lunedì 30 settembre 2013

Il vittimismo di massa nella (fiacca) «Repubblica del dolore»

(articolo apparso su Prima Pagina del 29 settembre 2013)
 
Negli ultimi vent'anni, grosso modo a partire dal crollo della Prima Repubblica, si è fatto un gran parlare di memoria collettiva, di gendarmi della memoria, di revisionismo e di uso politico della storia. Spesso però questi concetti sono evocati con troppa superficialità, conseguenza essenzialmente dell'incapacità (o mancata volontà) di rispondere adeguatamente alla domanda: «Cosa s'intende per memoria collettiva?».
La risposta, in realtà, è piuttosto ovvia. Con memoria collettiva deve intendersi un patto attraverso il quale i contraenti (ovvero i cittadini, ma, nel concreto, le istituzioni) si accordano su cosa preservare e cosa dimenticare (ovviamente non in sede storiografica, ma nell'ambito della religione civile) degli eventi di un passato comune. Ogniqualvolta si compia una scelta su come strutturare i programmi scolastici, sull'impostazione dei manuali, sul calendario delle festività civili, sui monumenti o sui criteri di allestimento di un museo, di fatto si rinnova il patto, si stabilisce cosa è bene e cosa è male. È sulla base degli eventi degni di essere ricordati, afferma il professor Giovanni De Luna, che «si costruisce l'albero genealogico di una nazione».
Come stabilire, tuttavia, cosa ricordare? Il passato è in costante movimento: dal momento che i contraenti del patto della memoria cambiano in continuazione, è mutevole la percezione di esso nel presente. In Italia i partiti che suggellarono l'accordo fondativo della Prima Repubblica sono stati spazzati via dal terremoto degli anni 1992-1994; e ad essi sono subentrate formazioni politiche che, con la storia, hanno un rapporto contraddittorio o del tutto inesistente. Forza Italia liquidò il problema delle proprie radici storiche rivendicando una generica appartenenza alla tradizione liberale, richiamandosi con grande disinvoltura a Sturzo, Amendola, Turati, Matteotti, Salvemini, Einaudi e De Gasperi, tutti egualmente paladini della libertà; Pds e Alleanza nazionale, che dovevano fare i conti con un passato troppo ingombrante, preferirono "smaltire" il peso della propria eredità; la Lega, infine, fu costretta ad inventarsi una tradizione necessariamente in conflitto con quella dello Stato-nazione. Di fatto, sul piano istituzionale solo la presidenza della Repubblica è rimasta stabile contraente del patto della memoria, secondo un processo, iniziato con Pertini, che ha portato al tentativo di sostituire, nel ruolo simbolico di custode dei valori dell'unità nazionale, il Parlamento con il Quirinale.
La Prima Repubblica ha fondato il proprio patto memoriale sui due capisaldi del Risorgimento e della Resistenza, concependo sostanzialmente il secondo come il completamento del primo. Con la scomparsa dei partiti "tradizionali" si è resa tuttavia necessaria una sorta di rifondazione complessiva, dal momento che le nuove formazioni politiche – di fatto astoriche, come si è detto – si sono trovate nelle condizioni di dover a tutti i costi rinnovare l'apparato simbolico della religione civile di una patria in crisi di identità. E il risultato di questa operazione, giudicato dopo vent'anni di Seconda Repubblica, è fallimentare, come risulta in maniera evidente dalla constatazione che «il sentirsi italiani, il riconoscersi in un valore che non sia l'essere tutti figli dello stesso benessere e che si fondi su un comune nucleo civico, è oggi un sentimento che non suscita passione».
Ciò che infatti caratterizza il nuovo patto della memoria è la dimensione del dolore che scaturisce dalla memoria delle vittime, con la conseguente privatizzazione del ricordo. È la costruzione di «una memoria avvinta dall'emozione e assorbita dalla sofferenza» che consente di «tenere insieme la Resistenza e i "ragazzi di Salò", le foibe e i lager, il terrorismo delle Br e la mafia». Da quando lo spazio pubblico è stato «colonizzato dal lutto» si è assistito quindi al consolidamento di un «paradigma» che ha posto in ombra la storia (con tutta la sua complessità) per consentire la celebrazione, in senso assoluto, dello status di vittima (della mafia, del terrorismo, della Shoah, delle foibe, del dovere, delle catastrofi naturali, e via dicendo).
Per dimostrare come l'Italia contemporanea si sia trasformata in una «Repubblica del dolore», De Luna elenca le leggi approvate negli ultimi dieci anni in tema di memoria collettiva. Queste le più significative: «La legge 20 luglio 2000 che dichiara il 27 gennaio "giorno della memoria" legandolo alla Shoah e alla deportazione "dei militari e politici italiani" nei campi nazisti; la legge 30 marzo 2004 che indica il 10 febbraio "giorno del ricordo" in memoria delle vittime delle foibe; la legge 15 aprile 2005 che istituisce il "giorno della libertà" in data 9 novembre, in ricordo dell'abbattimento del muro di Berlino; la legge 4 maggio 2007 che dichiara il 9 maggio "giorno della memoria" dedicato alle vittime del terrorismo; la legge 12 novembre 2009 che introduce quella data come "giornata del ricordo dei Caduti militari e civili nelle missioni internazionali per la pace"».
Questi provvedimenti (cui vanno aggiunti molti altri progetti di legge, alcuni dei quali – come quello per l'istituzione di una giornata del ricordo delle «vittime dell'odio politico» – francamente bizzarri) sono il risultato del maldestro tentativo di uno Stato «sempre meno "potente"» di costruire una rinnovata memoria ufficiale. Nell'universo, potenzialmente infinito, del paradigma vittimario la storia cede il passo alla rivendicazione, che nasce da istanze di parte e, sfruttando la debolezza delle istituzioni, riesce ad imporsi conquistando la certificazione, in realtà solo apparente, di memoria condivisa. I simboli eroici di una patria che oggi puzza di vecchio sono pur sempre simboli positivi, attivi, che richiamano gesta compiute, non violenze subite. La vittima è invece un simbolo passivo attraverso il quale il dolore diviene un efficace strumento con cui si nega, e non si afferma, un valore (e, progressivamente, tutti i valori). Se gli italiani, cioè, si riconoscono solo nelle vittime – e accade quindi, inevitabilmente, che ciascun italiano si riconosca "di più" in una categoria di vittime piuttosto che in un'altra –, viene meno il senso di appartenenza a una causa condivisa avvertita come giusta. E l'orgoglio di essere italiani annega in un mare di rivendicazioni che stravolgono continuamente quel giudizio sul passato comune che ogni cittadino, vista l'assenza dello Stato, ha oramai definitivamente avocato a sé.
Il «trionfo delle vittime» – inizialmente giustificato, scrive De Luna, dall'esigenza di "umanizzare" la ricostruzione delle sofferenze della Shoah (emblema dei mali del secolo) – ha a lungo andare prodotto a sua volta una vittima, ovvero la storia, ridotta ad «arma da usare per legittimare una parte politica contro l'altra». Arma che è efficace a patto che «rifiut[i] la complessità» e lasci da parte la riflessione critica per diventare strumento.
Nella «Repubblica del dolore» è inevitabile che si ingeneri una competizione tra vittime (le vittime, ad esempio, del dovere – ovvero i membri della forza pubblica e armata caduti nell'adempimento del proprio dovere – si fronteggiano naturalmente con le vittime delle forze dell'ordine), col risultato che i legami sociali, anziché rafforzarsi, si indeboliscono. Emozioni private quali il rancore o il desiderio di vendetta hanno conquistato lo spazio pubblico, spinte da una cultura (editoria, musei, televisione, rete) che sempre più considera il denaro generatore unico di tutti i valori. I media, in altre parole, hanno trasformato le emozioni in merci sottoposte alle regole della domanda e dell'offerta: sul piccolo schermo i sentimenti sono messi in mostra per essere venduti, poiché la logica del mercato prevede che uno spazio pubblicitario sia acquistato in cambio della garanzia dell'audience. Uno Stato debole, pertanto, ha rinunciato al proprio ruolo di costruttore di memoria, schiacciato sotto il peso di un vittimismo di massa che è il prodotto di una società che ha smesso di pensare. Gli stessi partiti mostrano di avere introiettato il paradigma vittimario, con una Sinistra vittima dell'oppressione economica capitalistica, una Destra vittima dell'egemonia culturale postcomunista e una Lega vittima dei complotti di "Roma ladrona".
La televisione, incontrastata produttrice di cultura, ha portato alla spettacolarizzazione della ricostruzione storica, a detrimento delle regole scientifiche che vincolano, invece, la scrittura di un saggio. Di fatto, oggi si è imposto il modello della fiction – libera commistione di trame melodrammatiche ed effetti speciali –, che, a colpi di esasperato revisionismo e immagini sensazionali, sacrifica qualunque intento pedagogico sull'altare dell'Auditel. La memoria individuale, che un tempo poteva essere valorizzata per aiutare a comprendere il passato, dando un senso al ricordo delle vittime, non accompagna più la riflessione critica, ma si è sostituita ad essa. La storia ha ceduto il passo alle tecniche di fascinazione di uno spettatore – quasi mai anche lettore – che si lascia sedurre dall'ostentazione del dolore. La cultura, nell'era nichilistica di internet e delle televisioni commerciali, corre seriamente il rischio di essere sopraffatta dallo show.

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lunedì 23 settembre 2013

Francesco II, l'Estense che avrebbe fatto volentieri a meno della politica

(articolo apparso su Prima Pagina del 22 settembre 2013)

La morte prematura di Alfonso IV d'Este sopraggiunse quando Francesco, legittimo erede del duca, aveva solo due anni. Era il 1662, e a Modena serpeggiava un crescente malcontento a causa della critica situazione finanziaria, conseguenza in gran parte dell'intraprendente e forse troppo ambiziosa politica estera di Francesco I.
Data la giovane età, il futuro Francesco II non poté inizialmente farsi carico del governo dello Stato estense: fu sua madre, Laura Martinozzi, ad assumere la reggenza, coadiuvata in particolare da due fratelli di Francesco I (il cardinal Rinaldo e il principe Cesare), dai ministri Graziani e Gatti e dall'influentissimo padre Garimberti, suo confessore. Ribattezzata rapidamente «duchessa padrona» per via del carattere autoritario, la Martinozzi affrontò con risolutezza i problemi economici che attanagliavano il ducato, improntando il governo su basi di rigida austerità.
L'intransigenza, spesso al limite del bigottismo, di cui la reggente dette prova nell'imporre una rigorosa moralizzazione dei costumi non poté ovviamente esprimersi in politica estera, dal momento che le ridotte dimensioni del ducato estense imponevano di adottare una strategia di prudente neutralità – seppure inevitabilmente sbilanciata verso la Francia dal tempo della pace dei Pirenei – rispetto ai contrasti tra le grandi potenze. Tuttavia, quando nel 1673 Luigi XIV, con l'intento di insediare nella corte di Londra una principessa cattolica, propose il matrimonio tra la giovane Maria Beatrice, sorella di Francesco II, e l'erede al trono inglese Giacomo Stuart, la Martinozzi intuì chiaramente che l'alleato francese premeva per una decisa scelta di campo. E siccome non era pensabile opporsi al Re Sole, alla duchessa non restò che acconsentire all'unione e partire alla volta di Londra al seguito della figlia quindicenne.
L'assenza da Modena della reggente si protrasse per sei mesi, durante i quali Francesco II fu sapientemente avvicinato da alcuni uomini di corte che mal sopportavano l'austero governo della Martinozzi. Tra essi, il più caparbio fu Cesare Ignazio, appartenente ad un ramo cadetto della casa d'Este, il quale non ebbe difficoltà ad irretire il futuro duca, convincendolo della necessità di sottrarsi alla tutela materna. Fu così, dunque, che al suo ritorno da Londra, la duchessa, condotta in duomo per assistere al canto di un solenne Te Deum, notò qualcosa di insolito: sormontati da due grossi padiglioni a ombrello, i troni suo e del figlio erano disposti in modo tale da far apparire quello di Francesco in posizione dominante.
Salito al trono, questi nominò immediatamente Cesare Ignazio «generale in capo e direttore di tutte le rendite camerali»: il che equivaleva di fatto a sostituire la reggenza della madre con quella, indiretta, del cugino. Come ha infatti notato Riccardo Rimondi, «il duca [...] non solo era giovanissimo, ma anche dotato di un carattere poco incline alla politica, perciò non gli dispiacque per nulla delegare ad altri quelle noiose cure».
Francesco, che scelse di trascorrere molti mesi all'anno nel lussuoso palazzo di Sassuolo, lasciò subito intendere che non avrebbe proseguito la rigorosa politica della madre. Dalle critiche parole del Muratori apprendiamo che sin dai primi anni del suo governo «cominciarono ad essere frequenti i divertimenti delle Commedie, delle Opere e de gli Oratori in Musica», per non parlare delle «corse de i Cavalli, le Quintanate, le corse all'Anello, le Caccie, le Feste da ballo, le Mascherate e Slittate di Carnovale».
A destare scandalo nelle corti europee era però principalmente l'ingombrante figura di Cesare Ignazio, giudicato, soprattutto da Luigi XIV – che lo reputava responsabile di un certo raffreddamento dei rapporti franco-estensi –, uno scaltro opportunista. In realtà, la necessità da parte del ducato estense di intavolare trattative per nuove alleanze non era un'invenzione frutto dei capricci del generale in capo di Francesco II: a parte il mancato appoggio francese alla concessione della porpora cardinalizia a Rinaldo (ultimo figlio di Francesco I), fu la questione di Guastalla a compromettere drasticamente i rapporti tra Modena e Parigi. Nel 1678 il duca di Guastalla Ferrante III Gonzaga era morto senza eredi, aprendo una crisi di successione che vide direttamente coinvolti gli Este, dal momento che moglie di Ferrante era Margherita, sorella di Francesco I. Anche in quella circostanza, tuttavia, venne meno l'indispensabile sostegno francese, col risultato che Guastalla fu incamerata dallo Stato mantovano, che in tal modo si impadronì di un territorio strategico ai confini del ducato estense. Per Modena si trattò di un'amara beffa.
Se però era del tutto evidente che sull'alleanza con Parigi non sarebbe stato più possibile fare assoluto affidamento, nondimeno la corte estense era altrettanto consapevole di non avere la forza per abbandonare la prudente e ormai consolidata politica del compromesso. Tanto più che la situazione economica non era certo delle migliori (si rese addirittura necessario in quegli anni un provvedimento per limitare il diritto d'espatrio, visto l'allarmante incremento dell'emigrazione), la produzione agricola risultava insufficiente e la tutela dell'ordine pubblico era ostacolata da un vertiginoso aumento di furti, rapine e omicidi.
Francesco probabilmente non era la persona più indicata per far fronte a simili condizioni: tuttavia sarebbe un errore prendere a pretesto la sua scarsa predisposizione per la politica per delineare il ritratto di un sovrano inetto, totalmente succube del cugino. Il duca fu infatti un uomo di cultura, che si prodigò per proseguire l'opera di abbellimento della capitale, arricchì le collezioni di opere d'arte, favorì lo sviluppo delle lettere e della musica, riorganizzò la Biblioteca Estense e, soprattutto, elevò lo Studio di Modena (risalente, secondo la tradizione, al 1175) ad Università, approvandone gli statuti con un decreto datato 9 giugno 1685.
Purtroppo per lui, però, queste nobili e lungimiranti iniziative a tutto servirono tranne che a stabilizzare i rapporti con la Francia, alleato sempre più ingombrante e prevaricatore. Re Luigi, infatti, non si limitava più ormai ad imporre le proprie direttive politiche, ma pretendeva addirittura di interferire nelle relazioni diplomatiche, come quando, ha scritto Luciano Chiappini, «fece sapere, in tono sostanzialmente perentorio, di non gradire l'invio da parte modenese di una missione a Madrid intesa a recare le felicitazioni di quella corte per le nozze di Carlo II di Spagna con Maria Luisa d'Orleans».
La rottura con la Francia parve infine inevitabile allorché, nel 1684, Emanuele Filiberto di Savoia Carignano (unico erede del duca Vittorio Amedeo II) sposò Angela Maria Caterina d'Este (sorella di Cesare Ignazio), contro la volontà del Re Sole. Questi, che puntava evidentemente ad intromettersi nella successione, andò su tutte le furie e intimò di sciogliere il matrimonio, minacciando persino di inviare un'armata ad occupare Torino. Le proteste di Parigi non furono ad ogni modo ascoltate – col pretesto che i teologi di casa Savoia avevano dichiarata valida, e pertanto indissolubile, l'unione –, anche se, per rimediare all'offesa arrecata al più potente sovrano d'Europa, Francesco II – al pari di quanto fece precauzionalmente Vittorio Amedeo con gli sposi – dovette cedere alle richieste di allontanamento da corte di Cesare Ignazio, che accettò di ritirarsi a Faenza. Sarebbe rientrato a Modena, accolto a braccia aperte dal duca, appena un anno dopo.
La lite per il matrimonio tra Angela Maria Caterina ed Emanuele Filiberto compromise definitivamente i rapporti tra Modena e Versailles, col risultato che gli Este sarebbero presto entrati nell'orbita asburgica. Nell'immediato, fu la rivoluzione inglese – con la cacciata di Giacomo II Stuart e della moglie Maria Beatrice – a bloccare una revisione formale delle alleanze, dal momento che i vincoli familiari impedivano a Francesco di voltare la spalle all'unica potenza in grado di offrire ospitalità e protezione alla sorella in esilio. Rispetto alle guerre che imperversavano in Europa per contrastare la politica di espansione di Luigi XIV, il duca estense mantenne un atteggiamento di rigorosa neutralità, costringendo per esempio lo zio Rinaldo (che nel 1686 era divenuto cardinale per intercessione degli Stuart) a rifiutare il prestigioso incarico di Protettore di Francia presso la Santa Sede.
Egli tuttavia non poté evitare di accogliere nel ducato alcuni reggimenti asburgici e di versare ingenti contributi all'Impero, di cui era pur sempre feudatario. Infiacchito da una politica sempre più avara di soddisfazioni, infermo e turbato dall'esilio di Maria Beatrice, Francesco morì appena trentaquattrenne il 6 settembre 1694, stroncato da un attacco di gotta. Solo due anni prima aveva sposato Maria Farnese, figlia del duca Ranuccio II, dalla quale non aveva avuto eredi. Per volontà testamentaria dello stesso Francesco la successione fu raccolta dal cardinal Rinaldo.

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lunedì 16 settembre 2013

Passeggiata per le strade di Fanano, gioiello artistico incastonato tra i monti

(articolo apparso su Prima Pagina del 15 settembre 2013)
 
Quello che Donatella Swift – milanese, insegnante di materie letterarie nelle scuole superiori – ha da poco dato alle stampe per i tipi de Il Fiorino è un agile volumetto che alla ricostruzione delle principali tappe della storia di Fanano intreccia ricordi personali e descrizioni di luoghi, edifici e tradizioni. Poste a corredo delle poco più di settanta pagine, numerose fotografie d'epoca offrono una suggestiva espressione figurativa di quei petali di storia cui allude il titolo.
Fanano è un Comune dell'Alto Frignano i cui confini si estendono fino a comprendere – a mo' di fetta di una torta – una porzione della vetta del monte Cimone, incontrastato dominatore, dall'alto dei suoi 2165 metri, dell'intero Appennino modenese. Sulle origini del toponimo, documentato a partire dall'VIII secolo, le ipotesi sono molteplici, anche se è probabile che esso derivi dalla parola «Fannianus», riconducibile ad un nome proprio di persona o interpretabile come prediale (cioè derivato dal nome di un fondo rustico) di «Fannius». Quanto alla data di fondazione, non si hanno certezze: tuttavia la maggior parte degli studiosi è oramai concorde nell'individuare presso la località di Fanano antichi insediamenti di etruschi, liguri e romani. In sostanza, rileva l'autrice, «l'unico dato che sembra essere abbastanza assodato è che Fanano rimase autonoma fino a quando non arrivarono in zona i Longobardi».
A partire dall'VIII secolo le notizie si fanno più precise. Per sommi capi, Donatella Swift ripercorre la storia di Fanano, soffermandosi su alcuni episodi significativi. Il primo risale al 749, anno in cui re Astolfo donò il territorio del paese ad Anselmo (poi santo), duca del Friuli, il quale vi fondò in seguito un Monastero, un Ospizio benedettino e la Pieve di San Silvestro. Successivamente il monastero passò alle dipendenze dell'Abbazia di Nonantola (anch'essa fondata da Anselmo), per poi subire un progressivo declino – certificato dalla  scomparsa dai documenti ufficiali – che si protrasse fino agli anni trenta del XIV secolo.
Dagli scontri tra guelfi e ghibellini, passando attraverso il periodo della sottomissione alla casa d'Este, la narrazione compie un lungo salto fino ai tempi recenti delle due guerre mondiali. Nella seconda, in particolare, trovandosi a ridosso della Linea Gotica, Fanano pagò un alto prezzo in termini di vite umane, come ricordano le stele e i cippi disseminati «lungo la strada che porta a Sestola e la Porrettana».
Oggi il paese, che ha tratto enorme beneficio dalla via Fondovalle, è un'importante meta turistica, «piccolo isolotto configurato come un centro medioevale in mezzo alle montagne circostanti». Tra le sue diverse attrazioni, la Swift ricorda nello specifico quella del cosiddetto Presepe Vivente, risalente al 2010: si tratta di «una kermesse che consente di visitare anche luoghi privati spesso inaccessibili e che vede la partecipazione attiva di decine di figuranti in costume d'epoca».
La parte centrale del volume si sofferma sugli edifici e sui luoghi storici del paese, alternando descrizione e ricordo personale. I brevi capitoletti formano di fatto un'interessante guida turistica, con la quale l'autrice intende condurre mano nella mano il lettore alla scoperta di Fanano.
L'ideale passeggiata comincia dalla cosiddetta Torre del Poggiolo – parte del vecchio Castello di Fanano fatta spianare dal duca Alfonso I  (al fine di sopire aspre rivalità tra fazioni) e poi ricostruita verso la metà del XVI secolo – e dalla Torre Ottonelli, «che un tempo ospitava anche la campana della comunità».
Passo successivo, il Monastero e la Chiesa di Santa Chiara, fatti costruire a fine Cinquecento da Ottonello Ottonelli. Agli inizi del Novecento l'intera struttura conventuale fu seriamente danneggiata da una forte scossa di terremoto: occorsero circa sette anni per la ristrutturazione, che fu completata nel 1928. Il monastero, ricorda l'autrice evocando l'infanzia, «era famoso per l'abilità con cui le monache tessevano trine», ricamavano ed eseguivano rammendi, al punto che «nelle loro mani gli indumenti rovinati e sicuramente destinati ad essere buttati divenivano come nuovi».
Proseguendo il cammino scendendo dalla piazzetta del Poggiolo si incontra la Chiesa di San Giuseppe (anch'essa eretta per volontà dell'Ottonelli), nella quale è «possibile ammirare bellissime ancone in legno che incorniciano bellissimi capolavori», come il Martirio di Santa Caterina di Lorenzo Gennari, collaboratore del Guercino.
Segue Palazzo Lardi, «una delle bellezze architettoniche più importanti del luogo», anticamente destinato a sede del corpo di fanteria. A lato dell'edificio, celebre per aver ospitato Cosimo il Vecchio de' Medici («esiliato a Venezia dai suoi rivali», come si legge su una lapide di marmo a ricordo dell'avvenimento) e i papi Eugenio IV e Leone X, spicca la Torre dell'Orologio, il cui meccanismo è tuttora caricato manualmente.
Dai punti di ritrovo di Piazza Corsini e Piazza della Vittoria – dove nel 1925 fu solennemente inaugurato il monumento ai caduti della Grande Guerra, opera dello scultore pistoiese Pasquali – si giunge poi alla Pieve di San Silvestro, altro edificio simbolo di Fanano, fondato da Sant'Anselmo. Distrutta da un incendio agli inizi del Seicento, la chiesa subì una riformulazione della pianta che portò all'inversione della facciata dal lato ovest al lato est. L'interno, a tre navate, è impreziosito da tredici cappelle «volute dalle più importanti famiglie fananesi», entro le quali si conservano pregevoli dipinti di artisti veneti, toscani ed emiliani.
Poco distante dalla pieve è situata Villa Monari-Severi, risalente, come riporta un'iscrizione sulla facciata, al 1666. Curiosamente, accanto alla lapide con l'anno di costruzione spicca una citazione latina tratta dal Bellum Iugurthinum di Sallustio: «Concordia parvae res crescunt, discordia maximae dilabuntur» (ovvero, nell'armonia le piccole cose crescono, nella discordia anche le più grandi si dissolvono).
Imboccando via Pedrocchi, «un po' il salotto buono di fananesi e non», si incontrano due edifici che offrono «una testimonianza tangibile del fatto che Fanano nel periodo rinascimentale e nella successiva età barocca godeva di uno status economico e sociale di tutto rispetto»: si tratta di Palazzo Monari e di Palazzo Coppi, situati l'uno di fronte all'altro. Il primo, eretto nel XVI secolo, presenta una caratteristica facciata costituita da un semplice paramento murario in pietre locali; il secondo, risalente al secolo successivo, si distingue essenzialmente per il portale principale decentrato e le finestre che, dotate di «un'ampia piattabanda sull'architrave sostenuta da mensole sagomate in funzione di edicola», ornano la facciata con un effetto chiaroscurale.
Giunti quasi al termine del percorso, restano ancora da ammirare la Chiesa di San Colombano – probabilmente la prima chiesa cristiana di Fanano, costruita nel VII secolo e restaurata tra 1588 e 1602 –, il Convento delle Cappuccine – poco distante dalla chiesa parrocchiale di San Silvestro, edificato alla fine del XVII secolo – e l'Oratorio della Madonna del Ponte – costruito a fine Cinquecento e completamente restaurato nel 1650 dalla famiglia Ottonelli.
Le ultime pagine del volumetto si soffermano sulle chiese di Lotta, frazione di Fanano, e, per finire, sulla Chiesa di San Francesco: essa è situata nel luogo dove un tempo sorgeva un convento francescano (poi soppresso per volontà del duca Francesco III d'Este), e merita menzione soprattutto per il porticato seicentesco, retto da eleganti colonne ioniche.

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Fidelitati et constantiae in adversis: l'esempio della Brigata Estense

(articolo apparso su Prima Pagina del 1° settembre 2013)

Introduzione di Luigi Malavasi Pignatti Morano

 

Sui banchi di scuola a tutti gli studenti italiani viene insegnato che la seconda guerra d'indipendenza fu una sorta di cavalcata trionfale, rallentata solo provvisoriamente dal tradimento francese di Villafranca. Tutto filò liscio insomma, con i vecchi sovrani costretti ad abbandonare i rispettivi troni, messi in fuga da un'ondata inarrestabile di insurrezioni filosabaude. Dulcis in fundo, la grande partecipazione popolare con la quale venne suggellato il nuovo regime attraverso i cosiddetti plebisciti, eredità del periodo napoleonico. 
Ovviamente – lo capirebbe anche un bambino – una ricostruzione di questo tipo è fuorviante e parecchio reticente. Prendiamo il caso del Ducato di Modena. Possibile che esso si sia sciolto come neve al sole, senza un accenno di resistenza, dopo secoli di governo estense? Realmente possiamo ancora credere che l'opinione pubblica fosse compattamente disposta ad accogliere come liberatori i franco-piemontesi? In gioco, si badi, non c'è l'eredità storica del Risorgimento, che oggi, trascorsi oltre 150 anni, non ha molto senso mettere in discussione. Un'Italia divisa in Stati regionali non è riproponibile nel 2013. Ciò che però bisogna a tutti i costi recuperare è la serietà, l'onestà di riconoscere che non si può piegare la ricostruzione storica alle esigenze dell'ideologia. Raccontare il Risorgimento come un'epopea senza ombre è, oltre che sbagliato, profondamente controproducente, poiché la menzogna da sempre alimenta la volontà di rivalsa degli sconfitti. Se non si ha paura di rivendicare l'eredità del Risorgimento, non si tema neanche né di ammettere gli errori commessi dalla classe dirigente del Regno di Sardegna, né di riconoscere (e di raccontare) il valore mostrato dai suoi avversari.
Al riguardo, una vicenda singolare fu senza dubbio quella che ebbe per protagonista la cosiddetta Brigata Estense, come vennero chiamate le truppe che seguirono volontariamente il duca Francesco V sulla via dell'esilio nel Lombardo-Veneto austriaco. In tutto circa 3600 soldati che, unicamente per sincera devozione, abbandonarono Modena l'11 giugno 1859 per non venir meno al giuramento di fedeltà prestato al loro sovrano. A nulla valsero le lusinghe (come gli avanzamenti di carriera prospettati dal dittatore Farini a quanti avessero disertato per confluire nell'esercito sabaudo) e le intimidazioni dei piemontesi: solo pochi uomini cedettero e accettarono di rientrare in patria, ma, nel complesso, il numero degli effettivi della Brigata aumentò per il costante afflusso di giovani volontari.
Identico esito ebbe il decreto di amnistia emanato da Vittorio Emanuele II il 21 settembre 1862, che minacciava la confisca dei beni e la perdita dei diritti civili e politici a quanti non avessero fatto ritorno nel territorio del Regno d'Italia entro sei mesi: in tutto abbandonarono Francesco V solo 12 ufficiali e circa 160 soldati, nonostante il duca, per risparmiare inutili sacrifici ai suoi uomini, avesse autorizzato il congedo.
Lo scioglimento della Brigata avvenne solo su sentenza dell'Imperatore, datata 14 agosto 1863, quando ormai era chiaro che, con l'Unità d'Italia, Francesco V non sarebbe mai rientrato in possesso del suo Stato. A Cartigliano Veneto, il 24 settembre, tutti i soldati vennero decorati con una medaglia recante su un lato la scritta Fidelitati et constantiae in adversis. Molti di loro scelsero di prendere servizio nell'esercito imperiale austriaco.

 

                                                                                                              

L'accusa di Riccardo Bertoncelli

 

«La Brigata ha preferito rimanere legata al mondo che tramontava»

 

Nel giugno del 1859 i soldati della Brigata Estense anziché festeggiare per l'unità nazionale che si andava costruendo prendevano la via dell'esilio insieme al loro sovrano Francesco V. Reputo la loro decisione sbagliata perché antistorica e contraria agli interessi dell'Italia.
Questa mia profonda convinzione pure non mi impedisce di criticare l'atteggiamento tenuto dalla storiografia ufficiale italiana di fronte a episodi simili. Ha preferito nascondere i fatti che non si accordavano con il mito risorgimentale piuttosto che ammetterli, spiegarli e quindi "neutralizzarli". E così oggi quei fatti stanno tornando a galla e assumono il fascino che sempre circonda gli sconfitti "belli e dannati".
Si sarebbe dovuto dire la verità e spiegare che, in occasione degli accadimenti che hanno fatto progredire la storia, c'è sempre stato chi ha preferito guardare al passato e rimanere legato al mondo che tramontava. E tramontare con esso. E che questo tuttavia non sminuisce la portata dei grandi eventi.
I soldati della Brigata Estense hanno sbagliato perché hanno preferito rimanere legati a una piccola patria piuttosto che gettarsi tra le braccia di una Patria più grande.
Mi rendo conto dei rischi che corro parlando di Patria. L'accusa di fascismo è sempre dietro l'angolo. In fondo la politica ha recuperato un po' di nazionalismo solo di recente, ma lo pratica con poca convinzione e ancor meno credibilità, in maniera strumentale contro le risorgenti spinte centrifughe. E la cosa è spiegabile tenendo presente le due tradizioni maggioritarie alle quali questa politica si rifà.
Da una parte quella comunista, il cui leader maximo, Palmiro Togliatti, definiva il patriottismo "cosa da mandolinari"; dall'altra quella democristiana di un De Gasperi che non si faceva scrupolo, durante la guerra, di chiedere allo straniero americano di bombardare la patria capitale Roma. E quando Giovannino Guareschi, lui sì vero patriota, portò alla luce lo scandalo, il "grande statista" con l'aiuto di una magistratura compiacente lo fece finire nelle galere, pur sempre patrie.
Entrambe queste tradizioni non hanno mai avuto un buon rapporto con il Risorgimento, dal momento che il loro acerrimo nemico, il Fascismo, col Risorgimento si è posto in entusiastica continuità e anzi ne ha rivendicato un ruolo conclusivo e culminante.
Nonostante questi alti, bassi e usi "impropri", continuo a pensare che il Risorgimento sia stato un momento esaltante della storia nazionale. Certo, deve essere purificato da una retorica eccessiva che a volte lo ridicolizza, e si deve liberare di quei personaggi del mondo della cultura, delle università e della politica che lo cavalcano per interesse personale ma non lo conoscono, non lo stimano e ne offuscano con la loro sola presenza la dimensione eroica.
Ma il Risorgimento rimane l'origine di un'Italia finalmente unita e, per un breve periodo, anche indipendente.
Quindi bisogna avere umano rispetto per chi ha fatto scelte diverse, ma essere nello stesso tempo irremovibili nel definire quelle scelte "sbagliate". Questo non vuol dire che gli autori di quelle scelte debbano essere dimenticati.

 

 

La difesa di Elena Bianchini Braglia

 

«L'Italia e gli italiani hanno bisogno di esempi come questo»

 

Al termine della sua storia di Capitale, Modena offrì un commovente esempio, oggi quasi dimenticato, di coraggio, coerenza e fedeltà.
L'11 giugno 1859 il Duca lasciava la città per l'incalzare dell'attacco franco-piemontese. Non sarebbe più tornato, e Modena di lì a poco sarebbe entrata a far parte di un nuovo regno, poi dell'Italia unita.
Francesco V però non se ne andava da solo. Lo seguivano le sue truppe. Oltre tremila soldati lasciavano beni e famiglia per tener fede al giuramento prestato, offrendo un esempio straordinario che meravigliò anche i più accesi antiduchisti. Chi voleva far credere che l'allontanamento dei sovrani avvenisse per volontà popolare ebbe nella vicenda delle truppe estensi un'incontestabile smentita: «Se ancor si rifletta che a ciò non furono né violentate né costrette, ma vi si condussero con spontaneo entusiasmo, non si può non scorgere in questa loro abnegazione un plebiscito solenne, assai più splendido e spontaneo di quanti ebbero in seguito a porsi in scena con menzognero prestigio» scriveva il ministro Teodoro Bayard de Volo.
La paga in quei periodi difficili non poteva essere alta e il futuro era incerto. Eppure i soldati non solo rimasero accanto al Duca, ma non si lasciarono nemmeno tentare da allettamenti e minacce del governo piemontese. Accettarono di smobilitare solo quando a ordinarlo fu l'Imperatore. Il 24 settembre 1863 a Cartigliano Veneto si consumò la cerimonia dello scioglimento. Dopo anni di sacrifici i soldati salutavano fra le lacrime Francesco V, e venivano decorati con la medaglia Fidelitati et costantiae in adversis.
Il Giornale della Reale Ducale Brigata Estense, che riportava in una sorta di diario tutte le vicende dei coraggiosi soldati in esilio, terminava così la sua narrazione: «Col 1° ottobre l'esistenza della Reale Brigata Estense era purtroppo di fatto del tutto cessata. Essa soggiacque vittima del turbine rivoluzionario. La sventura fu immensamente grande, ma… l'onore era salvo. Sì, era salvo l'onore; tutti, anche negli ultimi e ben disastrosi e difficilissimi momenti dell'esistenza della Brigata, fecero a gara per mantenervelo. Come onorato e senza macchia si ripiegò il nostro vessillo, onorata e senza macchia si chiude l'esistenza della truppa estense».
Al di là delle prese di posizione di parte, è innegabile che uomini capaci di affrontare sacrifici, di andare contro ogni interesse personale e materiale per tener fede a un ideale andrebbero ricordati con orgoglio. L'Italia e gli italiani hanno bisogno di esempi come questo, che invece sono stati sacrificati a una sterile retorica. E questo dovrebbe farci riflettere, anche perché all'epoca la vicenda della Brigata Estense non passò inosservata. Odiata e temuta dagli avversari, lodata dai più, ebbe vasta eco anche all'estero. Mentre i soldati si consolavano delle loro sventure col pensiero che la storia avrebbe certamente celebrato il loro esempio e il loro sacrificio, il giornale parigino Union scriveva che la vicenda della Brigata Estense sarebbe stata in futuro ricordata «da tutti gli uomini di cuore, da tutti gli uomini d'onore». Il problema che ora si pone è: gli italiani di oggi sono, o vogliono essere, uomini di cuore e di onore?

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«Patirò volentieri con Cristo»: il processo inquisitoriale di Baldassarre Fini

(articolo apparso su Prima Pagina del 25 agosto 2013)

L’edizione del 2001 della rivista Rassegna frignanese, curata dall’Accademia dello Scoltenna, contiene un interessante intervento del professor Armeno Fontana avente per oggetto il processo inquisitoriale che, tra 1598 e 1601, vide imputato tal Baldassarre Fini di Groppo, «persona facoltosa, professore, avvocato». L’Inquisizione romana, ovvero la cosiddetta Congregazione del Sant’Uffizio istituita da Paolo III nel 1542 nel quadro generale della Controriforma, costituiva un potente strumento che, al fine di reprimere l’eresia, esercitava di fatto un ferreo controllo della vita e della cultura del tempo. In un contesto sociale fortemente condizionato dalla religione, essere torchiati dall’Inquisitore non era certo un’esperienza che lasciasse indifferenti. Anche per questo, quindi, seguire da vicino una vicenda specifica come quella di Baldassarre Fini consente – più di quanto non sia possibile fare attraverso una asettica e generale descrizione del periodo – di aprire una finestra sul passato.
Tutto ebbe inizio il 21 aprile 1598, quando il Rettore della Chiesa di S. Pietro di Groppo, don Gio. Battista Fini, si recò dall’Inquisitore di Modena per denunciare il suo parrocchiano Baldassarre Fini, il cui comportamento destava scandalo tra i fedeli del piccolo paese. Questi infatti, secondo diverse testimonianze, aveva parecchie cose da farsi perdonare: ospitava una concubina, dalla quale aveva avuto due figli; prestava denaro a interessi elevati, da usuraio, con la scusa di essere a sua volta in debito con un imprecisato ebreo; nutriva scarso rispetto per i ministri di Dio e si prodigava addirittura per dissuadere i parrocchiani dall’elargire elemosine.
Di fronte a una siffatta congerie di accuse, all’Inquisitore non restò che avviare una minuziosa indagine. Vennero così raccolte e trascritte numerose testimonianze, a partire ovviamente da quella del primo accusatore, il Rettore di Groppo. Tutti gli interrogati insistettero in particolare su un aspetto: Baldassarre usava la sua autorità di uomo di lettere per approfittarsi delle persone di umile condizione, le quali, pur vittime di strozzinaggio, non osavano reagire temendo ripercussioni. Ma, più in generale, «l’Inquisitore, il suo Vicario o un suo delegato – scrive Fontana – non si lasciano sfuggire nulla: la stessa persona viene più volte interrogata, in tempi diversi, e le domande sono sempre quelle e il notaio verbalizzante le riporta scrupolosamente con le risposte date: usura, concubinato, inosservanza del divieto di mangiare carne e latticini nei giorni e nei tempi prescritti dalla Chiesa, comportamento riprovevole in chiesa, disprezzo per i preti e i religiosi».
Il 16 ottobre 1598 fu la volta di Baldassarre. L’imputato dichiarò di essersi trasferito a Sestola tre anni prima e di avere lasciato a Groppo la moglie Lorenza: motivo dell’abbandono del tetto coniugale era stata la volontà di difendersi dalle persone che continuamente minacciavano la sua “roba”. Parlò poi del rapporto con Jacoma (la concubina, originaria di Riolunato), ribadendo quanto già in passato era stato costretto a spiegare al vescovo: e cioè «che havendo la moglie sterile et [essendo] desideroso di prole acciocché hereditasse le non poche facultade et anco acciò che nella mia vecchiezza havessi chi mi sollevasse, m’indussi a congiungermi con detta donna». Ricevuto però l’ordine del vescovo di separarsi da lei, Baldassarre affermò di non averla più «toccata carnalmente né in altro modo».
Quanto alle altre accuse, il Fini respinse tutti gli addebiti. Si dichiarò buon cristiano, rispettoso dei precetti; negò di essere in possesso di libri proibiti e precisò di non aver esitato a bruciare gli Adagia di Erasmo da Rotterdam dopo che il vescovo di Reggio aveva rifiutato di concedergli il permesso di leggerli.
Acquisita la testimonianza dell’imputato, l’Inquisitore volle ascoltare altri pareri. Ovviamente, man mano che si procedeva con l’indagine, i verbali si arricchirono di nomi e versioni. Un punto su cui molti degli interrogati insistettero fu il consumo di carne e latticini nei giorni proibiti: «O Signore Iddio – si legge in una deposizione –, noi che siamo poveretti e non habbiamo per il nostro vivere se non castagnacci e acqua, facciamo la quadragesima e quelli di ms. B. F. che hanno di tutti li beni e modo di farla non la fanno».
Una certa impressione dovette destare nell’Inquisitore la testimonianza di tal Segnarino, un pover’uomo di Groppo, cui Baldassarre, a proposito del denaro destinato all’elemosina, avrebbe rivolto questo accalorato consiglio: «O coglione, faresti meglio darlo a mangiare ai tuoi figlioli!».
Altra grave accusa, infine, fu quella relativa al possesso di un “breve”, ovvero un talismano dotato di presunti poteri magici.
Un simile impianto accusatorio convinse l’Inquisitore della necessità di inviare il suo vicario a Groppo e Riolunato per proseguire più da vicino le indagini. Furono così acquisite nuove deposizioni, tutte sfavorevoli al Fini. Raccolti pareri e testimonianze in numero sufficiente, il 26 aprile 1599 il vicario fece ritorno a Modena: aveva trascorso in Appennino quasi due mesi.
A questo punto la macchina del Sant’Uffizio parve fermarsi, finché il 9 marzo 1601 Baldassarre Fini non fu nuovamente convocato a Modena per fornire la sua versione al cospetto dell’Inquisitore generale. A partire da quel giorno fino alla sua tragica fine, l’imputato frignanese sarebbe rimasto prigioniero o sotto stretta sorveglianza, sostenendo diversi interrogatori (talvolta di più giorni ciascuno). Durante quello del 9 marzo egli ribadì quanto detto tre anni prima, soffermandosi in particolare sulle minacce ricevute da molti suoi debitori intenzionati a non pagare.
Il secondo interrogatorio (che ebbe inizio il 21 marzo) affrontò le questioni inerenti il mancato rispetto dei precetti e la relazione con la concubina. Ancora una volta, Fini respinse ogni accusa: ma era chiaro, come rileva Fontana, che il processo stava trasformandosi in «un confronto serrato tra l’Inquisitore che vuole credere ai testimoni e l’inquisito che si difende sostenendo la tesi della congiura contro di lui di chi gli vuol male». In altre parole, il gran numero di testimonianze a suo sfavore rendeva giorno dopo giorno più precaria la posizione di Baldassarre.
Concluso l’interrogatorio, l’imputato fu lasciato libero di tornare a casa. In Appennino giunse però anche il vicario dell’Inquisitore, incaricato di acquisire nuove deposizioni. Una di queste, in particolare, aggravò la posizione del Fini. Proveniva dalla bocca di don Giacomo Stefani, Rettore di Roccapelago: «Quel che è peggio, alcune mie pecore che sono sotto il mio governo, temo che non si vadino appestando di questa sua maledetta peste, imparando questo suo modo di far usura. Onde in coscientia dico che sarebbe opera di carità grande che il M. R. Inquisitore lo facesse stare perpetuamente in carcere, acciò non ammorbasse gl’altri».
Parole analoghe furono pronunciate dal Parroco di Riolunato, che evocò anche presunte protezioni di cui si sospettava che il Fini godesse presso la corte ducale (egli aveva infatti svolto alcune mansioni all’estero su incarico di Alfonso II). La politica fu poi tirata in ballo anche dal Rettore di Groppo, che riportò alcune frasi ingiuriose pronunciate dall’inquisito contro la Chiesa in merito alla questione della Devoluzione di Ferrara del 1598 («Non vi havevano raggione alcuna – avrebbe detto il Fini a proposito dei preti e della Santa Sede –, ma se havessero havuto a fare con me, li havrei ben fatto stare io»).
Tutte queste testimonianze rendevano di fatto a dir poco precaria la posizione di Baldassarre, che non poté giovarsi nemmeno del parere favorevole della moglie, la quale dichiarò di non nutrire dubbi sulle qualità di buon cristiano del marito. Ma le dichiarazioni contrarie all’imputato erano troppo numerose per essere ignorate dall’Inquisitore. Tanto più che andavano persino diffondendosi voci di contatti del Fini col diavolo.
Riprese così il processo. Gli interrogatori si fecero sempre più pressanti, ma Baldassarre non pareva disposto a cedere e negava ostinatamente ogni accusa. Il 29 maggio, evidentemente stremato, ebbe uno scatto d’orgoglio: «Potete pormi in prigione e in ceppi e in catene che io non dirò mai altramente e patirò volentieri la morte per sostenere questa verità, e patirò volentieri con Cristo». Ma qualunque cosa dicesse, l’Inquisitore aveva buon gioco a ripetergli le testimonianze che lo condannavano.
Le ultime contraddizioni sorsero in merito alle questioni dogmatiche legate all’Eucarestia. Al riguardo, l’ultima dichiarazione del Fini, il 7 giugno 1601, fu la seguente: «Io credo che Iddio sii in quello Sacramento […] e in tutte le ostie consacrate […] et di più io intendo che spezzata l’hostia consacrata in mille parti […] vi sia intieramente in ogni parte il corpo di Cristo, rimettendomi alla decisione della Chiesa, che il suo intendere voglio che sia il mio». Ma la pressione, unita alla volontà di non farsi estorcere alcuna confessione, dovette risultare insostenibile. Tre giorni dopo, prima che fosse emessa la sentenza del Tribunale dell’Inquisizione, Baldassarre Fini si tolse la vita.

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La genesi del male nel triangolo della morte

(articolo apparso su Prima Pagina del 18 agosto 2013)

«Il diavolo è un ottimista, se pensa di poter peggiorare gli uomini, ironizzava Karl Kraus. Infatti […] nelle situazioni di tensione e di crisi la sottile patina di civiltà dell’essere umano viene spazzata via con grande facilità, facendo riaffiorare i più brutali comportamenti primordiali. E dopo la Liberazione, si era verificato un incremento esponenziale dei delitti di “inerzia bellica”».
Con queste parole Enzo Antonio Cicchino e Roberto Olivo – autori di Correva l’anno della vendetta, recente libro che, con un occhio di riguardo per le stragi di Schio e Oderzo, indaga su numerosi eccidi perpetrati nell’immediato dopoguerra – introducono il capitolo riguardante il cosiddetto “triangolo della morte”. L’espressione, negli anni consolidatasi come definizione di un’ampia porzione di territorio emiliano teatro di efferate vendette postbelliche, costituisce un’efficace immagine giornalistica coniata da Enzo Biagi e Lamberto Sechi, i quali inizialmente intendevano con essa riferirsi ad un preciso «fazzoletto di terra, di circa 6 chilometri di lato, con tre vertici geografici: il Comune di Castelfranco Emilia e due sue frazioni, Manzolino e Piumazzo». Entro quest’area, tra il 1945 e il 1948, si registrò «il più alto tasso di violenza di tutto il Nord». Per avere un’idea, solo nel Modenese i morti furono circa 900. Molti sparirono nel nulla, tanto che in Emilia – raccontano gli autori – circolava in quegli anni una macabra battuta: «Non mettere la mano per terra: potrebbe morderti».
L’aspetto più interessante del libro di Cicchino e Olivo non è però la ricostruzione dei fatti di sangue, per la quale, del resto, è sufficiente ricorrere ad una bibliografia fortunatamente sempre più rigorosa, oltre che in espansione. Ciò che rende meritorio il volume è lo studio degli aspetti psicologici (individuali e di massa) che portarono non solo a tollerare, bensì a considerare inevitabili, e quindi legittime, violenze indicibili. L’ambizioso obiettivo degli autori è pertanto quello di spiegare (cosa ben diversa dal raccontare) il male, con l’intento di piegare la ragione a meditare sulla genesi di comportamenti che, in quanto disumani, possono facilmente apparire incomprensibili.
Come prima considerazione è bene tener conto del «senso di estraneità allo Stato e alle istituzioni» che, dopo la Liberazione, favorì «la trasgressione e la disobbedienza civile». Il sentimento prevalente di un’ampia parte della popolazione nei confronti delle forze di polizia era infatti il disprezzo, motivato dalla reale o presunta collusione di queste ultime con le vecchie autorità naziste e repubblichine. Di fatto, almeno fino al 1946, «l’ordine pubblico continuò ad essere nelle mani della polizia partigiana», la quale, «spesso responsabile o complice […] dei delitti che avrebbe dovuto reprimere», non si faceva scrupolo di prelevare «le persone in casa, di notte, per interrogarle nelle sedi della polizia ausiliaria, sopprimendole con un colpo di rivoltella alla nuca, oppure facendole sparire nel nulla». Ogni remora era accantonata di fronte alla ferrea convinzione di agire per il trionfo della “giusta” causa.
Secondo quanto riporta lo psicanalista e psicologo Bert Hellinger, combattere all’interno di un gruppo che si sente minacciato da forze esterne (e che quindi considera perennemente a rischio la propria sopravvivenza) può far ritenere doverosa l’eliminazione fisica degli avversari. Tutto è subordinato alla “santità” della causa. In tal senso, argomentano Cicchino e Olivo, «non c’è molta differenza […] fra un cattolico e un comunista»: «Se un credente confida nel fatto che le sue sofferenze terrene verranno risarcite in Paradiso, la trascendenza comunista è rappresentata dal “sol dell’avvenire”, un radioso futuro in cui tutti saranno uguali, quindi felici». Ma per far sì che la società egualitaria non rimanesse soltanto un miraggio, occorreva prima combattere, senza preoccuparsi dei costi in vite umane.
A favorire la propensione alla violenza delle forze partigiane contribuì poi «l’enorme disponibilità di armi su tutto il territorio nazionale», che «produceva un pericoloso senso di onnipotenza». L’obiettivo era quello di trasformare la lotta di liberazione in rivoluzione proletaria, con la conseguenza che, battuti i tedeschi, l’avversario diveniva il nemico di classe. Ma, al di là dei progetti politici, spesso si ricorreva all’omicidio per motivi futili, per vendetta, o anche solo per questioni personali: per la resa dei conti, in sostanza, era sufficiente poco più di un pretesto. E il risultato fu che a perdere la vita furono anche molte persone che col fascismo non avevano avuto nulla a che fare.
Nel triangolo della morte la violenza divenne parte della routine quotidiana. Nel Modenese, infatti, «esistevano vere e proprie “squadre della morte”, che non andavano tanto per il sottile nell’ammazzare e seviziare collaborazionisti e presunte spie, con la tacita approvazione o il silenzio complice di non pochi dirigenti del PCI di Modena». Nell’Emilia di quel tempo non era perciò infrequente imbattersi in volantini di questo tenore: «Uccideremo e deporteremo tutti i borghesi. […] Compagni, dobbiamo vivere per distruggere: sulla distruzione completa del passato ricostruiremo la nuova Italia».
Come definire pertanto questo cieco fanatismo? Cicchino e Olivo suggeriscono un’interessante lettura degli eccidi postbellici: «Se la violenza è spesso perdita di senso, la violenza rivoluzionaria è un’eccessiva attribuzione di senso a idee prevalentemente insensate». Il concetto di violenza, infatti, non è univoco. Nessuno si sognerebbe di tacciare di violenza un esercito che si difende con le armi per respingere un invasore. A connotare un’azione come violenta, a ben vedere, non è quasi mai solo l’aspetto materiale e concreto di un dato comportamento, ma la motivazione che sta alla base dello stesso. Anche un caso limite come la tortura può diventare controverso: è lecito, per esempio, infliggere dolore a un prigioniero per estorcergli informazioni utili al fine di condurre a termine con successo un’operazione militare (che evidentemente si considera “giusta”)? Per molti comunisti del periodo post-Liberazione scrupoli al riguardo non ve n’erano. A fare la differenza erano infatti le motivazioni, gli obiettivi, la promessa che, seppur a caro prezzo, la “giustizia” sociale avrebbe infine trionfato: «Per quanto la violenza sia detestabile – puntualizzano gli autori –, si tende ad accettarla più facilmente quando s’ammanta d’ideale, trascendendo gli interessi individuali per diventare il mezzo con cui raggiungere un fine».
Nel clima infuocato del dopoguerra qualsiasi delitto, anche il più assurdo, poteva essere giustificato individuando pretestuosamente nella vittima un nemico di classe. Seguendo questa logica, il PCI – che pure con Togliatti tentò di correggere i comportamenti settari dei gruppi intransigenti del partito – «non solo non sconfessava ma addirittura proteggeva quelle frange di teppaglia armata che praticavano una violenza gratuita, priva di scopo, progetto o ideologia, nascondendo i loro delitti all’ombra della bandiera rossa, del materialismo storico e di fasulli ideali rivoluzionari».
L’aggressività delle bande armate – sempre a parere di Hellinger – trovava una spiegazione nel senso di appartenenza a un branco. Un senso di appartenenza «che trasforma la coscienza individuale in collettiva, producendo un insensato senso di superiorità che genera sentimenti aggressivi nei confronti degli altri, non più percepiti come persone ma solo come avversari». Il che forniva il pretesto per annientare l’avversario e, al contempo, appagare la coscienza con «la sensazione di essere buoni o migliori».
In questo modo, però, gli stessi concetti di bene e male assumevano un valore del tutto relativo: solo ciò che era bene per il branco costituiva un bene per l’individuo. Il risultato era che chi cercava «di sottrarsi alla pressione della massa per dedicarsi alla riflessione» correva inevitabilmente «il rischio che gli altri fanatici gli si rivolt[assero] contro, diventando un traditore della “buona coscienza” collettiva». E trasformandosi da carnefice in vittima.

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«Péra il vil che d’un despota il nome di servir con desio vi rammenta»: l’esperienza politica di Valentino Contri

(articolo apparso su Prima Pagina dell'11 agosto 2013)
 
Appartenente a una «delle più illustri e delle più rinomate famiglie della montagna modenese», Valentino Contri fu senza dubbio – come ha precisato il suo biografo Venceslao Santi – «il soggetto di questa famiglia che fece maggiormente parlare di sé, come quegli che ebbe parte principalissima nel diffondere, attivare e far prevalere nel Modenese le idee e la forma di governo predicate e propagate dalla grande rivoluzione francese».
Della sua vita prima del 1796 – l’anno di inizio della campagna d’Italia di Napoleone – non si conosce però quasi nulla, se non che nacque a Castello di Riolunato il 16 febbraio 1763, che, dopo avere abbracciato la carriera ecclesiastica, fu nominato canonico della collegiata di S. Maria della Pomposa a Modena e che, scelta insolita per un sacerdote, conseguì la laurea dottorale in medicina, precoce sintomo di una «propensione antitradizionalista» che avrebbe presto trovato espressione nell’adesione alle idee rivoluzionarie. Contri infatti subì immediatamente il fascino dei principi dell’89, al punto che – come ricordato da Santi – «prima ancora che fosse abbattuto il governo estense, [egli] non nascose le sue simpatie e le sue aspirazioni per la libertà, l’eguaglianza e la sovranità popolare». Il che trova puntuale conferma nelle parole di un’informazione segreta ordinata dal duca Ercole III poco prima che il Bonaparte entrasse trionfalmente a Milano, secondo la quale il Contri doveva ritenersi «inclinat[o] al giacobinismo».
Abile propagandista, nei mesi che precedettero la cacciata degli Este il sacerdote frignanese fu assiduo frequentatore, se non addirittura fondatore, di un club di dissidenti che si riuniva segretamente nottetempo in una camera dell’ospedale e dove «si facevano discorsi riguardanti la distruzione del governo monarchico e la formazione di una repubblica». Il 29 agosto del 1796 i membri del club organizzarono anche un’insurrezione, che tuttavia fallì per la dura reazione delle truppe fedeli al duca. Era però ormai evidente che il successo finale della rivoluzione non poteva più essere messo in discussione, come del resto aveva ben capito lo stesso Ercole III, il quale, allarmato dall’avanzata di Napoleone, aveva abbandonato Modena – lasciandovi un Consiglio di Reggenza – sin dal 7 maggio e si era affrettato a concludere un armistizio col generale corso. Esso imponeva tuttavia durissime condizioni, in particolare il versamento nelle casse francesi dell’imponente somma di 7,5 milioni di franchi; e quando fu chiaro che Ercole III non avrebbe mantenuto fede agli accordi, il Bonaparte non esitò a denunciare l’armistizio (4 ottobre) e a prendere «sotto la protezione dell’Armata Francese li Popoli di Modena, e di Reggio», dichiarando «nemico della Francia qualsivoglia attentasse alla proprietà, ed ai diritti di questi Popoli». Quattro giorni dopo la Reggenza fu soppressa: al suo posto fu insediata una municipalità repubblicana, mentre l’esecutivo, sotto l’egida della Repubblica Francese, fu affidato ad un Comitato di Governo di sette membri. Tra il 16 e il 18 ottobre circa cento deputati in rappresentanza di Modena, Reggio, Ferrara e Bologna deliberarono, per volontà di Napoleone, la fondazione della Confederazione Cispadana: iniziava così il cosiddetto triennio rivoluzionario.
Con la soppressione della Reggenza venne meno, per Contri e gli altri “clubisti”, l’obbligo della clandestinità. Essi pertanto – si legge nel racconto del Santi – «si costituirono in società, sotto il nome di Accademia di pubblica istruzione democratica»: presidente fu eletto, il 23 ottobre 1796, il canonico frignanese, che tenne un enfatico discorso inaugurale «inneggiante alle libertà conquistate ed al fermo proposito di difenderle anche col sangue contro ogni attentato». Pur nella brevità dell’esperienza – il Bonaparte, dopo averle inizialmente incoraggiate, volle presto sopprimere le società di pubblica istruzione, incompatibili con i suoi progetti autoritari –, l’attività dell’Accademia fu senza dubbio meritoria e significativa. Alle riunioni era infatti consentito a chiunque di intervenire, essendo lo scopo della società «ristretto a propagare i lumi […] e ad eccitare i sentimenti degni di un virtuoso repubblicano». Sentimenti che un inno composto su commissione dell’Accademia e dedicato alla «gioventù italiana dell’uno e dell’altro sesso» racchiudeva in pochi patriottici versi: «Péra il vil che d’un despota il nome / di servir con desio vi rammenta: / trucidate chi perfido tenta / ricondurci de’ ceppi all’orror. / Padre in figlio non trovi pietade, / se nemico alla patria si sveli. / Accorrete, imbrandite le spade, / Libertade v’appella a pugnar».
In questo clima di fervore rivoluzionario, il Contri fu uno dei protagonisti della vita politica modenese, al punto che fu scelto, insieme con Giovanni Bertolani, per rendere omaggio di persona a Napoleone in visita nell’ex capitale estense (8 maggio 1797). Eletto deputato di Modena al secondo Congresso cispadano, egli fece mozione per decretare «l’illimitata libertà di stampa», ma la proposta fu aggiornata per l’opposizione dei delegati bolognesi. In seguito entrò a far parte del comitato (due membri per provincia) incaricato di elaborare la costituzione della nuova repubblica, prodigandosi – scrive Carlo Capra – per favorire la «difesa delle soluzioni più democratiche contro l’accanita opposizione moderata». Tra le sue proposte spiccavano in particolare quella di istituire un dipartimento separato per l’Appennino modenese, sua terra natale, e quella di consentire l’eleggibilità degli ecclesiastici ai pubblici uffici. Tuttavia, prosegue Capra, «la sconfitta registrata su entrambi i fronti rese impossibile la prosecuzione della sua carriera politica», col risultato che da allora il Contri «concentrò le sue energie nell’impresa giornalistica da lui avviata all’indomani del rivolgimento del 6 ottobre, e alla quale è soprattutto legata la sua fama».
Il patriota frignanese, infatti, fu il direttore, nonché il principale compilatore, del Giornale repubblicano di pubblica istruzione – di fatto emanazione dell’Accademia –, probabilmente «uno dei migliori periodici italiani del triennio». Caratteristica fondamentale del foglio, rileva sempre Capra, era «la preoccupazione per la condizione delle campagne, l’insistenza sulla necessità di misure atte ad alleviare la miseria dei contadini». Entro la cornice politica della Repubblica Cispadana, il Giornale criticò sempre aspramente il comportamento delle autorità moderate, provocando sovente interventi repressivi da parte delle stesse e suscitando avversione nei confronti del direttore. Il quale, specie dopo l’emanazione di provvedimenti restrittivi della libertà di stampa in coincidenza con il passaggio alla Cisalpina, fu di fatto costretto a moderare i toni del suo periodico.
Nel frattempo, a partire dal gennaio del 1798 Contri fu sempre più assorbito dalle incombenze amministrative, che nella Cisalpina non erano più precluse agli ecclesiastici. Entrò infatti a far parte sia della commissione sorta allo scopo di organizzare la guardia nazionale di Modena – del cui Consiglio di sanità fu eletto membro in quanto medico –, sia dell’amministrazione centrale del dipartimento del Panaro. Quest’ultimo ufficio, ha notato il Santi, «quanto onorifico, altrettanto delicato e gravoso, […] determinò il Contri a rinunciare la compilazione del giornale a Gregorio Agnini e Luigi Tirelli». Ma il foglio repubblicano, che aveva accentuato l’opposizione contro gli indirizzi moderati ormai consolidati nella Cisalpina, fu soppresso nel maggio del 1798.
Il clima politico non più propriamente rivoluzionario non impedì, ad ogni modo, al Contri di intensificare il proprio impegno pubblico. Sempre nel maggio del 1798 il patriota frignanese sostituì per breve tempo il professor Michele Rosa nell’insegnamento universitario di medicina (o forse, come si legge nella biografia del Santi, fu solo proposto come sostituto, ma rifiutò); in dicembre fu poi nominato ispettore straordinario di polizia in Garfagnana, regione “infestata” da dissidenti sin dal 1796.
Rifugiatosi in Maremma (travestito da pastore) durante il periodo della reggenza imperiale, con la riscossa napoleonica di Marengo (giugno 1800) poté rientrare a Modena, trovandovi tuttavia una situazione profondamente mutata rispetto al triennio rivoluzionario. Fatto segno di attacchi per il passato “giacobino”, Contri fu costretto a ritrattare alcune sue vecchie posizioni, dichiarando pubblicamente piena sottomissione «alla Chiesa, ed al di Lei Capo visibile». Membro della municipalità di Modena nel 1801 e nel 1802, si distaccò progressivamente dalla vita pubblica per adempiere il suo ministero sacerdotale, finché nel 1818 non si trasferì a Palagano, dove aveva rilevato i beni di un soppresso convento di suore francescane. In quella stessa località appenninica Contri morì l’11 aprile 1826, a causa di un colpo apoplettico. «La sua morte improvvisa – scrive Capra – [...], la sua qualità di proprietario di beni confiscati alla Chiesa e i suoi non dimenticati trascorsi giacobini contribuirono ad alimentare fosche leggende che si tramandarono a lungo nei suoi luoghi d’origine, Castello e Riolunato».

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