lunedì 21 ottobre 2013

«Dal Dragone al Don»: memorie di guerra e di un mondo che non c'è più

(articolo apparso su Prima Pagina del 20 ottobre 2013)

«Amerò e onorerò questa donna da oggi per tutto il resto della mia vita, breve o lunga che sia, mi prenderò cura di lei e del nostro bambino, questa è la mia promessa al suo cospetto. Ma io sono figlio della Patria, prima di tutto. E se sarò chiamato a servirla, la Patria, non mi tirerò indietro. Questo è il mio dovere».
Con queste parole, tratte dalle prime pagine del suo libro di memorie, Aldo Corti – artigliere alpino del Gruppo Val Camonica (Divisione Tridentina) originario di Montefiorino che prese parte alla tragica Campagna di Russia durante la seconda guerra mondiale – descrive le ambivalenti sensazioni che provò il giorno del suo matrimonio. Era l'8 dicembre del 1941, data storica poiché quella mattina il mondo intero si era svegliato con la notizia dell'attacco giapponese a Pearl Harbor del giorno precedente. L'affondamento delle navi americane stava a significare solo una cosa: la guerra sarebbe presto diventata mondiale, a poco più di vent'anni da quella carneficina del '15-'18 che ancora turbava il sonno di milioni di italiani. E il giovane Corti, poco prima del «sì» davanti all'altare, ebbe chiaro il presagio che presto il conflitto l'avrebbe travolto, come un'onda anomala che spazza via tutto ciò che incontra sulla sua strada. In attesa di un figlio, non ancora ventenne (era nato il 1° luglio 1922), Aldo si trovò costretto a bruciare le tappe della giovinezza, obbligato da un innato senso del dovere a diventare adulto anzitempo.
Oggi il mondo è cambiato così radicalmente che, ai più, le parole dell'alpino Corti sembreranno deliranti. Che senso può avere negli anni Duemila parlare di Patria (per di più di una Patria con la P maiuscola)? Ma, soprattutto, nella nostra società dei consumi che riconosce, come valore, solo il denaro, è ancora possibile discutere di senso del dovere? Se non esistono più valori, perché Dio, la Patria, la Politica sono morti, non resta quasi più niente per cui valga la pena sacrificarsi. Con la conseguenza, inevitabile, che il futuro cessa di essere la dimora delle aspettative, il ricovero delle speranze, per divenire la tomba delle illusioni.
Il libro di Aldo Corti (che è venuto a mancare lo scorso 1° agosto, poco dopo la pubblicazione del volume) è interessante proprio perché offre una preziosa testimonianza di un mondo che è tramontato. Un mondo che non ha senso rimpiangere, dal momento che gli italiani di oggi non possono scegliersi un'altra epoca in cui vivere. All'Italia religiosa, povera e ignorante degli anni Quaranta si è sostituita l'Italia laica, opulenta e per certi versi ancora più ignorante del tempo presente; a un'Italia per la quale in molti erano disposti a «credere, obbedire, combattere» è subentrata un'Italia che non ha più fiducia in nessuno, maleducata e ciarlatana, poco credibile se non odiosa quando chiede sacrifici. Tra il ventenne Aldo, che giura fedeltà alla moglie e alla Patria in guerra, e il ventenne odierno, che mai dovrà giurare alcunché in vita sua, che dialogo può instaurarsi?
Il senso del dovere portò Aldo a vivere la drammatica esperienza del conflitto con grande forza d'animo. Non che la guerra fosse per questo da lui condivisa. Nelle lettere inviate dal fronte alla moglie Vanda emerge infatti un forte senso di estraneità nei confronti di una lotta immane tra superpotenze rispetto alle quali il singolo individuo vedeva scomparire la propria umanità. Le domande di Aldo erano quelle di un giovane spaesato, incapace di comprendere appieno le ragioni di un conflitto che contrapponeva popoli tra loro così lontani, che nulla, a suo parere, avevano in comune. Come trapela da una sua lettera, la distanza fisica finiva per fiaccare le artefatte motivazioni ideologiche inculcate dal regime: «Pensa – scrisse per esempio una volta giunto "vicino Stalino" – che se dovessi tornare a casa a piedi impiegherei un anno facendo venti chilometri al giorno, ti sembra vicino?».
Forte era però la volontà di tenere duro, di farsi coraggio l'un l'altro: la condivisione delle sofferenze aiutava a combattere, a non mollare. In ballo c'era del resto l'onore d'Italia, della Patria che aveva chiamato, di una seconda madre che, nei campi di battaglia, non aveva più nulla a che vedere col fascismo, con Mussolini e con le sue ambizioni incomprensibili. Al fronte c'era da compiere il proprio dovere di italiani, perché era la storia che lo chiedeva. Quella storia che aveva fatto irruzione nella vita quotidiana di migliaia di giovani, i quali percepivano lucidamente la responsabilità di essere partecipi di un momento eccezionale, si sentivano messi alla prova. Non stupisce, pertanto, che moltissimi reduci abbiano in seguito riempito infinite pagine di testimonianze, diari, libri di memorie, epistolari. Nella percezione dei combattenti, la seconda guerra mondiale è un conflitto totale, che coinvolge tutti, non solo i soldati, e che tutto appiattisce. Il proliferare di scritture di ogni genere nasce pertanto dal bisogno di affermare una soggettività, dalla necessità di urlare al mondo «Io c'ero!». La pagina bianca diventa così per il soldato al fronte uno specchio dell'io annientato dalla tragica esperienza bellica, una finestra che consente di comunicare con un mondo (degli affetti, dei ricordi) che la guerra continuamente minaccia di sovvertire.
L'intento di Aldo, quando scriveva alla moglie, non era infatti descrittivo. Tutte le sue lettere erano animate dalla costante preoccupazione di fermare il correre del tempo, di esorcizzare l'angoscia prodotta da un conflitto universale che lasciava chiaramente intendere che nulla sarebbe tornato come prima. Carta e penna alla mano, l'alpino Corti nascondeva i propri disagi, non lasciava trapelare il dolore, la paura, la precarietà tipici della condizione di ogni soldato. Il suo pensiero era costantemente rivolto a Montefiorino (molto bello un passo di una lettera al padre, nel quale Aldo, per far capire la disposizione delle truppe italiane rispetto a quelle russe, paragona il fiume Don al più familiare Dragone), a quella terra natale che, prima o poi, avrebbe voluto ritrovare inviolata, non contaminata dalla guerra.
Ma al rientro in Italia dopo la drammatica ritirata di Russia niente sarebbe più stato come prima. Aldo stesso si sentiva prostrato nel corpo (era passato da 70 a 39 kg nel giro di sette mesi) e nella mente, incapace di capire il perché di tanta sofferenza e, soprattutto, perché, tra migliaia di morti, a lui la sorte avesse risparmiato la vita. A dargli conforto, il solo pensiero di avere servito la Patria, di aver compiuto il proprio dovere «nonostante il folle che aveva deciso quell'impresa». Aldo e i suoi compagni d'arme, anche se sconfitti militarmente, in cuor loro si sentivano vincitori.
L'Italia che l'alpino Corti trovò al suo ritorno non era però un paese disposto a tributargli onori. Se non fosse stato per le ferite provocate dal congelamento di un piede – opportunamente "trattate" con l'acido muriatico perché non si rimarginassero – i vertici militari l'avrebbero spedito su qualche altro fronte. La guerra infatti non era finita, e presto anzi si sarebbe trasferita in ogni casa sotto forma di spietata lotta fratricida. Per ironia della sorte (di quella stessa sorte che aveva fatto sopravvivere il figlio all'inferno di Nikolajevka), Olimpio Corti, il padre di Aldo, fu prelevato da un gruppo di partigiani comunisti e trucidato in quanto trovato in possesso della tessera del fascio repubblicano: suo "giustiziere" fu il capobanda Nello Pini, un alpino cui Aldo, durante la ritirata dai territori sovietici, aveva salvato la vita, avvertendolo di non avvicinarsi ad un'isba controllata da partigiani russi.
Il clima d'odio che insanguinò in quei mesi l'intero territorio di Montefiorino è chiaramente testimoniato, a parere di Aldo, da un significativo episodio dell'immediato dopoguerra: ovvero l'inaugurazione, in località Casola, di un monumento «in memoria di tutti i nostri morti di questa seconda guerra mondiale» che, con evidente pregiudizio ideologico, classificava i caduti nelle quattro categorie di Partigiani, Militari, Civili e Fascisti. Solo negli anni Ottanta i morti fascisti (tali erano considerati tutti i caduti per mano partigiana) furono inclusi nella categoria dei Militari.
L'Italia di oggi, passata attraverso l'esperienza dilaniante della guerra, è un paese che non ha voglia di ricordare. L'orgoglio di essere italiani, per il quale Aldo ha sacrificato la sua vita, ormai non esiste più, e forse è morto proprio nel momento in cui gli italiani si sono dimenticati della Patria per sventolare, nel trionfo dell'odio, la bandiera dell'ideologia. Aldo non appartiene alla categoria degli eroi poiché, ancora nel 2013, c'è chi eroe è disposto a considerare il carnefice di suo padre. Per i ventenni dell'era di internet Aldo non può rappresentare un modello, poiché incomprensibile risulterebbe per questi ultimi la fierezza provata da un giovane alpino nell'adempimento del proprio dovere di soldato, di marito, di padre, di italiano. Oggi tutto sembra lecito, la ribellione è un mito, il rispetto ha ceduto il passo all'arroganza, la fedeltà a persone o ideali puzza di vecchio: ma forse, a ben vedere, se vogliamo sopravvivere nell'oceano del niente che ci circonda, siamo obbligati a costruirci un nostro personale senso del dovere. È attraverso di esso che diamo valore alla nostra vita.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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