lunedì 18 novembre 2013

Gramsci vs Togliatti: le prove di un'incompatibilità mai apertamente svelata?

(articolo apparso su Prima Pagina del 17 novembre 2013)

È possibile che Antonio Gramsci, all'inizio degli anni Trenta (e quindi poco prima di morire), abbia preso le distanze dal PCd'I e dal suo apparato supinamente subordinato alle direttive di Mosca? È plausibile ipotizzare una clamorosa drastica rottura con Togliatti, in quegli anni incontrastato arbitro della politica comunista italiana?
Stando a quanto argomenta Franco Lo Piparo nel suo recente saggio intitolato I due carceri di Gramsci, la risposta è «assolutamente sì», con tanto di prove documentarie per anni ignorate, non senza un certo opportunismo, da quanti ancora si ostinano a credere alla favola dell'indolore passaggio di testimone tra il più celebre artefice della scissione di Livorno del 1921 e il futuro ingombrante segretario.
Le vicende legate alla prigionia di Gramsci nelle carceri fasciste sono piuttosto ingarbugliate, e richiedono pertanto una breve introduzione chiarificatrice. Arrestato nel 1926, Gramsci fu condannato a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni di reclusione con sentenza emessa dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato il 4 giugno 1928. Dal carcere di Turi (Bari) il detenuto si trovò al centro di un complesso circuito comunicativo con l'esterno, che si sviluppava in due direzioni: egli dapprima scriveva o parlava con la cognata Tania Schucht, la quale trasmetteva i contenuti dei colloqui all'amico comune Piero Sraffa, stimato economista residente a Cambridge; questi, a sua volta, informava Togliatti e, dopo avere ricevuto istruzioni da quest'ultimo, ricontattava Tania affinché comunicasse nuovamente col prigioniero. Il tutto, ovviamente, sotto il controllo della polizia fascista e sovietica, col risultato che gli scritti che passavano da Turi dovevano utilizzare un linguaggio allusivo e non sempre immediatamente comprensibile.
Gramsci stette in carcere fino al 25 ottobre 1934, quando venne accolta la sua richiesta per la libertà condizionale. L'anno seguente, in condizioni di salute precarie, fu trasferito in una clinica di Roma, finché il 27 aprile 1937, appena sei giorni dopo aver riacquistato la piena libertà, fu stroncato da un'emorragia cerebrale. Come testamento politico lasciò le celebri Lettere e i Quaderni del carcere, oramai un classico del pensiero contemporaneo.
Verso la fine della guerra, sotto l'attenta regia di Togliatti, ebbe inizio il processo di canonizzazione comunista di Gramsci, che è possibile far risalire alla data del 30 aprile 1944. Quel giorno, circa un mese dopo essere rientrato in Italia, Il Migliore pubblicò su «l'Unità» un articolo di commemorazione del fondatore del PCd'I contenente due strumentali falsità: «Strappato violentemente alla vita politica e all'attività di direzione del partito nel 1926, Gramsci passò alcuni mesi nell'isola di deportazione di Ustica e quindi, arrestato, deferito al Tribunale speciale e condannato non uscì più dal carcere. [...] Il risultato dei suoi studi è consegnato in una trentina di quaderni coperti di una fittissima scrittura a penna, che sono pure conservati a Mosca, essendo riuscita una cognata del nostro compagno a trafugarli dalla cella la sera stessa della sua morte, grazie al trambusto creatosi».
Come già si è detto, Gramsci non morì in carcere, così come la scena del tribolato trafugamento dei suoi scritti è inventata di sana pianta. I quaderni furono infatti presi in consegna da Tania, custoditi presso l'ambasciata sovietica a Roma e, successivamente, inviati a Mosca, dove presto finirono nelle mani del Comintern (cioè di Togliatti). Chiaramente, la favola raccontata dal compagno Ercoli era funzionale a mettere «insieme una bella sequenza di immagini di una scena filmica» nella quale il prigioniero Gramsci doveva interpretare il ruolo del martire vittima della tirannia fascista. Ma, si chiede Lo Piparo, possibile che ci fosse dell'altro? Al di là della spudorata menzogna studiata per la propaganda, è verosimile che dietro la volontà di collocare stabilmente Gramsci nell'empireo comunista si nascondesse un'eredità scomoda, potenzialmente dannosa per quello che nel frattempo era diventato il PCI?
Per rispondere, è bene leggere una lettera scritta da Gramsci alla cognata Tania il 27 febbraio 1933. «Questo che ti scrivo – precisa il detenuto – è riservato per te e l'avvocato [Sraffa] che si occupa dei miei affari». Dunque Togliatti, nelle intenzioni del compagno carcerato, deve restarne all'oscuro. E questo già in parte spiega come mai la lettera, definita da Tania «un capolavoro di lingua esopica», non compaia nella prima edizione – supervisionata dal Migliore – delle opere gramsciane del 1947.
Nel suo saggio Lo Piparo analizza la missiva parola per parola. In questa sede è sufficiente fare luce almeno sui principali aspetti controversi. Dopo avere premesso che intende discorrere della sua «situazione morale», Gramsci si interroga sui suoi rapporti con Iulca, la moglie residente in Russia. Ma siccome la lettera, che è con tutta evidenza politica e non privata, è scritta in un duplice codice (anche per ovvi motivi di censura), è facile scorgere dietro la figura di Iulca quella dell'Unione Sovietica e, in definitiva, del comunismo stalinista. Scrive Gramsci: «Sono persuaso che nei miei rapporti con Iulca c'è un certo equivoco, un doppio fondo, una ambiguità che impedisce di veder chiaro e di essere completamente franchi: la mia impressione è di essere tenuto da parte, di rappresentare, per così dire, "una pratica burocratica" da emarginare e nulla più».
Per quale motivo Gramsci, che si trova in carcere, si deve sentire emarginato dalla moglie «come una pratica burocratica»? Se si pensa che pochi anni prima proprio a Togliatti era stata rivolta dallo stesso Gramsci l'accusa di burocraticismo, viene spontaneo pensare che il detenuto intenda rivolgersi al partito piuttosto che alla moglie. Ma andiamo oltre: «Io sono stato condannato il 4 giugno 1928 dal Tribunale Speciale [...]. Ma questo è un errore. Chi mi ha condannato è un organismo molto più vasto [...]. Devo dire che tra questi "condannatori" c'è stata anche Iulca, credo, anzi sono fermamente persuaso, inconsciamente e c'è una serie di altre persone meno inconscie». E chi potrebbero essere questa Iulca e queste «persone meno inconscie» se non l'apparato del partito e, in primis, Togliatti? Gramsci, come confidò a Tania nel 1932, credeva del resto che il partito lo avesse tradito già nel 1928, facendogli avere, durante il processo, una lettera dalla quale era emerso il suo ruolo di primo piano nelle file del comunismo internazionale. Persino il giudice istruttore era rimasto sorpreso da quell'iniziativa apparentemente inspiegabile, giungendo ad affermare: «Onorevole Gramsci, lei ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera».
Un ultimo passo della lettera «esopica» è quello decisivo: «Ho creduto di doverti scrivere perché mi pare di essere giunto a uno svolto decisivo della mia vita, in cui occorre, senza più dilazioni, prendere una decisione. Questa decisione è presa». E se la decisione, suggerisce Lo Piparo, fosse quella di prendere le distanze dall'universo comunista? Poche righe dopo Gramsci pare confermarlo: «Certe volte ho pensato che tutta la mia vita fosse un grande (grande per me) errore, un dirizzone».
Una trattazione più ampia delle riflessioni politico-filosofiche che stavano all'origine dello «svolto decisivo» della sua vita Gramsci la affidò ai Quaderni, un'opera complessa che creò non poco imbarazzo in seno al PCI, costretto a fare i conti con un'eredità che cozzava con i dogmi dell'ortodossia comunista. Bastino queste parole di Togliatti – che costituivano il nocciolo di una lettera inviata nel 1941 a Dimitrov, segretario del Comintern – per documentare le inquietudini del partito: «I quaderni di Gramsci [...] contengono materiali che possono essere utilizzati solo dopo un'accurata elaborazione. Senza tale trattamento il materiale non può essere utilizzato e anzi alcune parti, se fossero utilizzate nella forma in cui si trovano attualmente, potrebbero essere non utili al partito. Per questo io credo che sia necessario che questo materiale rimanga nel nostro archivio per essere qui elaborato». Con tutta evidenza, in nuce era già delineato il progetto di una rigorosa manipolazione della produzione gramsciana, col risultato che, per un'edizione critica integrale dei Quaderni, si dovette attendere il 1975. A quella data, Togliatti era morto da undici anni.
La disamina di Lo Piparo consente dunque di far luce su una vicenda decisamente contorta. Gramsci, a suo parere, negli ultimi anni di vita prese le distanze dal PCd'I. Confidò i suoi dubbi alla cognata Tania, ma non poté prendere una posizione ufficiale, per non mettere in pericolo di ritorsioni la sua famiglia, che viveva in Unione Sovietica. Egli era altresì convinto che lo stesso partito lo avesse emarginato da tempo e spese gli anni di carcere per elaborare, nei Quaderni, un ripensamento del proprio pensiero. La morte e l'attenta opera di mistificazione togliattiana ostacolarono la riuscita del progetto, lasciando irrisolti numerosi interrogativi. Tra questi, quello con cui Lo Piparo prende congedo dai lettori è indubbiamente stimolante: possibile che Mussolini, che di certo era al corrente, tramite la polizia fascista, del ruolo di trait d'union con Mosca svolto da Tania, avesse deciso di non bloccare la produzione e la corrispondenza di Gramsci, nella convinzione che questi rappresentasse un problema per Togliatti? 

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