domenica 6 ottobre 2013

Antifascismo: sinonimo di democrazia?

(articolo apparso su Prima Pagina del 6 ottobre 2013)

Introduzione di Luigi Malavasi Pignatti Morano

 

Quando in Italia esce un libro sulla guerra civile del 1943-1945 la polemica è pressoché assicurata, con l'opinione pubblica pronta a spaccarsi nei due tronconi di chi difende la "sacralità" della Resistenza e chi pretende di riscattare la memoria dei vinti. Per quale motivo, ancora a distanza di settant'anni, è così difficile raccontare quel passato col dovuto distacco, riconoscersi in una storia condivisa a prescindere dai diversi orientamenti politici?
Rispondere a questa domanda è tutt'altro che semplice, anche se non è pensabile continuare ad eluderla. Nell'interessante introduzione all'edizione italiana de La cultura dei vinti, corposo saggio di Wolfgang Schivelbusch, Roberto Vivarelli suggerisce alcuni spunti di riflessione decisamente poco convenzionali. A suo parere il primo nodo da sciogliere è quello legato alla corretta interpretazione del concetto di antifascismo, troppo spesso considerato (erroneamente) sinonimo di democrazia. Se infatti «è del tutto evidente» che per il PCI (partito che «si adoperò per fare dei suoi militanti dei gregari e niente affatto delle persone libere») il modello non era certo il parlamentarismo occidentale, bensì il regime, di matrice sovietica, «che, con un grazioso eufemismo, fu detto "democrazia popolare"», come conciliare l'antifascismo comunista con quello, liberale, più autenticamente democratico? A una comune pars destruens (la sconfitta del fascismo) non corrispondeva uguale pars construens, con l'aggravante (o, meglio, il paradosso) che in un regime di democrazia proprio le forze antidemocratiche consideravano la propria esperienza partigiana come di serie A rispetto a quella, di serie B, degli altri partiti della Resistenza.
L'Italia fatica ad accettare una memoria condivisa fondata sui valori dell'antifascismo semplicemente perché non è ancora riuscita (o forse non ha voluto) fare i conti con il fascismo. E perché questo avvenga, è necessario, scrive Vivarelli, tenere presente che non fu l'antifascismo a stroncare Mussolini. Fu la sconfitta militare a far fuori il duce, non certo un'opposizione interna. Nondimeno, dopo l'8 settembre, ad animare i primi nuclei della Resistenza fu la pretesa, poi confermata in sede storiografica nel dopoguerra, di riassumere tutte le colpe del fascismo nella drammatica esperienza di Salò, come se solo con l'RSI si fosse palesato l'inganno che si celava dietro l'equazione italiano = fascista. Così, con un colpo di spugna, ci si sottraeva dalla scomoda responsabilità di dover gestire l'eredità di una dittatura ventennale che aveva, inutile negarlo, sedotto milioni di italiani.
Il considerare «sufficiente avere preso le distanze da Salò per meritare una patente di antifascismo» consentì a molti "repubblichini" di nobilitare la scelta di non tradire colui che era stato, non va dimenticato, idolatrato duce d'Italia, oltre che del fascismo. Se quindi ancora oggi non si accetta l'idea che il fascismo non fu imposto da una minoranza di fanatici, ma fu prima tollerato, poi accettato (il mancato esautoramento di Mussolini dopo il delitto Matteotti dovrebbe far riflettere), infine accolto con un consenso largamente diffuso; se pertanto si pretende di scaricare su pochi quella che fu una responsabilità di molti, allora gli italiani non solo non possono, ma forse hanno addirittura il diritto di non accettare una memoria condivisa.

      

L'accusa di Francesco Gherardinelli

 

«Una memoria condivisa richiederebbe un'onestà intellettuale che questa Italia non ha»

 

È possibile in Italia una memoria condivisa? Prima di rispondere a questa domanda, forse è opportuno porsene un’altra. È conveniente, su certi fatti, avere una memoria? L’interrogativo può, a primo acchito, risultare poco comprensibile. In realtà sulla risposta si giocano i destini di una nazione.
La guerra civile, intesa come scontro fratricida tra persone e gruppi appartenenti alla stessa comunità, si è manifestata infinite volte nella storia umana. Fin dagli albori della civiltà fazioni e clan si sono scontrati per la conquista del potere o per rivalità che oggi potremmo chiamare ideologiche.
Con i Romani il concetto di guerra civile ha raggiunto il suo senso più compiuto. Soprattutto in epoca repubblicana, ai tempi di Mario e Silla, quando lo scontro vedrà fronteggiarsi schieramenti mossi da una profonda differenza ideale e supportati da ceti diversi con interessi contrapposti.
Generalmente l’autorità che emerge da una guerra civile ha due possibilità. La prima è quella di far dimenticare la guerra civile stessa, non coltivandone la memoria, con l’obiettivo di giungere a una vera pacificazione basata sull’oblio. La seconda è invece quella di fondare la propria legittimità propria sulla vittoria nella guerra civile, dipingendo i perdenti come criminali e i vincitori come eroi-salvatori. In altre parole trasformando la guerra civile in mito.
In Italia il potere politico ha scelto questa seconda opzione. Ha deliberatamente rinunciato alla realtà dei fatti per dividere il mondo in buoni e cattivi. Ma questa operazione ha dato risultati positivi per la nazione? A mio parere no. Negare la realtà non porta mai a nulla di buono, anche perché il totale lavaggio del cervello della gente non è possibile e chi ha vissuto i fatti continuerà a portare avanti una memoria, magari sotterranea, magari inconscia, diversa da quella imposta dalle autorità. E in questo modo le istituzioni sono inevitabilmente destinate a perdere quella legittimità che ricercano disperatamente. Perché nessuna legittimità può nascere dalla menzogna.
Gli esponenti più intelligenti tra i vincitori erano perfettamente consapevoli di questo pericolo. Per cui un Amedeo Bordiga, fondatore insieme a Gramsci del Partito Comunista Italiano, arriverà a dire che “il peggior prodotto del fascismo è stato l’antifascismo”. Un intellettuale come Ennio Flaiano invece sosterrà, con finta ironia, che “il fascismo si divide in due categorie: il fascismo e l’antifascismo”.
È possibile quindi una memoria condivisa sui fatti della Guerra Civile? La mia risposta è no. Perché richiederebbe un’onestà intellettuale che l’Italia nata dalla Resistenza non ha e non avrà mai. Un’onestà che imporrebbe di riconoscere non solo le ragioni, ma fin anche la legittimità – quanto meno come “opzione storica” – della parte avversa e perdente.
Purtroppo il timore è che una pacificazione non raggiunta perché non voluta dai vincitori avrà conseguenze molto gravi. È il passato che ci consente di vedere il futuro. Come insegnano i tempi di Mario e Silla, la vittoria di oggi non seguita dalla pacificazione, è foriera della sconfitta di domani. Perché se i vincitori tutti i giorni ricordano e fanno ricordare, i vinti tutti i giorni non dimenticano. La memoria spesso chiama sangue.

 

 

La difesa di Luciano Annunziante

 

«Una memoria condivisa è possibile purché vincitori e vinti facciano un passo indietro»

 

Sui fatti della lotta antifascista si assiste a un revisionismo che, cominciato negli anni Ottanta in maniera strisciante, negli ultimi tempi ha assunto forme e comportamenti sempre più aggressivi.
Si è cominciato col negare il concetto di insurrezione popolare per sostituirlo con quello di Guerra Civile, per arrivare, oggi, ad invocare una memoria condivisa che però, se non definita in maniera precisa, nasconde insidie e pericoli.
Cosa significa memoria condivisa? Significa rivalutare il fascismo, e la dittatura nella quale ha fatto vivere gli italiani per più di vent’anni? Significa non solo manifestare una comprensione umana e una umana pietà per i fascisti che combatterono al fianco dei nazisti, ma riconoscergli anche delle ragioni storiche e ideali? Se questa è la volontà di chi ricerca questa condivisione nella memoria, personalmente non ho alcun problema a dire no!
La condivisione la si può e la si deve cercare mantenendo però alcuni punti fermi. Non negoziabili, come si sente spesso dire in altri ambiti. Il primo è che fascisti e antifascisti non erano uguali, con la sola differenza che i primi hanno perso e i secondi hanno vinto. Erano diversi. Diversissimi. I secondi combattevano per la democrazia e la libertà, i primi stavano dalla parte della dittatura. Il secondo è che certe esperienze storiche non possono essere rivalutate, o anche solo relativizzate. Il male esiste, e loro lo hanno rappresentato sul piano politico.
Tenuti fermi questi due punti, la ricerca storica ha tutto il diritto di approfondire i fatti e le circostanze. Anzi, l’operazione è meritoria se ha come fine quello di purificare quella grande epopea che è stata la Resistenza da una retorica eccessiva, ridondante che spesso risulta più di danno che di utilità alla sua stessa immagine pubblica.
È evidente e innegabile che anche nella Resistenza si sono verificati episodi inaccettabili, da condannare senza se e senza ma. Anzi, il portarli alla luce è assolutamente necessario per togliere argomenti a tutti i detrattori del movimento partigiano che strumentalizzano quel po’ di cattivo che è stato prodotto per fare di tutta l’erba un fascio e infangare la Resistenza in toto.
A questo fine sarebbe anche utile togliere un po’ di potere, di visibilità e soprattutto di prebende a quelle persone e a quelle associazioni che, come troppo spesso accade in Italia, sulla Resistenza hanno costruito rendite e posizioni lautamente remunerate. Queste realtà, nella loro radicalità ed esaltazione avulsa da ogni realtà, prestano il fianco ai nemici della verità che hanno buon gioco a parlare di “industria della Resistenza”.
La memoria condivisa quindi è possibile, nella misura in cui entrambe le parti in causa accettino di fare un passo indietro. I vincitori, riconoscendo che, come sempre capita nelle vicende umane, non tutta la loro storia è immacolata. Che purtroppo anche tra i partigiani c’erano persone mosse da finalità non condivisibili che hanno avuto atteggiamenti da condannare fermamente. I vinti, riconoscendo che il fascismo non può essere una legittima alternativa alla democrazia.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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