domenica 24 novembre 2013

L'icona indelebile: il mito (e l'antimito) di Giuseppe Garibaldi

(articolo apparso su Prima Pagina del 24 novembre 2013)

In Giuseppe Garibaldi, così come nell'eredità che ha lasciato, convivono due anime opposte, che nel corso dei decenni hanno alimentato il mito dell'Eroe dei due mondi secondo prospettive polivalenti, spesso contraddittorie. «Rivoluzionario disciplinato», come lo definisce il professor Piergiovanni Genovesi nel volume Giuseppe Garibaldi. Il mito, la storia (Franco Angeli, 2011), il Nizzardo è stato capace di sedurre, o al contrario di influenzare polemicamente, pressoché tutti gli orientamenti politici italiani, dal socialismo al fascismo, dalla DC alla Lega Nord di Umberto Bossi.
I volti del mito garibaldino sono molteplici.
A Parma, quando nel 1893 si trattò di inaugurare un monumento a Garibaldi nella piazza centrale della città, le forze popolari da poco insediatesi alla guida del Comune decisero di far coincidere la cerimonia con l'apertura della Camera del Lavoro. Da un punto di vista simbolico, l'obiettivo era quello di celebrare l'immagine rivoluzionaria del Generale, emblema di un'Italia "contro" che marciava compatta verso un fulgido avvenire di giustizia sociale. Con tutta evidenza, siamo qui in presenza di un Garibaldi in camicia rossa, romantico combattente per la libertà: una specie di Che Guevara italiano ante litteram, paladino del popolo in cerca di riscatto.
Una seconda immagine, decisamente più istituzionale, è invece quella del Garibaldi patriota, che non esita a farsi da parte per dovere di lealtà verso re Vittorio, anche a costo di sacrificare le proprie ambizioni fino «a far tacere – come disse il sindaco di Parma celebrandone la memoria il giorno della morte – [...] le aspirazioni agli ideali più cari del suo cuore». Si tratta, chiaramente, di una veste moderata, più rassicurante, che tende, tra i molteplici volti del Nizzardo, a valorizzare il Garibaldi di Teano e dell'Obbedisco.
In questa «oscillazione tra rivoluzione e ordine», scrive Genovesi, è indubbio che il mito garibaldino abbia «insistito specialmente sul primo dei due termini», acquisendo una connotazione politica il più delle volte di sinistra. Basti pensare alla Brigata Garibaldi che, inquadrata nelle Brigate Internazionali, partecipò alla Guerra civile spagnola; oppure all'esperienza delle Brigate Garibaldi durante la Resistenza. Lo stesso fascismo rivoluzionario delle origini – un movimento di chiara matrice socialista difficilmente accostabile alla destra tradizionale – subì il fascino dell'Eroe dei due mondi, suggerendo, nella prospettiva di un ideale completamento del processo risorgimentale, un naturale passaggio di testimone tra le camicie rosse e le camicie nere.
Diverso fu, ovviamente, il garibaldinismo del fascismo governativo, il quale doveva necessariamente tener conto delle pressioni provenienti dagli ambienti monarchici e clericali e, per il suo stesso ruolo di forza politica egemone, non poteva non associare al mito rivoluzionario quello, altrettanto suggestivo, della concretezza mussoliniana. Per certi versi, proprio nella duttile icona di Garibaldi il fascismo individuò un'efficace sintesi delle proprie anime contrastanti; e quando, con la nascita della RSI, la propaganda di partito dovette di fatto riscrivere il Risorgimento per escluderne i Savoia, l'Eroe dei due mondi non fu scalfito dal revisionismo di Salò, ed anzi divenne simbolo di riscatto per quanti andavano incontro al sacrificio per l'onore della patria.
Neppure la fine della guerra portò all'eclissi del mito garibaldino. In un contesto caratterizzato dal netto rigetto dei concetti di patria e nazione ("colpevoli" di essere stati eccessivamente fascistizzati nel corso del Ventennio), il Nizzardo sopravvisse come anello di congiunzione tra il Risorgimento ottocentesco e il secondo Risorgimento democratico dell'Italia repubblicana. Il che si verificò anche perché nel 1945 i partiti che si sarebbero di lì a poco contesi il potere, entrambi estranei alla tradizione nazionale, avevano necessità di recuperare i principali riferimenti simbolici all'italianità.
Significativamente, prima del decisivo voto politico del 18 aprile 1948, gli elettori italiani assistettero ad una drastica contrapposizione iconografica tra il Garibaldi rivoluzionario delle sinistre e quello, moderato, assoldato dalla DC. Così, se alcuni manifesti del fronte popolare invitavano esplicitamente a votare per Garibaldi (peraltro scelto come simbolo della coalizione formata da comunisti e socialisti), è rimasta celebre, sul versante democristiano, l'immagine del Garibaldi-Stalin (ovvero una locandina che mostrava il volto del Nizzardo e, capovolta, quello del dittatore sovietico), mirante a smascherare il finto Garibaldi delle forze progressiste, opposto a quello, vero, di cui volevano riappropriarsi i cattolici e i moderati.
L'Italia repubblicana, dopo una fase iniziale di forte vitalità del mito garibaldino, ha in seguito attraversato un periodo, precisa Genovesi, di «progressivo affievolimento del risvolto politico del tema risorgimentale in generale», che ha coinvolto, inevitabilmente, anche Garibaldi. In una DC stabilmente al governo riemersero infatti le mai sopite diffidenze nei confronti dell'eroe rivoluzionario, mentre in seno al PCI si preferì pian piano sostituire all'immagine del Nizzardo – ideologicamente "instabile" e, di conseguenza, non del tutto piegabile alle esigenze dottrinarie del partito – quella, più affascinante ed ortodossa, di Che Guevara.
Il mito garibaldino fu in parte riportato in auge in occasione del centenario della morte (1982) – il PSI di Craxi se ne appropriò in quegli anni per accreditare l'immagine di un socialismo "tricolore" –, ma è soprattutto nella versione dell'antimito che Garibaldi è stato recuperato dalla simbologia politica più recente. Il volto moderato del Nizzardo, eroe tollerato solo previa subordinazione della sua indole rivoluzionaria al primato della patria, già in passato era stato sfigurato dall'intransigentismo cattolico, determinato a diffondere il ritratto di «un affarista fintamente disinteressato, di un brutale avventuriero, di un massone bestemmiatore». Tuttavia, con l'attenuarsi della contrapposizione tra Stato e Chiesa (e quindi col venir meno della dicotomia tra il Garibaldi santo – persino accostato nell'iconografia a Cristo – dei laici e il Garibaldi blasfemo dei cattolici), la leggenda nera del Garibaldi "mangiapreti" è stata gradualmente rimpiazzata da versioni moderne e per certi versi inedite del tradizionale antimito. Oggi assistiamo infatti ad un complesso ripensamento dell'intero processo risorgimentale, di volta in volta declinato, da nord a sud, secondo le diverse esigenze di parte. Da un lato, i cosiddetti neoborbonici accusano Garibaldi di aver depauperato il Regno Delle Due Sicilie, ridotto a colonia del Piemonte dopo essere stato (addirittura!) la terza potenza mondiale; dall'altro, pure le forze politiche al governo del paese nell'anno della celebrazione del centocinquantenario dell'Unità caldeggiano una rilettura critica del Risorgimento, sulla scia di quanto sostenuto, per esempio, dalla scrittrice cattolica Angela Pellicciari, che sul quotidiano «Libero», il 12 settembre 2009, ha suggerito agli italiani di chiedere scusa al Vaticano per l'unificazione della penisola.
Ma è stata soprattutto la Lega Nord a condurre l'antimito garibaldino su posizioni estremistiche di radicale rifiuto del processo risorgimentale. Nel 2007 un articolo apparso su «la Padania» presentava il Nizzardo come un «massone, ladro di bestiame, trafficante di schiavi, criminale di guerra»; mentre per Umberto Bossi, «i giovani dell'800» che credettero nel Risorgimento altro non furono che degli ingenui ingannati dalle «parole artefatte di Garibaldi, dei Savoia e degli altri stronzi». Nemmeno quegli aspetti del mito garibaldino che, potenzialmente, potrebbero conciliarsi con alcune parole d'ordine leghiste – si pensi, per esempio, alla suggestione dell'antipolitica o all'immagine di Garibaldi quale uomo del popolo – sono riusciti a risparmiare al Generale l'inappellabile sentenza di condanna emessa dai giudici della propaganda "padana". All'Eroe dei due mondi la Lega imputa – sottolinea Genovesi – la «meridionalizzazione del processo unitario», di fatto cancellando coi suoi slogan quell'immagine sentimentale dell'intrepido combattente in camicia rossa che in passato ha scaldato i cuori di milioni di italiani. Per ironia della sorte, proprio l'impresa che pareva avergli donato l'immortalità rischia oggi di essere ascritta a Garibaldi come la più infame delle colpe.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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