori –, si tende ad accettarla più facilmente quando s’ammanta d’ideale, trascendendo gli interessi individuali per diventare il mezzo con cui raggiungere un fine».
Nel clima infuocato del dopoguerra qualsiasi delitto, anche il più assurdo, poteva essere giustificato individuando pretestuosamente nella vittima un nemico di classe. Seguendo questa logica, il PCI – che pure con Togliatti tentò di correggere i comportamenti settari dei gruppi intransigenti del partito – «non solo non sconfessava ma addirittura proteggeva quelle frange di teppaglia armata che praticavano una violenza gratuita, priva di scopo, progetto o ideologia, nascondendo i loro delitti all’ombra della bandiera rossa, del materialismo storico e di fasulli ideali rivoluzionari».
L’aggressività delle bande armate – sempre a parere di Hellinger – trovava una spiegazione nel senso di appartenenza a un branco. Un senso di appartenenza «che trasforma la coscienza individuale in collettiva, producendo un insensato senso di superiorità che genera sentimenti aggressivi nei confronti degli altri, non più percepiti come persone ma solo come avversari». Il che forniva il pretesto per annientare l’avversario e, al contempo, appagare la coscienza con «la sensazione di essere buoni o migliori».
In questo modo, però, gli stessi concetti di bene e male assumevano un valore del tutto relativo: solo ciò che era bene per il branco costituiva un bene per l’individuo. Il risultato era che chi cercava «di sottrarsi alla pressione della massa per dedicarsi alla riflessione» correva inevitabilmente «il rischio che gli altri fanatici gli si rivolt[assero] contro, diventando un traditore della “buona coscienza” collettiva». E trasformandosi da carnefice in vittima.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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