domenica 22 dicembre 2013

Un regime «che perde elezioni a ripetizione»: lo strano “fascismo” di Silvio Berlusconi

(articolo apparso su Prima Pagina del 22 dicembre 2013)

A proposito di Silvio Berlusconi, dieci anni fa lo storico inglese Paul Ginsborg azzardò una previsione su cui vale la pena riflettere: «Sarebbe forse del tutto fantasioso – scrisse in un suo saggio – immaginare che nel 2013 i "piccoli forzisti" vadano a letto stringendo nella manina il medaglione di Silvio B., come facevano i piccoli Balilla con quello del duce nel 1935?».
Occorre innanzitutto prevenire un'obiezione: Ginsborg non riteneva che l'Italia di inizio Terzo Millennio fosse paragonabile a quella degli anni Trenta. Ciò che intendeva suggerire era che Berlusconi rappresenta per i suoi seguaci un autentico mito, il classico personaggio rispetto al quale è impossibile restare indifferenti. O lo si ama, o lo si odia. In questo lo studioso britannico aveva indubbiamente visto giusto, anche se, passati dieci anni dall'uscita del saggio da cui sono tratte le righe appena citate, la fama del Cavaliere è senza dubbio in declino e – con buone probabilità – sono pochi i novelli Balilla che si addormentano abbracciando un medaglione con le sue iniziali.
Ciò che invece non accenna per nulla a placarsi è il forte, a tratti ossessivo, sentimento antiberlusconiano radicato in quella porzione di italiani che al fondatore di Forza Italia non ha mai accordato il proprio consenso. Per buona parte di questa consistente fetta di cittadinanza l'accostamento Berlusconi-Mussolini non è affatto fuori luogo: pur riconoscendo che il regime del duce era altra cosa, che – come ironizza Giovanni Orsina nello studio che è all'origine di questo articolo – oggi «Umberto Eco a Ventotene ci va – se lo vuole – in vacanza», gli antiberlusconiani continuano ad associare il Cavaliere al fascismo. Basta consultare Google per imbattersi in decine di fotomontaggi come quelli qui riportati: immagini innocue, non c'è dubbio, ma che acquistano per il semplice fatto di essere così diffuse un'innegabile valenza politica. Per quale motivo Berlusconi è considerato un fascista? In che senso, poi, potrebbe esserlo entro i confini di uno Stato repubblicano che ha bandito il fascismo dalle proprie istituzioni?
Per rispondere a queste domande è necessario fare un passo indietro e riflettere brevemente sul concetto di antifascismo. Giovanni Orsina, nel suo saggio contenuto nel volume L'ossessione del nemico (miscellanea a cura di Angelo Ventrone edita da Donzelli nel 2006), distingue tra antifascismo e Antifascismo, intendendo con il primo «l'opposizione al fascismo storico e a quel che ha significato», e con il secondo un «patrimonio  ideologico» che ha subito un «sovraccarico concettuale».
Per prima cosa, l'Antifascismo legge la storia d'Italia individuando nell'esperienza resistenziale una forte cesura tra l'intero periodo monarchico-unitario (fascista e prefascista) e quello repubblicano. L'interpretazione «assai forzata» della Resistenza come movimento popolare di massa consente di vedere in quello che è stato considerato un secondo Risorgimento non soltanto una prosecuzione dell'esperienza unificatrice ottocentesca, ma anche – secondo prospettive più radicali – un'autentica rivincita nei confronti di quest'ultima. Perché questa interpretazione sia possibile è però necessario considerare il fascismo non come una parentesi o il risultato di una concatenazione di prevaricazioni, bensì come il naturale prodotto di una congerie di vizi tradizionalmente italici sui quali è necessario affondare il bisturi del rinnovamento. L'ovvia conseguenza di questo processo non può che essere il suddetto sovraccarico ideologico, in base al quale l'accusa di essere un fascista può essere facilmente rivolta contro chiunque «impersoni quei fattori storici dei quali si presume che il regime mussoliniano sia stato il prodotto». Paradossalmente, persino il PCI – cui è stata a lungo contestata una sorta di apatia rivoluzionaria – ha subito in passato tentativi di delegittimazione che andavano in questa direzione.
L'aspetto più radicale dell'Antifascismo è senza dubbio la pretesa superiorità morale rispetto agli avversari (come visto, potenzialmente infiniti). Al "fascista", in altre parole, è proibito fare concessioni. In quanto nemico, egli sarà sempre un individuo spregevole guidato esclusivamente dai propri interessi; non un uomo dalla cultura distorta, ma un uomo di non-cultura; non un italiano in errore, bensì un non-italiano indegno di far parte della comunità nazionale.
Su questo terreno l'Antifascismo è giunto gradualmente.
Negli anni Cinquanta, in epoca centrista, la riflessione storiografica sulla Resistenza aveva interessato pressoché solo le forze progressiste, essendo la cultura moderata preoccupata che l'enfasi sulla lotta di liberazione e le origini dell'Italia repubblicana potesse giovare oltremodo al PCI. Di conseguenza, quando nel decennio successivo l'antifascismo tornò alla ribalta – come unica possibile piattaforma d'intesa tra i partiti che si apprestavano ad inaugurare la stagione del centro-sinistra –, esso finì per connotarsi secondo il paradigma Antifascista, dal momento che le interpretazioni non-Antifasciste delle vicende inerenti alla recente storia d'Italia avevano ormai accumulato un ritardo culturale impossibile da ignorare. Di fatto, isolando per anni la sinistra, la DC le concesse una sorta di esclusiva sull'utilizzo di un antifascismo destinato a gonfiarsi a dismisura.
Decisivo si rivelò, in questo processo degenerativo, il fallimento dell'esperimento di Tambroni di aprire al MSI, che di fatto rese improponibile, per il futuro, qualunque ipotesi di governo sorretto, seppure democraticamente, dalla destra. Di lì a poco – precisa Orsina –, la svolta degli anni Sessanta e il progetto del centro-sinistra coincisero con il battesimo dell'Antifascismo quale «ideologia ufficiale» della politica italiana, con la conseguente «estensione dell'area dell'illegittimità repubblicana oltre i confini del neofascismo, al conservatorismo e al moderatismo». Con questo, si badi, non si deve intendere che le forze moderate furono escluse dal governo: tutt'altro. Semplicemente esse dovettero subire in quegli anni, sul piano culturale, l'emarginazione del proprio conservatorismo – sospinto al di fuori della legittimità repubblicana –, e si trovarono costrette a «mascherarsi sotto volti posticci». Il che creò quello iato tra prassi di governo e cultura politica che fu alla base delle contestazioni sessantottine e che a lungo andare consentì il radicarsi della convinzione, tuttora largamente condivisa, che «la soluzione dei mali d'Italia» risieda «in una rivoluzione di carattere morale più che economico e sociale», ovviamente di stampo rigorosamente Antifascista.
Questo aspetto è, a ben vedere, determinante. Il fallimento del progetto riformistico del centro-sinistra e la parallela degenerazione, sul piano etico, del sistema dei partiti crearono le premesse, grosso modo a partire dagli anni Settanta, per uno slittamento del paradigma Antifascista dal terreno economico a quello culturale. L'enfasi che Enrico Berlinguer – segretario del principale partito Antifascista – pose sulla questione morale è del resto piuttosto eloquente. Si trattava, in sostanza, di salvaguardare l'orgoglio di una diversità che fungesse da pretesto – forse l'unico rimasto, vista la crisi dell'intero blocco comunista – per ribadire, con rinnovata altezzosità, la propria estraneità rispetto alle altre forze politiche.
Date le premesse, che l'Antifascismo egemone fosse incompatibile con la «discesa in campo» del Cavaliere fu evidente sin dagli esordi politici del fondatore di Forza Italia, il quale, attraverso lo «sdoganamento» del MSI e l'appoggio al "fascista" Gianfranco Fini, di fatto inaugurò la stagione dell'antiberlusconismo. Il suo anticomunismo esasperato – divenuto, specie dopo il fallimento del centro-sinistra, inconciliabile con l'Antifascismo di quanti non ritenevano più praticabile alcun progetto di rinnovamento che prescindesse dall'apporto degli eredi del PCI –, unito al fastidio per la presunta invadenza dei basilari contropoteri democratici, ha innegabilmente fornito un valido pretesto per la costruzione dell'antimito berlusconiano; ma, tornando alle riflessioni da cui siamo partiti, a rendere per molti credibile l'accostamento Berlusconi-Mussolini è stato prima di tutto lo strapotere mediatico del Cavaliere. «Nel nostro tempo – ha scritto infatti Umberto Eco –, se dittatura ha da esserci, deve essere dittatura mediatica e non politica».
Il punto, come bene spiega Orsina, è che «da decenni ormai l'Antifascismo ha distaccato il fascismo dal suo contesto storico, trasformandolo in un'etichetta generica suscettibile di essere applicata a chiunque sia ritenuto, dall'Antifascista stesso, d'ostacolo al rinnovamento d'Italia». Il che, con tutta evidenza, fa di Berlusconi (personaggio di cui peraltro è facile biasimare il comportamento sempre sopra le righe) il bersaglio perfetto. Per il fatto di avere conquistato il potere professando apertamente la propria ostilità culturale nei confronti dell'ideologia ufficiale Antifascista (e quindi rinnegando la consolidata prassi dissimulatrice democristiana, responsabile della degenerazione afasica del moderatismo), egli è automaticamente diventato «un pericolo mortale per la democrazia», l'instauratore di un regime. Poco importa che manchino argomentazioni convincenti per sostenere che il pluralismo sia effettivamente in pericolo (regime curioso, quello berlusconiano, «del quale – ironizza Orsina – parlano male praticamente tutti, che perde elezioni a ripetizione ed è infine rispedito all'opposizione»): se il Cavaliere dev'essere a tutti i costi il nemico pubblico numero uno, il paragone col suo predecessore in camicia nera diviene così suggestivo da abbattere qualunque barriera storiografica.

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lunedì 16 dicembre 2013

«Il più efficace degli antidoti»: Togliatti e il dramma dei prigionieri di guerra italiani in URSS

(articolo apparso su Prima Pagina del 15 dicembre 2013)
 
La sorte dell'ARMIR, l'Armata italiana in Russia inviata sul fronte orientale da un Mussolini desideroso di dare un sostanzioso contributo alla lotta antibolscevica, fu tragica: ben 95.000 dei 229.000 uomini che la componevano non fecero ritorno. Le perdite più consistenti non furono però quelle dei caduti in battaglia. Secondo alcuni calcoli di parte sovietica, infatti, l'Armata Rossa catturò tra gli 80 e i 115 mila militari italiani, ridotti – ma la cifra rimane ad ogni modo significativa – a «più di 40.000» dalla propaganda di Radio Mosca, curata da Palmiro Togliatti.
Nell'estate del 1944 il governo Bonomi cominciò a fare pressioni su Mosca affinché questa inviasse gli elenchi dei prigionieri, ma dovette attendere l'agosto dell'anno seguente prima di ricevere una risposta. L'Unione Sovietica, fece infine sapere il viceministro degli Esteri Solomon Lozovsky, non si opponeva alla restituzione dei militari italiani, fatta eccezione per un esiguo numero di criminali di guerra. Ma i conti non tornavano: secondo le stime di parte russa, i soldati da rimpatriare erano appena 19.000, cifra drasticamente inferiore alle aspettative. E non era tutto. Quando, alla fine del luglio 1946, l'ambasciata sovietica a Roma comunicò di avere terminato le procedure di rimpatrio dopo aver restituito 21.193 prigionieri, le autorità italiane scoprirono che nel conto erano stati annoverati ben 11.000 militari appartenenti a divisioni di stanza nei Balcani, i quali, catturati dai nazisti dopo l'8 settembre, erano stati in seguito "liberati" dall'Armata Rossa ed internati in URSS.
La decisione sovietica di restituire i prigionieri, al di là della discrepanza sulle cifre con il governo di Roma, fu ad ogni modo inaspettata. Stalin, infatti, fece per l'Italia un'eccezione rispetto alla prassi consolidata di considerare i prigionieri di guerra come forza-lavoro. Le motivazioni del dittatore sovietico non sono ancora del tutto chiare, ma è ipotizzabile che, dati l'esiguo numero dei superstiti e l'elevata mortalità, gli italiani costituissero un gruppo poco produttivo. Così almeno si spiegherebbe la decisione di rimpatriare per primi i malati gravi, gli invalidi e gli inabili al lavoro.
A parere di Mosca, pertanto, l'Italia doveva considerarsi soltanto grata per la restituzione dei militari caduti nelle mani dell'Armata Rossa: ogni ulteriore richiesta, tenendo conto che per Stalin era molto labile la differenza tra prigioniero e collaborazionista, era da ritenersi fuori luogo. Se infatti si considera che gli stessi militari sovietici sopravvissuti ai lager nazisti furono in larga parte internati nei campi "correttivi" siberiani, risulta evidente che, dal punto di vista dei russi, un paese aggressore come l'Italia non si trovava certo nella condizione di avanzare pretese. Mosca non si sentiva quindi per nulla obbligata a fornire informazioni sui soldati italiani caduti o dispersi in URSS. Solo la recente apertura degli archivi sovietici ha consentito agli storici di far luce sulla tragica sorte di migliaia di prigionieri italiani.
La maggior parte di essi cadde in mano sovietica in seguito alla grande offensiva dell'Armata Rossa dell'inverno 1942-43. Un numero elevato di uomini da mantenere avrebbe tuttavia ostacolato le manovre al fronte: l'unica soluzione praticabile parve allora quella di trasportare i prigionieri nelle retrovie, anche per evitare che il nemico li liberasse. La conseguenza, per le decine di migliaia di soldati italiani, furono le cosiddette marce del davai («avanti» in russo: era l'ordine impartito dalle guardie) verso le stazioni ferroviarie, cui seguivano interminabili viaggi verso l'interno in condizioni di estremo disagio. Freddo, malnutrizione e malattie decimarono i convogli, con livelli di mortalità vicini al 90%. In questo dato la documentazione oggi disponibile non consente di individuare alcun intento punitivo da parte dei sovietici. Semplicemente, rilevano Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky nel volume Togliatti e Stalin (Il Mulino, 2007), «il trattamento clemente dei detenuti non è mai stato una caratteristica del governo staliniano». Su circa 85.000 prigionieri di guerra italiani in URSS (secondo le stime più recenti), si devono calcolare grosso modo 40.000 morti nei lager e 22.000 persone non identificate, decedute durante le marce: tra i restanti uomini, circa 22.000 fecero ritorno in patria, ma il conto deve necessariamente tenere in considerazione imprecisioni ed errori.
Ovviamente, il problema delle migliaia di militari italiani detenuti in territorio russo interessò da vicino i vertici del PCI, i cui dirigenti più influenti erano in stretto contatto con Mosca. Ad essi, infatti, il governo sovietico affidò un ruolo di prim'ordine nell'organizzazione della resistenza e della propaganda, rivolta, oltre che ai soldati al fronte, anche ai prigionieri di guerra. Nei campi di internamento, infatti, i comunisti italiani residenti in URSS erano chiamati a gestire scuole di indottrinamento antifascista, a curare la redazione di periodici, a presenziare agli interrogatori e a condurre trasmissioni radiofoniche per l'Italia. Gli istruttori politici del PCI erano subordinati al rappresentante italiano presso il Comitato esecutivo del Comintern, Vincenzo Bianco, il quale, a sua volta, aveva come superiori Togliatti e il segretario generale del Comintern Georgij Dimitrov. Proprio a Bianco si deve una testimonianza fondamentale sulle condizioni dei prigionieri di guerra dell'ARMIR. Si tratta di una lettera a Togliatti datata 31 gennaio 1943, nella quale veniva esplicitamente posto il problema dell'alto tasso di mortalità tra i detenuti italiani, che nei lager russi perivano «in massa». La risposta del Migliore, che vale la pena citare ampiamente, lasciò tuttavia intendere che il PCI non avrebbe mosso un dito per arrestare quello che stava assumendo le proporzioni di un autentico massacro di connazionali: «La nostra posizione di principio rispetto agli eserciti che hanno invaso l'Unione Sovietica è stata definita da Stalin, e non vi è più niente da dire. Nella pratica, però, se un buon numero di prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire. Anzi. E ti spiego il perché. Non c'è dubbio che il popolo italiano è stato avvelenato dalla ideologia imperialista e brigantesca del fascismo. [...] Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini, e soprattutto la spedizione contro la Russia, si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il più efficace degli antidoti».
L'atteggiamento "morbido" nei confronti dei prigionieri con buone probabilità fu la causa del mancato avanzamento di carriera di Bianco ai vertici del partito. Ma non è questo il punto su cui vale pena soffermarsi in questa sede. L'aspetto principale da sottolineare è che il PCI, dovendo effettuare una scelta di campo tra gli interessi nazionali e la fedeltà al governo dell'URSS, preferì optare per una più comoda via di mezzo, di fatto assecondando la politica repressiva di Mosca senza tuttavia assumersi apertamente la responsabilità della propria condotta antipatriottica. In pratica, Togliatti avallò la decisione di non far pervenire a Stalin alcuna rimostranza in merito al trattamento disumano riservato ai prigionieri di guerra dell'ARMIR, ma, al contempo, si preoccupò che la notizia non trapelasse (o quantomeno trapelasse il meno possibile) in Italia. Fatto sta che il rimpatrio dei prigionieri tra 1945 e 1946 creò più di un grattacapo al PCI, convinto che la decisione sovietica di affrettare la loro restituzione – ancora oggi difficile da motivare – avrebbe procurato un grave danno di immagine all'universo comunista. Sarebbe stato infatti fin troppo facile per gli avversari politici rilevare significative discrepanze tra il ritratto del paradiso dell'URSS tratteggiato dalla propaganda togliattiana e i racconti dei reduci, che avrebbero inevitabilmente posto l'accento sul paradosso dei «contadini russi senza scarpe». Il mito sovietico, in altre parole, sarebbe stato abbattuto dai colpi di piccone delle testimonianze di migliaia di sopravvissuti ai lager staliniani. E, in effetti, così in parte accadde.
Del resto, gli stessi dirigenti comunisti italiani erano perfettamente al corrente che Mosca mentiva quando affermava di aver restituito tutti i prigionieri entro il 1946. Ma sbilanciarsi poteva essere pericoloso, anche perché Togliatti non si trovava certo nelle condizioni di fare pressioni su Stalin. Tanto valeva, quindi, tentare di limitare i danni, screditando i militari rimpatriati che gettavano fango sull'URSS. Così, quando nell'aprile del 1948 l'Unione nazionale reduci dalla Russia pubblicò un opuscolo in cui alcuni ex prigionieri accusavano i comunisti che avevano curato la propaganda antifascista nei campi sovietici di aver condotto violenti ed «estenuanti interrogatori», il senatore Edoardo D'Onofrio, chiamato in causa, decise di querelare per diffamazione gli autori dello scritto. Il processo gli diede torto, ma ciò non servì (anzi!) a sanare la frattura tra un PCI succube di Mosca e un paese, l'Italia, che negli anni avrebbe rafforzato il suo legame col blocco occidentale. Oggi, anche ripensando a vicende come quella dei prigionieri dell'ARMIR, risulta evidente come dietro il collegamento cronologico tra il crollo dell'URSS e lo scioglimento del Partito comunista italiano si nasconda il dramma politico di intere generazioni.

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lunedì 9 dicembre 2013

La psicosi del nemico interno: il male inguaribile della comunicazione politica italiana

(articolo apparso su Prima Pagina dell'8 dicembre 2013)

La tesi centrale de Il nemico interno, interessante saggio di Angelo Ventrone pubblicato da Donzelli nel 2005, è che la propaganda politica fatichi enormemente a superare una visione manichea della realtà secondo la quale è molto più conveniente delegittimare l'avversario (una persona, un partito, una nazione, un popolo) che instaurare con esso un dialogo costruttivo, incentrato sulle differenti proposte. Il rivale, in altre parole, rappresenta inevitabilmente il male da cui difendersi, il nemico interno, appunto, sospettato di tramare contro la patria per fini loschi o, più di frequente, perché colluso con un più potente nemico esterno che ne tira i fili a mo' di diabolico burattinaio.
Nella storia dell'Italia contemporanea questa psicosi del nemico interno è stata associata il più delle volte alla guerra. Già nel 1911, con lo scoppio del conflitto coloniale in Libia, l'opinione pubblica si divise nettamente nei due tronconi di chi era favorevole all'intervento e chi, come il PSI, protestava che l'invasione di un paese africano non avrebbe fatto altro che depauperare le casse dello Stato. Ma fu, ovviamente, la Grande Guerra a creare le condizioni per un inasprimento senza precedenti dei toni della propaganda, che divenne strumento di feroce accusa di un avversario che si voleva far passare, a seconda dei casi, o per disfattista antipatriottico, o per traditore dei reali interessi della nazione. Tanto i neutralisti (in particolar modo i socialisti) quanto gli interventisti furono tacciati di collusione col nemico esterno, individuato, in un caso, con la Germania di Guglielmo II – vorace mostro imperialista –, nell'altro con il capitalismo internazionale, responsabile della carneficina europea.
L'ossessione antigermanica, in particolare, accentuò una tendenza già piuttosto diffusa nel quadro politico italiano: il ricorso allo stereotipo quale strumento privilegiato per screditare il nemico. Così, se il tedesco veniva rappresentato come il più temibile dei barbari, in quanto in possesso di tecnologie potenzialmente devastanti in campo bellico, divenne quasi automatico, negli anni seguenti, associare agli Stati Uniti l'immagine del borghese corrotto, anche fisicamente, dal capitalismo, e all'Unione Sovietica quella del povero che soffre la fame. In quest'ottica, è interessante notare che la propaganda fascista condannava sia USA che URSS, poiché entrambe, rileva Ventrone, erano accomunate «dall'interesse esclusivo per la dimensione materiale dell'esistenza» come conseguenza, rispettivamente, della plutocrazia e della dittatura comunista. Proprio questo intendeva infatti Mussolini quando affermava «Noi siamo contro la vita comoda», nel contesto della cosiddetta battaglia contro quel «comfortismo» da cui derivavano l'attaccamento alla ricchezza come valore supremo e l'egoismo individualista.
Tra la propaganda di demonizzazione del nemico esterno e quella mirante a screditare il nemico interno i punti di contatto erano molteplici. Durante la prima guerra mondiale un efficace strumento per alimentare l'odio antisocialista divenne persino l'eugenetica, dal momento che si riteneva che l'abuso di alcool e la diffusione della sifilide tra le classi operaie fossero le naturali conseguenze di una progressiva degenerazione biologica. Di contro, il PSI ribatteva che la guerra borghese avrebbe provocato un abbrutimento generalizzato del proletariato, costretto a rinunciare ai tradizionali vincoli di solidarietà di classe senza alcuna possibilità di far valere le proprie ragioni. E quando, al termine del conflitto, apparve all'orizzonte la minaccia del fascismo, divenne pressoché automatico attribuire a quest'ultimo – in ideale continuità con la propaganda precedente – il ruolo di braccio armato della borghesia, che avrebbe scatenato sul popolo un'aggressività paragonabile a quella di un'epidemia. Da allora al movimento mussoliniano fu sempre accostata l'immagine della morte.
La dittatura fascista, ad ogni modo, fu l'abile regista di una propaganda che radicalizzò ulteriormente la tendenza ad evidenziare la bestialità dell'avversario, sia che esso fosse il bolscevico, l'ebreo o il plutocrate. Terminato il secondo conflitto mondiale, lo sgomento provato di fronte alla scoperta dei campi di sterminio nazisti rese improponibile, nell'ambito della comunicazione politica, qualunque richiamo alla razza. Nondimeno, lo scontro ideologico continuò ad essere concepito come un'aspra lotta contro il nemico interno, che venne riproposto nelle sembianze, da un lato, della morte che divorava i paesi soggetti al comunismo, dall'altro, del guerrafondaio al soldo degli americani.
L'aspetto senza dubbio più significativo della propaganda dell'Italia repubblicana è dunque la sopravvivenza del linguaggio aggressivo tipico del periodo dei due conflitti mondiali e della dittatura. Forse fu l'assuefazione, dopo vent'anni di regime, alla violenza a mantenere vivo l'odio ideologico; ma, a ben vedere, decisiva si rivelò la mancata volontà di interrogarsi sulle ragioni che avevano spianato la strada all'avvento del fascismo, al punto che rinnegare il passato – e soprattutto le responsabilità personali e collettive connesse con esso – parve a tutti la più comoda delle soluzioni.  
La democrazia italiana fu dunque istituita da formazioni politiche il cui habitus mentale – sottolinea Ventrone – era «fatto di comportamenti e di atteggiamenti non coerenti con un sistema [...] pluralistico». Ovviamente, in un tale contesto, la guerra fredda non poteva far altro che soffiare sul fuoco delle contrapposizioni dottrinarie, perpetuando un modo di comunicare in politica incentrato più sulle carenze (per usare un eufemismo) dell'avversario che non sulle proposte e sui programmi. Ciò ha fatto sì, prosegue Ventrone, che l'ingrediente fondamentale della propaganda sia tuttora la sua «componente "persecutiva"», in base alla quale la preoccupazione principale dev'essere quella di presentare i vantaggi connessi con una determinata scelta politica essenzialmente attraverso la raffigurazione del «pericolo rappresentato dalla presenza del nemico, del negativo da cui difendersi».
I due manifesti del 1948 qui accanto riportati hanno quindi in comune un aspetto fondamentale: chiedono entrambi – in un caso esplicitamente – un voto contro. Contro la mortale minaccia sovietica si invitavano gli elettori a votare DC; contro «i provocatori di guerre, i venduti allo straniero» – ma anche contro un De Gasperi «cecchino di Truman», raffigurato con l'elmo chiodato tipico del "barbaro" esercito germanico – si chiedeva di votare per il Fronte popolare. Lo scontro pareva di natura religiosa, oltre che politica. Del resto, come scrisse la «Civiltà Cattolica» il 18 aprile 1953, la dialettica tra opposte fazioni era in realtà una «battaglia [...] fra Cristo e Barabba». In quest'ottica si mantenne altresì forte, grosso modo fino agli anni Settanta, il timore di un ritorno al passato dittatoriale, espresso dalle forze di sinistra attraverso lo strumentale accostamento di fascismo e DC e da quest'ultima con la teoria dei cosiddetti «opposti estremismi», in base alla quale il partito di ispirazione cattolica rappresentava l'unico baluardo contro il duplice pericolo nero e rosso.
Come si vede, la continuità tra fascismo e post-fascismo, piuttosto evidente a livello iconografico, non può stupire più di tanto tenuto conto delle premesse. Al riguardo, oltre a quanto già rilevato, va detto anche che tanto la DC quanto il PCI ereditarono dal movimento mussoliniano l'ossessione per la difesa della coesione sociale e la morigeratezza dei costumi, che si credevano minacciate rispettivamente dal materialismo marxista e dall'individualismo di derivazione capitalista.
Sia chiaro, una visione di questo tipo non implica necessariamente il rifiuto aprioristico di qualsiasi forma di dialogo tra diverse fazioni: basterebbe la comune intesa in funzione antifascista che è all'origine della Costituzione a dare prova della presenza, accanto ai laceranti motivi di divisione, di significativi punti di contatto tra le forze politiche del dopoguerra, le quali hanno peraltro trovato un inaspettato elemento aggregatore nel crescente benessere di una società italiana sempre più omologata da processi consumistici e di secolarizzazione. Tuttavia è innegabile che la delegittimazione dell'avversario costituisca tuttora una componente essenziale – e preoccupante – della dialettica tra partiti. Pur tenendo conto di alcune importanti novità – come la trasformazione della propaganda in persuasione parapubblicitaria, l'accentuata valorizzazione delle qualità personali dei leader, il passaggio dalla mobilitazione per fini collettivi al cosiddetto voto d'opinione –, pare infatti evidente che il virus della demonizzazione del nemico interno non possa ancora dirsi smaltito. Caduta la DC (e non è certo una coincidenza che essa sia crollata proprio dopo lo scioglimento del PCI), la «discesa in campo» di Silvio Berlusconi nel 1994 ha riportato la comunicazione politica sul familiare terreno dell'invettiva. Forza Italia si presentò infatti allora come un partito sorto in difesa della libertà continuamente minacciata dai comunisti, dalla magistratura, dalla cultura e, paradossalmente, dalla stessa politica; di contro, da vent'anni le forze di sinistra si ergono a baluardo in difesa della democrazia che – sostengono – è in pericolo per il solo fatto che Berlusconi esiste. Possibile che l'italiano del 2013 debba ancora convivere con l'incubo del nemico dentro casa?

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lunedì 2 dicembre 2013

L'intramontabile fascino della romanità

(articolo apparso su Prima Pagina del 1° dicembre 2013)

Introduzione di Luigi Malavasi Pignatti Morano

 

Nella Premessa al libro Quando a Modena c'erano i Romani (di prossima pubblicazione per i tipi di Terra e Identità), l'autore, Gabriele Sorrentino, illustra con queste parole le ragioni che stanno all'origine del volume: «A differenza di quanto spesso avviene con i sogni infantili, il fascino della Civiltà Romana non è mai tramontato in me».
Va detto che, nell'essere attratto dalla romanità, Sorrentino è in buona compagnia. Uno degli aspetti più sorprendenti del fascino che promana dalla Città Eterna è infatti la sua capacità di conservarsi intatto per secoli, sino ai giorni nostri. Nessun'altra città ha avuto, nella storia della civiltà occidentale, un ruolo paragonabile a quello di Roma. Volendo ricordare altri esempi "mitici", Atene e Sparta sono rimaste pressoché fossilizzate nel ricordo di letterati poco interessati al loro presente; Troia non sopravvive se non come teatro dell'Iliade; Cartagine è conosciuta quasi esclusivamente per Annibale e le guerre puniche; forse solo Gerusalemme – ma con le debite proporzioni – può essere accostata a Roma, dal momento che possiede un potere di fascinazione che non è mai dipeso dal suo ruolo politico.
Roma, da Carlo Magno a Mussolini, non ha mai smesso di essere un faro per la civiltà occidentale, anche dopo che dei suoi fasti imperiali non era rimasto che il ricordo. Indubbiamente la sua sopravvivenza come centro urbano di una certa rilevanza ha contribuito a perpetuarne il mito, continuamente alimentato dalla permanenza sul suolo dell'Urbe di maestose rovine in grado di evocare l'antico splendore. Ma non è solo questo a rendere Roma una città unica. È sotto l'aspetto simbolico che essa ha suggestionato l'umanità nel corso dei secoli. Dal martirio di Pietro e Paolo, che ne ha reso immortale il prestigio nel mondo cristiano, alle cerimonie di incoronazione di Carlo Magno e, dopo di lui, dei sovrani germanici; da Napoleone, che dopo il colpo di Stato del 18 brumaio pretese per sé, con evidente riferimento alla classicità, la carica di Primo Console, a Mussolini, che volle dar vita, dopo quella dei Cesari e dei Papi, alla grande Roma fascista, la Città Eterna è sempre stata sinonimo di grandezza, magnificenza e potere.
Oggi cosa resta del mito di Roma? Innegabilmente, come è accaduto per i concetti di patria e di nazione, anche quello della romanità ha risentito del lungo processo di defascistizzazione culturale avviato in Italia al termine del secondo conflitto mondiale. Il richiamo dei fasci littori e dei saluti col braccio teso evoca ancora – inutile negarlo – brutti ricordi. Ma Roma non se la passa benissimo nemmeno come cuore pulsante della cristianità, col paradosso che proprio l'istituzione che più di tutte ha contribuito ad eternarne la fama – la Chiesa – è considerata oramai dai più una palla al piede per il prestigio della città. Come negare, infatti, che da un punto di vista mediatico il papato sia sotto attacco, con accuse di intolleranza, corruzione e pedofilia che, come palle di cannone, piovono da tutte le parti entro le mura vaticane? E infine che dire della Roma ladrona che turba il sonno di milioni di "padani"? I miti – la storia insegna – non sono immortali, e possono anche essere ribaltati in antimiti. Roma, con la sua civiltà, la sua sacralità e il suo fascino di Città Eterna, merita questo scialbo tramonto?

 

      

L'accusa di Paolo Molteni

 

«I Romani non furono certo una schiatta di civilizzatori e santi»

 

Roma continua ad essere un mito inossidabile. Non si può dire che la leggenda di Roma sia dura a morire, perché in realtà non ha mai attraversato momenti critici, ma ha sempre goduto e continua a godere di ottima salute. Ci viene continuamente propinata la medesima solfa: Roma è un faro di civiltà che ha portato il diritto e il progresso ovunque ha messo piede.
È ovvio che questa convinzione ne sottende un'altra, non espressa ufficialmente ma sua naturale conseguenza. Ovvero che i luoghi che hanno subito la conquista e la dominazione di Roma, prima di incontrare questa fonte di civiltà fossero abitati da popolazioni incivili, arretrate, indegne quasi di appartenere al genere umano.
Ritengo che questo modo di vedere le cose appartenga appunto alla sfera del mito nel senso più pieno del termine. Ovvero che non abbia nulla a che fare con la realtà. Si tratta semplicemente dei frutti di una delle prime manifestazioni della storia scritta ad uso e consumo del vincitore. I Romani, dopo aver sconfitto i nemici, averne occupato le terre e averne trasformato gli abitanti in sudditi, hanno cominciato a scrivere per se stessi e per i posteri che le loro conquiste hanno portato ovunque pace e prosperità. Si sono astenuti solo dal vantarsi di aver portato la democrazia, perché allora non era ancora di moda.
In realtà, che i Romani fossero questa schiatta di civilizzatori e santi, non mi risulta proprio. Sono stati semplicemente bravi a capire che piuttosto che guadagnarsi l'esistenza quotidiana spandendo il proprio sudore, era più comodo campare a spese degli altri. Una mentalità che fino a quel momento aveva trovato frotte di estimatori solo in Oriente dove sorsero i primi Stati sovranazionali esito di campagne di conquista di popoli espansionisti.
Non a caso nessuna delle popolazioni che, una dopo l'altra, sono cadute sotto il giogo romano, ha rinunciato alla propria libertà senza combattere. E i progenitori dei modenesi, ovvero i Galli Boi, sotto questo aspetto sono stati un esempio di fierezza, di indomito attaccamento alla propria indipendenza e di spirito combattivo.
Non è il caso di dilungarci spiegando come la società celtica non possa essere definita incivile e arretrata. Ampi studi le hanno restituito la dignità che merita. Si trattava semplicemente di una realtà molto diversa da quella romana, ma non per questo inferiore. Aveva suoi usi e costumi, un proprio diritto, una solidarietà tribale che i Romani, perennemente dilaniati dai conflitti di ceto, si sognavano. E soprattutto erano orgogliosi del loro modo di vivere e non disposti a rinunciarvi senza combattere fino allo stremo.
Dall'altra parte c'era Roma, i cui oligarchi non esitavano a mettere a ferro e fuoco il Mediterraneo e a far scorrere fiumi di sangue per poter spendere la gloria così acquisita nella competizione per accedere alle cariche cittadine di comando. E questa sarebbe civiltà?
In definitiva penso che i Romani avessero una loro idea del mondo, all'interno della quale tutti gli altri popoli erano pedine sacrificabili. Hanno costruito un grande impero, è vero! E hanno lasciato in eredità agli europei di oggi leggi e istituzioni, anche questo è vero! Ma hanno anche distrutto nazioni e brutalizzato popolazioni altrettanto "civili", assoggettandole a uno Stato e togliendo loro la libertà. E la libertà resta il bene primario, che non può essere barattato con nulla al mondo.

 

 

La difesa di Gabriele Sorrentino

 

«La colonizzazione romana della Cisalpina fece di Mutina una città “splendidissima”»

 

Nel 183 a.C. i Romani dedussero, cioè costituirono, la colonia di Mutina su un precedente insediamento etrusco conquistato dai Boi. Modena, quindi, fu fondata dagli Etruschi intorno al VI secolo a.C. Secondo le teorie più accreditate, il toponimo Muthiena ricorderebbe la gens, cioè la famiglia, dei primi fondatori o comunque di coloro che guidarono la prima etruschizzazione della zona. I Celti conquistarono il territorio modenese solo nel IV secolo a.C., e dal III secolo a.C. i Romani cominciarono la lenta e inesorabile penetrazione nella Pianura Padana che ebbe l'unica significativa battuta d'arresto con la Seconda Guerra Punica (218-202 a.C.), la quale scatenò la più violenta rivolta gallica.
Insomma Modena fu prima etrusca e celtica che romana. In verità, secondo la storiografia più recente, fu soprattutto etrusca perché i Celti colonizzarono con forza Felsina (che non a caso cambiò nome in Bononia, città dei Boi) ma si limitarono a presidiare il territorio circostante, tanto che a Modena è ipotizzabile una preminenza etrusca che avrebbe suggerito ai Romani, durante la Seconda Guerra Punica, di rifugiarsi in città dove, secondo il racconto di Livio, trovarono a proteggerli possenti mura che mal di sposano con la vulgata che vede la città romana fondata su un castrum e non su un centro ancora attivo.
Dopo la definitiva conquista della Pianura Padana e la costruzione della via Emilia (duemila anni fa nel 187 a.C.), Marco Emilio Lepido fu il fautore di una robusta politica di colonizzazione che aveva lo scopo di romanizzare i Celti e i Liguri e di ripagare la plebe romana e gli alleati italici del lungo sforzo delle Guerre Puniche. Fu proprio Lepido (insieme con T. Eburzio Parro e L. Quinzio Crispino) a dedurre Mutina nel 183 a. C., e quindi è lui il nuovo fondatore della città, dopo il misterioso Muthiena del VI secolo a.C.
La storia di Modena e del suo territorio cambiò profondamente con la conquista romana. Se la città etrusca prima e celtica poi era stata un piccolo centro nell'orbita di Felsina/Bononia, Mutina, colonia di diritto romano nel cuore della pianura, divenne il centro di riferimento tanto da essere spesso sede del governatore della Gallia Cisalpina. I Romani centuriarono la pianura, tracciando quella rete di campi, strade e canali che è ancora intuibile nella nostra campagna modenese da una qualsiasi foto aerea.
Centro di prima importanza, nel 43 a.C. fu teatro della Guerra di Modena che vide affrontarsi intorno alle sue mura uomini della caratura di Bruto, Antonio e Ottaviano, il quale proprio da questa vittoria iniziò il suo cammino che lo avrebbe reso Augusto. Ottaviano premiò la città che lo aveva appoggiato, e nuovi coloni, soprattutto veterani, trasformarono il suo territorio. Il periodo dal I secolo a.C. al II secolo d.C. è quello di massima espansione e ricchezza di Mutina, definita splendidissima da Cicerone, nota per la sua industria tessile e ceramica, conosciuta per l'ottimo vino, importante per la sua posizione nel cuore della Regione Emilia. In seguito, la crisi dell'Italia e poi dell'Impero trascinarono Mutina verso una decadenza che si protrasse fino al VI secolo d.C., quando la conquista longobarda – pur tenendo conto della condizione di subalternità rispetto a Bologna che si delineò nel corso del Medioevo – restituì vitalità alla città. Lo sviluppo di epoca romana era tuttavia destinato a rimanere a lungo un vago, ma di certo positivo, ricordo.

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domenica 24 novembre 2013

L'icona indelebile: il mito (e l'antimito) di Giuseppe Garibaldi

(articolo apparso su Prima Pagina del 24 novembre 2013)

In Giuseppe Garibaldi, così come nell'eredità che ha lasciato, convivono due anime opposte, che nel corso dei decenni hanno alimentato il mito dell'Eroe dei due mondi secondo prospettive polivalenti, spesso contraddittorie. «Rivoluzionario disciplinato», come lo definisce il professor Piergiovanni Genovesi nel volume Giuseppe Garibaldi. Il mito, la storia (Franco Angeli, 2011), il Nizzardo è stato capace di sedurre, o al contrario di influenzare polemicamente, pressoché tutti gli orientamenti politici italiani, dal socialismo al fascismo, dalla DC alla Lega Nord di Umberto Bossi.
I volti del mito garibaldino sono molteplici.
A Parma, quando nel 1893 si trattò di inaugurare un monumento a Garibaldi nella piazza centrale della città, le forze popolari da poco insediatesi alla guida del Comune decisero di far coincidere la cerimonia con l'apertura della Camera del Lavoro. Da un punto di vista simbolico, l'obiettivo era quello di celebrare l'immagine rivoluzionaria del Generale, emblema di un'Italia "contro" che marciava compatta verso un fulgido avvenire di giustizia sociale. Con tutta evidenza, siamo qui in presenza di un Garibaldi in camicia rossa, romantico combattente per la libertà: una specie di Che Guevara italiano ante litteram, paladino del popolo in cerca di riscatto.
Una seconda immagine, decisamente più istituzionale, è invece quella del Garibaldi patriota, che non esita a farsi da parte per dovere di lealtà verso re Vittorio, anche a costo di sacrificare le proprie ambizioni fino «a far tacere – come disse il sindaco di Parma celebrandone la memoria il giorno della morte – [...] le aspirazioni agli ideali più cari del suo cuore». Si tratta, chiaramente, di una veste moderata, più rassicurante, che tende, tra i molteplici volti del Nizzardo, a valorizzare il Garibaldi di Teano e dell'Obbedisco.
In questa «oscillazione tra rivoluzione e ordine», scrive Genovesi, è indubbio che il mito garibaldino abbia «insistito specialmente sul primo dei due termini», acquisendo una connotazione politica il più delle volte di sinistra. Basti pensare alla Brigata Garibaldi che, inquadrata nelle Brigate Internazionali, partecipò alla Guerra civile spagnola; oppure all'esperienza delle Brigate Garibaldi durante la Resistenza. Lo stesso fascismo rivoluzionario delle origini – un movimento di chiara matrice socialista difficilmente accostabile alla destra tradizionale – subì il fascino dell'Eroe dei due mondi, suggerendo, nella prospettiva di un ideale completamento del processo risorgimentale, un naturale passaggio di testimone tra le camicie rosse e le camicie nere.
Diverso fu, ovviamente, il garibaldinismo del fascismo governativo, il quale doveva necessariamente tener conto delle pressioni provenienti dagli ambienti monarchici e clericali e, per il suo stesso ruolo di forza politica egemone, non poteva non associare al mito rivoluzionario quello, altrettanto suggestivo, della concretezza mussoliniana. Per certi versi, proprio nella duttile icona di Garibaldi il fascismo individuò un'efficace sintesi delle proprie anime contrastanti; e quando, con la nascita della RSI, la propaganda di partito dovette di fatto riscrivere il Risorgimento per escluderne i Savoia, l'Eroe dei due mondi non fu scalfito dal revisionismo di Salò, ed anzi divenne simbolo di riscatto per quanti andavano incontro al sacrificio per l'onore della patria.
Neppure la fine della guerra portò all'eclissi del mito garibaldino. In un contesto caratterizzato dal netto rigetto dei concetti di patria e nazione ("colpevoli" di essere stati eccessivamente fascistizzati nel corso del Ventennio), il Nizzardo sopravvisse come anello di congiunzione tra il Risorgimento ottocentesco e il secondo Risorgimento democratico dell'Italia repubblicana. Il che si verificò anche perché nel 1945 i partiti che si sarebbero di lì a poco contesi il potere, entrambi estranei alla tradizione nazionale, avevano necessità di recuperare i principali riferimenti simbolici all'italianità.
Significativamente, prima del decisivo voto politico del 18 aprile 1948, gli elettori italiani assistettero ad una drastica contrapposizione iconografica tra il Garibaldi rivoluzionario delle sinistre e quello, moderato, assoldato dalla DC. Così, se alcuni manifesti del fronte popolare invitavano esplicitamente a votare per Garibaldi (peraltro scelto come simbolo della coalizione formata da comunisti e socialisti), è rimasta celebre, sul versante democristiano, l'immagine del Garibaldi-Stalin (ovvero una locandina che mostrava il volto del Nizzardo e, capovolta, quello del dittatore sovietico), mirante a smascherare il finto Garibaldi delle forze progressiste, opposto a quello, vero, di cui volevano riappropriarsi i cattolici e i moderati.
L'Italia repubblicana, dopo una fase iniziale di forte vitalità del mito garibaldino, ha in seguito attraversato un periodo, precisa Genovesi, di «progressivo affievolimento del risvolto politico del tema risorgimentale in generale», che ha coinvolto, inevitabilmente, anche Garibaldi. In una DC stabilmente al governo riemersero infatti le mai sopite diffidenze nei confronti dell'eroe rivoluzionario, mentre in seno al PCI si preferì pian piano sostituire all'immagine del Nizzardo – ideologicamente "instabile" e, di conseguenza, non del tutto piegabile alle esigenze dottrinarie del partito – quella, più affascinante ed ortodossa, di Che Guevara.
Il mito garibaldino fu in parte riportato in auge in occasione del centenario della morte (1982) – il PSI di Craxi se ne appropriò in quegli anni per accreditare l'immagine di un socialismo "tricolore" –, ma è soprattutto nella versione dell'antimito che Garibaldi è stato recuperato dalla simbologia politica più recente. Il volto moderato del Nizzardo, eroe tollerato solo previa subordinazione della sua indole rivoluzionaria al primato della patria, già in passato era stato sfigurato dall'intransigentismo cattolico, determinato a diffondere il ritratto di «un affarista fintamente disinteressato, di un brutale avventuriero, di un massone bestemmiatore». Tuttavia, con l'attenuarsi della contrapposizione tra Stato e Chiesa (e quindi col venir meno della dicotomia tra il Garibaldi santo – persino accostato nell'iconografia a Cristo – dei laici e il Garibaldi blasfemo dei cattolici), la leggenda nera del Garibaldi "mangiapreti" è stata gradualmente rimpiazzata da versioni moderne e per certi versi inedite del tradizionale antimito. Oggi assistiamo infatti ad un complesso ripensamento dell'intero processo risorgimentale, di volta in volta declinato, da nord a sud, secondo le diverse esigenze di parte. Da un lato, i cosiddetti neoborbonici accusano Garibaldi di aver depauperato il Regno Delle Due Sicilie, ridotto a colonia del Piemonte dopo essere stato (addirittura!) la terza potenza mondiale; dall'altro, pure le forze politiche al governo del paese nell'anno della celebrazione del centocinquantenario dell'Unità caldeggiano una rilettura critica del Risorgimento, sulla scia di quanto sostenuto, per esempio, dalla scrittrice cattolica Angela Pellicciari, che sul quotidiano «Libero», il 12 settembre 2009, ha suggerito agli italiani di chiedere scusa al Vaticano per l'unificazione della penisola.
Ma è stata soprattutto la Lega Nord a condurre l'antimito garibaldino su posizioni estremistiche di radicale rifiuto del processo risorgimentale. Nel 2007 un articolo apparso su «la Padania» presentava il Nizzardo come un «massone, ladro di bestiame, trafficante di schiavi, criminale di guerra»; mentre per Umberto Bossi, «i giovani dell'800» che credettero nel Risorgimento altro non furono che degli ingenui ingannati dalle «parole artefatte di Garibaldi, dei Savoia e degli altri stronzi». Nemmeno quegli aspetti del mito garibaldino che, potenzialmente, potrebbero conciliarsi con alcune parole d'ordine leghiste – si pensi, per esempio, alla suggestione dell'antipolitica o all'immagine di Garibaldi quale uomo del popolo – sono riusciti a risparmiare al Generale l'inappellabile sentenza di condanna emessa dai giudici della propaganda "padana". All'Eroe dei due mondi la Lega imputa – sottolinea Genovesi – la «meridionalizzazione del processo unitario», di fatto cancellando coi suoi slogan quell'immagine sentimentale dell'intrepido combattente in camicia rossa che in passato ha scaldato i cuori di milioni di italiani. Per ironia della sorte, proprio l'impresa che pareva avergli donato l'immortalità rischia oggi di essere ascritta a Garibaldi come la più infame delle colpe.

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lunedì 18 novembre 2013

Gramsci vs Togliatti: le prove di un'incompatibilità mai apertamente svelata?

(articolo apparso su Prima Pagina del 17 novembre 2013)

È possibile che Antonio Gramsci, all'inizio degli anni Trenta (e quindi poco prima di morire), abbia preso le distanze dal PCd'I e dal suo apparato supinamente subordinato alle direttive di Mosca? È plausibile ipotizzare una clamorosa drastica rottura con Togliatti, in quegli anni incontrastato arbitro della politica comunista italiana?
Stando a quanto argomenta Franco Lo Piparo nel suo recente saggio intitolato I due carceri di Gramsci, la risposta è «assolutamente sì», con tanto di prove documentarie per anni ignorate, non senza un certo opportunismo, da quanti ancora si ostinano a credere alla favola dell'indolore passaggio di testimone tra il più celebre artefice della scissione di Livorno del 1921 e il futuro ingombrante segretario.
Le vicende legate alla prigionia di Gramsci nelle carceri fasciste sono piuttosto ingarbugliate, e richiedono pertanto una breve introduzione chiarificatrice. Arrestato nel 1926, Gramsci fu condannato a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni di reclusione con sentenza emessa dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato il 4 giugno 1928. Dal carcere di Turi (Bari) il detenuto si trovò al centro di un complesso circuito comunicativo con l'esterno, che si sviluppava in due direzioni: egli dapprima scriveva o parlava con la cognata Tania Schucht, la quale trasmetteva i contenuti dei colloqui all'amico comune Piero Sraffa, stimato economista residente a Cambridge; questi, a sua volta, informava Togliatti e, dopo avere ricevuto istruzioni da quest'ultimo, ricontattava Tania affinché comunicasse nuovamente col prigioniero. Il tutto, ovviamente, sotto il controllo della polizia fascista e sovietica, col risultato che gli scritti che passavano da Turi dovevano utilizzare un linguaggio allusivo e non sempre immediatamente comprensibile.
Gramsci stette in carcere fino al 25 ottobre 1934, quando venne accolta la sua richiesta per la libertà condizionale. L'anno seguente, in condizioni di salute precarie, fu trasferito in una clinica di Roma, finché il 27 aprile 1937, appena sei giorni dopo aver riacquistato la piena libertà, fu stroncato da un'emorragia cerebrale. Come testamento politico lasciò le celebri Lettere e i Quaderni del carcere, oramai un classico del pensiero contemporaneo.
Verso la fine della guerra, sotto l'attenta regia di Togliatti, ebbe inizio il processo di canonizzazione comunista di Gramsci, che è possibile far risalire alla data del 30 aprile 1944. Quel giorno, circa un mese dopo essere rientrato in Italia, Il Migliore pubblicò su «l'Unità» un articolo di commemorazione del fondatore del PCd'I contenente due strumentali falsità: «Strappato violentemente alla vita politica e all'attività di direzione del partito nel 1926, Gramsci passò alcuni mesi nell'isola di deportazione di Ustica e quindi, arrestato, deferito al Tribunale speciale e condannato non uscì più dal carcere. [...] Il risultato dei suoi studi è consegnato in una trentina di quaderni coperti di una fittissima scrittura a penna, che sono pure conservati a Mosca, essendo riuscita una cognata del nostro compagno a trafugarli dalla cella la sera stessa della sua morte, grazie al trambusto creatosi».
Come già si è detto, Gramsci non morì in carcere, così come la scena del tribolato trafugamento dei suoi scritti è inventata di sana pianta. I quaderni furono infatti presi in consegna da Tania, custoditi presso l'ambasciata sovietica a Roma e, successivamente, inviati a Mosca, dove presto finirono nelle mani del Comintern (cioè di Togliatti). Chiaramente, la favola raccontata dal compagno Ercoli era funzionale a mettere «insieme una bella sequenza di immagini di una scena filmica» nella quale il prigioniero Gramsci doveva interpretare il ruolo del martire vittima della tirannia fascista. Ma, si chiede Lo Piparo, possibile che ci fosse dell'altro? Al di là della spudorata menzogna studiata per la propaganda, è verosimile che dietro la volontà di collocare stabilmente Gramsci nell'empireo comunista si nascondesse un'eredità scomoda, potenzialmente dannosa per quello che nel frattempo era diventato il PCI?
Per rispondere, è bene leggere una lettera scritta da Gramsci alla cognata Tania il 27 febbraio 1933. «Questo che ti scrivo – precisa il detenuto – è riservato per te e l'avvocato [Sraffa] che si occupa dei miei affari». Dunque Togliatti, nelle intenzioni del compagno carcerato, deve restarne all'oscuro. E questo già in parte spiega come mai la lettera, definita da Tania «un capolavoro di lingua esopica», non compaia nella prima edizione – supervisionata dal Migliore – delle opere gramsciane del 1947.
Nel suo saggio Lo Piparo analizza la missiva parola per parola. In questa sede è sufficiente fare luce almeno sui principali aspetti controversi. Dopo avere premesso che intende discorrere della sua «situazione morale», Gramsci si interroga sui suoi rapporti con Iulca, la moglie residente in Russia. Ma siccome la lettera, che è con tutta evidenza politica e non privata, è scritta in un duplice codice (anche per ovvi motivi di censura), è facile scorgere dietro la figura di Iulca quella dell'Unione Sovietica e, in definitiva, del comunismo stalinista. Scrive Gramsci: «Sono persuaso che nei miei rapporti con Iulca c'è un certo equivoco, un doppio fondo, una ambiguità che impedisce di veder chiaro e di essere completamente franchi: la mia impressione è di essere tenuto da parte, di rappresentare, per così dire, "una pratica burocratica" da emarginare e nulla più».
Per quale motivo Gramsci, che si trova in carcere, si deve sentire emarginato dalla moglie «come una pratica burocratica»? Se si pensa che pochi anni prima proprio a Togliatti era stata rivolta dallo stesso Gramsci l'accusa di burocraticismo, viene spontaneo pensare che il detenuto intenda rivolgersi al partito piuttosto che alla moglie. Ma andiamo oltre: «Io sono stato condannato il 4 giugno 1928 dal Tribunale Speciale [...]. Ma questo è un errore. Chi mi ha condannato è un organismo molto più vasto [...]. Devo dire che tra questi "condannatori" c'è stata anche Iulca, credo, anzi sono fermamente persuaso, inconsciamente e c'è una serie di altre persone meno inconscie». E chi potrebbero essere questa Iulca e queste «persone meno inconscie» se non l'apparato del partito e, in primis, Togliatti? Gramsci, come confidò a Tania nel 1932, credeva del resto che il partito lo avesse tradito già nel 1928, facendogli avere, durante il processo, una lettera dalla quale era emerso il suo ruolo di primo piano nelle file del comunismo internazionale. Persino il giudice istruttore era rimasto sorpreso da quell'iniziativa apparentemente inspiegabile, giungendo ad affermare: «Onorevole Gramsci, lei ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera».
Un ultimo passo della lettera «esopica» è quello decisivo: «Ho creduto di doverti scrivere perché mi pare di essere giunto a uno svolto decisivo della mia vita, in cui occorre, senza più dilazioni, prendere una decisione. Questa decisione è presa». E se la decisione, suggerisce Lo Piparo, fosse quella di prendere le distanze dall'universo comunista? Poche righe dopo Gramsci pare confermarlo: «Certe volte ho pensato che tutta la mia vita fosse un grande (grande per me) errore, un dirizzone».
Una trattazione più ampia delle riflessioni politico-filosofiche che stavano all'origine dello «svolto decisivo» della sua vita Gramsci la affidò ai Quaderni, un'opera complessa che creò non poco imbarazzo in seno al PCI, costretto a fare i conti con un'eredità che cozzava con i dogmi dell'ortodossia comunista. Bastino queste parole di Togliatti – che costituivano il nocciolo di una lettera inviata nel 1941 a Dimitrov, segretario del Comintern – per documentare le inquietudini del partito: «I quaderni di Gramsci [...] contengono materiali che possono essere utilizzati solo dopo un'accurata elaborazione. Senza tale trattamento il materiale non può essere utilizzato e anzi alcune parti, se fossero utilizzate nella forma in cui si trovano attualmente, potrebbero essere non utili al partito. Per questo io credo che sia necessario che questo materiale rimanga nel nostro archivio per essere qui elaborato». Con tutta evidenza, in nuce era già delineato il progetto di una rigorosa manipolazione della produzione gramsciana, col risultato che, per un'edizione critica integrale dei Quaderni, si dovette attendere il 1975. A quella data, Togliatti era morto da undici anni.
La disamina di Lo Piparo consente dunque di far luce su una vicenda decisamente contorta. Gramsci, a suo parere, negli ultimi anni di vita prese le distanze dal PCd'I. Confidò i suoi dubbi alla cognata Tania, ma non poté prendere una posizione ufficiale, per non mettere in pericolo di ritorsioni la sua famiglia, che viveva in Unione Sovietica. Egli era altresì convinto che lo stesso partito lo avesse emarginato da tempo e spese gli anni di carcere per elaborare, nei Quaderni, un ripensamento del proprio pensiero. La morte e l'attenta opera di mistificazione togliattiana ostacolarono la riuscita del progetto, lasciando irrisolti numerosi interrogativi. Tra questi, quello con cui Lo Piparo prende congedo dai lettori è indubbiamente stimolante: possibile che Mussolini, che di certo era al corrente, tramite la polizia fascista, del ruolo di trait d'union con Mosca svolto da Tania, avesse deciso di non bloccare la produzione e la corrispondenza di Gramsci, nella convinzione che questi rappresentasse un problema per Togliatti? 

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martedì 12 novembre 2013

Nuove cure per un male che sembrava morto: la tubercolosi dalla letteratura all'attualità

(articolo apparso su Prima Pagina del 10 novembre 2013)
 
Seconda probabilmente solo alla peste (che nei secoli ha ispirato celebri pagine, giusto per fare qualche nome, di Sofocle, Tucidide, Lucrezio, Boccaccio, Manzoni), la tubercolosi è senza dubbio una delle malattie più autenticamente "letterarie". Fu l'Ottocento, in particolare, a sancirne la triste fama. Dalla Silvia di Leopardi – che perisce «da chiuso morbo combattuta e vinta» – alla Maria di Fede e bellezza di Niccolò Tommaseo; dalla Margherita de La signora delle camelie di Dumas (figlio) alla Violetta della Traviata di Verdi, la tisi, ossia la tubercolosi polmonare, finì coll'assurgere a incontrastato male del secolo. Il fatto poi che colpisse di frequente giovani donne, per le quali l'età dell'amore veniva inesorabilmente a coincidere con quella della morte, contribuì enormemente a decretarne il successo: il mal sottile, come venne ribattezzata la malattia in quegli anni, sembrava nato appositamente per gli eroi della letteratura. E non solo: anche gli stessi scrittori, siccome la moda del tempo creò uno stretto legame tra intelletto e tubercolosi, finirono talvolta (è il caso di Dumas) per ostentare una salute cagionevole pur essendo sani.
Ovviamente l'equazione tisi = genio, funzionale a sostenere l'ego dei numerosi artisti che contrassero la malattia, non teneva conto delle condizioni di vita che si erano determinate nelle grandi città in seguito alla Rivoluzione industriale. Nei centri urbani affollati dell'epoca, con la forte concentrazione di polveri di carbone prodotte dalle fabbriche, l'elevato numero di senzatetto e la diffusa povertà, i presupposti per la diffusione del bacillo della tubercolosi erano infatti ottimali. Secondo alcune stime, il 70% degli europei fu affetto dalla TBC nel XIX secolo: la morte sopraggiungeva per una persona su sette.
Fu la vita urbana a stravolgere abitudini secolari. Prima che, a partire dalla seconda metà del Settecento, le esigenze produttive industriali svuotassero le campagne per far affluire manodopera nei grandi centri, in Inghilterra le città con più di 50.000 abitanti erano due; un secolo dopo esistevano già 29 metropoli con più di 100.000 abitanti. Lo scrittore canadese Andrew Nikiforuk (autore di un bel libro sulla storia delle epidemie intitolato Il Quarto Cavaliere) definisce «deserti architettonici» questi caotici agglomerati urbani di epoca vittoriana, nei quali mancavano acqua e illuminazione, alberi e spazi aperti erano una rarità e sostanze inquinanti di ogni genere costringevano i polmoni ad «un'esperienza nuova». L'assoluta mancanza di igiene, l'aria malsana e un'alimentazione inadeguata provocarono pertanto un'impennata senza precedenti dei decessi per TBC.
Responsabile della patologia è il Mycobacterium tubercolosis, un batterio – identificato per la prima volta dal medico tedesco Robert Koch nel 1882 – che viene espulso attraverso la tosse o lo sputo e che è in grado di sopravvivere in ambiente chiuso anche per anni. L'evoluzione della tubercolosi, una delle malattie più antiche della storia dell'umanità, è quindi legata ai processi di civilizzazione che, nei secoli, hanno portato l'uomo a vivere in insediamenti sempre più popolosi e confinati. La TBC fu inizialmente trasmessa all'uomo da altri animali: in particolare, secondo il parere di diversi studiosi, sarebbero stati i bovini la causa della comparsa della patologia nell'uomo, a partire dai tempi delle prime domesticazioni (dall'età, quindi, della cosiddetta rivoluzione neolitica, che si situa a ridosso del X millennio a. C.). Le stalle, offrendo protezione e nutrimento anche a quegli esemplari più deboli che in diverse condizioni sarebbero stati vittime della selezione naturale, fecero crescere il tasso di sopravvivenza degli animali malati, favorendo involontariamente la propagazione dell'infezione.
La malattia fu chiaramente identificata dai Greci (tisi, infatti, è una parola di derivazione greca che significa consunzione). Ippocrate ne descrisse con precisione i sintomi (dimagrimento progressivo, tosse, languore, sangue nello sputo), e le sue osservazioni furono rese più precise da Galeno. Durante l'età medievale grande diffusione ebbe invece la tubercolosi ganglionare (allora detta scrofola), che – si credeva a quei tempi – poteva essere guarita dai re d'Inghilterra e di Francia (i cosiddetti «re taumaturghi» di un celebre saggio di Marc Bloch) con il semplice tocco delle mani. Soltanto nel 1546, tuttavia, l'umanista Gerolamo Fracastoro sfatò il mito dell'ereditarietà della TBC, intuendo che si trattasse in realtà di una malattia infettiva e contagiosa. Ma non solo: il medico italiano giunse a scrivere, con grande acutezza, che «la tenacità e la persistenza delle molecole di questi germi nei corpi solidi sono veramente sorprendenti».
Prima ancora che la rivoluzione industriale creasse i presupposti per una diffusione della malattia in proporzioni fino ad allora sconosciute, fu, come detto, la formazione di insediamenti popolosi a favorire l'evoluzione storica della tubercolosi. Se quindi già nel Seicento nelle grandi città inglesi le epidemie di TBC uccidevano in percentuale di uno su quattro, nei secoli delle grandi scoperte geografiche e dei viaggi – ha scritto il professor Antonio Cassone – «l'uomo europeo è stato il grande untore di tubercolosi nel mondo». È risaputo, infatti, che il bacillo di Koch fece la sua comparsa in America in coincidenza con l'afflusso dei "visitatori" del Vecchio Continente, e lo stesso può dirsi per altre zone del mondo (per esempio l'Africa sub-sahariana) che, prima dell'arrivo degli europei, non erano state interessate dalla patologia.
Oggi, paradossalmente, la situazione si presenta capovolta, in conseguenza dei forti flussi migratori che portano in Occidente, spesso in condizioni di estrema povertà, un numero sempre più elevato di persone provenienti da paesi dove la TBC non è mai stata debellata. In Europa, infatti, i progressi scientifici del XIX secolo – dalle osservazioni di Marten e Villemin inerenti alla trasmissibilità per via area dell'agente infettivo alla scoperta di Koch – portarono in breve tempo alla scoperta di un vaccino e di antibiotici che, uniti alle migliorate condizioni igienico-alimentari e a provvedimenti di regolamentazione veterinaria dei bovini, fecero ritenere pressoché definitivamente sconfitto il Mycobacterium tubercolosis. Ma tutto questo, ovviamente, non si verificò nei paesi attualmente in via di sviluppo o in quello che oggi è conosciuto come Terzo Mondo.
Negli ultimi anni, gli spostamenti continui di persone (oggi resi più agevoli, è bene precisarlo, sia in una direzione – verso l'Occidente – che nell'altra – dall'Occidente) hanno rallentato il riflusso della malattia, creando le premesse per una recrudescenza della morbilità della TBC, per certi versi simile a quella che interessò i paesi colpiti dal secondo conflitto mondiale. Volgendo uno sguardo al presente, la tubercolosi è ritenuta dall'OMS tra le patologie infettive più diffuse nel mondo nonché emergente nei paesi industrializzati. Nel 2011 sono stati 473 i casi notificati in Emilia Romagna (con un tasso di incidenza più elevato rispetto alla media nazionale e una sempre più alta percentuale di notifiche in cittadini nati all'estero), di cui 84 a Modena. E il successo terapeutico della malattia rimane al di sotto dell'obiettivo europeo a causa della terapia convenzionale frequentemente interrotta e della farmaco-resistenza.
Come è stato illustrato in occasione della conviviale che lo scorso 7 novembre ha visto riuniti i soci del Lions Club Modena Estense, recenti studi su una nuova formulazione farmaceutica per il trattamento della tubercolosi si prefiggono di sviluppare microparticelle, prodotte con materiali naturali, in grado di essere inalate e di veicolare rapidamente il farmaco ai macrofagi alveolari nei quali si annida il bacillo, cioè direttamente nel sito d'infezione. La formulazione permette di ridurre le dosi di farmaco, gli effetti collaterali e la tossicità migliorando l'efficacia della terapia. Gli obiettivi della ricerca – finanziata con un contributo dello stesso Lions Club Modena Estense – sono stati presentati dalla dott.ssa Valentina Iannuccelli, ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze della Vita dell'Università di Modena e Reggio Emilia, e dalla dott.ssa Eleonora Maretti, laureata in Biotecnologie Mediche e Farmaceutiche presso lo stesso Ateneo. A dispetto delle continue e ripetute decurtazioni dei finanziamenti pubblici, il loro lavoro merita senz'altro di essere incoraggiato.

Focus:
 
Il Lions club international è un'associazione internazionale di servizio comunitario che raccoglie circa 1,5 milioni di soci di 202 paesi. Sua missione è quella di «dar modo ai volontari di servire le loro comunità, rispondere ai bisogni umanitari, promuovere la pace, favorire la comprensione internazionale tramite i Lions Clubs». Il primo Lions (la cui denominazione è costituita dalle iniziali delle parole Liberty Intelligence Our Nations' Safety e il cui emblema è il leone) fu fondato il 7 giugno 1917, a Chicago, dall'assicuratore Melvin Jones.
L'Italia, appartenente al distretto multiplo 108, è divisa in 17 distretti. Quello di cui Modena fa parte è il 108 TB, formato da 89 Clubs.
Il Lions Club Estense quest'anno ha deciso di indirizzare la politica dei propri service verso un concreto sostegno a giovani che mostrino spiccate capacità nei campi scientifico, artistico, letterario o della comunicazione. A questo scopo ha quindi stanziato un contributo a favore di un giovane laureato e per la ricerca sulle innovazioni farmaceutiche per combattere la tubercolosi.

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