martedì 12 novembre 2013

Nuove cure per un male che sembrava morto: la tubercolosi dalla letteratura all'attualità

(articolo apparso su Prima Pagina del 10 novembre 2013)
 
Seconda probabilmente solo alla peste (che nei secoli ha ispirato celebri pagine, giusto per fare qualche nome, di Sofocle, Tucidide, Lucrezio, Boccaccio, Manzoni), la tubercolosi è senza dubbio una delle malattie più autenticamente "letterarie". Fu l'Ottocento, in particolare, a sancirne la triste fama. Dalla Silvia di Leopardi – che perisce «da chiuso morbo combattuta e vinta» – alla Maria di Fede e bellezza di Niccolò Tommaseo; dalla Margherita de La signora delle camelie di Dumas (figlio) alla Violetta della Traviata di Verdi, la tisi, ossia la tubercolosi polmonare, finì coll'assurgere a incontrastato male del secolo. Il fatto poi che colpisse di frequente giovani donne, per le quali l'età dell'amore veniva inesorabilmente a coincidere con quella della morte, contribuì enormemente a decretarne il successo: il mal sottile, come venne ribattezzata la malattia in quegli anni, sembrava nato appositamente per gli eroi della letteratura. E non solo: anche gli stessi scrittori, siccome la moda del tempo creò uno stretto legame tra intelletto e tubercolosi, finirono talvolta (è il caso di Dumas) per ostentare una salute cagionevole pur essendo sani.
Ovviamente l'equazione tisi = genio, funzionale a sostenere l'ego dei numerosi artisti che contrassero la malattia, non teneva conto delle condizioni di vita che si erano determinate nelle grandi città in seguito alla Rivoluzione industriale. Nei centri urbani affollati dell'epoca, con la forte concentrazione di polveri di carbone prodotte dalle fabbriche, l'elevato numero di senzatetto e la diffusa povertà, i presupposti per la diffusione del bacillo della tubercolosi erano infatti ottimali. Secondo alcune stime, il 70% degli europei fu affetto dalla TBC nel XIX secolo: la morte sopraggiungeva per una persona su sette.
Fu la vita urbana a stravolgere abitudini secolari. Prima che, a partire dalla seconda metà del Settecento, le esigenze produttive industriali svuotassero le campagne per far affluire manodopera nei grandi centri, in Inghilterra le città con più di 50.000 abitanti erano due; un secolo dopo esistevano già 29 metropoli con più di 100.000 abitanti. Lo scrittore canadese Andrew Nikiforuk (autore di un bel libro sulla storia delle epidemie intitolato Il Quarto Cavaliere) definisce «deserti architettonici» questi caotici agglomerati urbani di epoca vittoriana, nei quali mancavano acqua e illuminazione, alberi e spazi aperti erano una rarità e sostanze inquinanti di ogni genere costringevano i polmoni ad «un'esperienza nuova». L'assoluta mancanza di igiene, l'aria malsana e un'alimentazione inadeguata provocarono pertanto un'impennata senza precedenti dei decessi per TBC.
Responsabile della patologia è il Mycobacterium tubercolosis, un batterio – identificato per la prima volta dal medico tedesco Robert Koch nel 1882 – che viene espulso attraverso la tosse o lo sputo e che è in grado di sopravvivere in ambiente chiuso anche per anni. L'evoluzione della tubercolosi, una delle malattie più antiche della storia dell'umanità, è quindi legata ai processi di civilizzazione che, nei secoli, hanno portato l'uomo a vivere in insediamenti sempre più popolosi e confinati. La TBC fu inizialmente trasmessa all'uomo da altri animali: in particolare, secondo il parere di diversi studiosi, sarebbero stati i bovini la causa della comparsa della patologia nell'uomo, a partire dai tempi delle prime domesticazioni (dall'età, quindi, della cosiddetta rivoluzione neolitica, che si situa a ridosso del X millennio a. C.). Le stalle, offrendo protezione e nutrimento anche a quegli esemplari più deboli che in diverse condizioni sarebbero stati vittime della selezione naturale, fecero crescere il tasso di sopravvivenza degli animali malati, favorendo involontariamente la propagazione dell'infezione.
La malattia fu chiaramente identificata dai Greci (tisi, infatti, è una parola di derivazione greca che significa consunzione). Ippocrate ne descrisse con precisione i sintomi (dimagrimento progressivo, tosse, languore, sangue nello sputo), e le sue osservazioni furono rese più precise da Galeno. Durante l'età medievale grande diffusione ebbe invece la tubercolosi ganglionare (allora detta scrofola), che – si credeva a quei tempi – poteva essere guarita dai re d'Inghilterra e di Francia (i cosiddetti «re taumaturghi» di un celebre saggio di Marc Bloch) con il semplice tocco delle mani. Soltanto nel 1546, tuttavia, l'umanista Gerolamo Fracastoro sfatò il mito dell'ereditarietà della TBC, intuendo che si trattasse in realtà di una malattia infettiva e contagiosa. Ma non solo: il medico italiano giunse a scrivere, con grande acutezza, che «la tenacità e la persistenza delle molecole di questi germi nei corpi solidi sono veramente sorprendenti».
Prima ancora che la rivoluzione industriale creasse i presupposti per una diffusione della malattia in proporzioni fino ad allora sconosciute, fu, come detto, la formazione di insediamenti popolosi a favorire l'evoluzione storica della tubercolosi. Se quindi già nel Seicento nelle grandi città inglesi le epidemie di TBC uccidevano in percentuale di uno su quattro, nei secoli delle grandi scoperte geografiche e dei viaggi – ha scritto il professor Antonio Cassone – «l'uomo europeo è stato il grande untore di tubercolosi nel mondo». È risaputo, infatti, che il bacillo di Koch fece la sua comparsa in America in coincidenza con l'afflusso dei "visitatori" del Vecchio Continente, e lo stesso può dirsi per altre zone del mondo (per esempio l'Africa sub-sahariana) che, prima dell'arrivo degli europei, non erano state interessate dalla patologia.
Oggi, paradossalmente, la situazione si presenta capovolta, in conseguenza dei forti flussi migratori che portano in Occidente, spesso in condizioni di estrema povertà, un numero sempre più elevato di persone provenienti da paesi dove la TBC non è mai stata debellata. In Europa, infatti, i progressi scientifici del XIX secolo – dalle osservazioni di Marten e Villemin inerenti alla trasmissibilità per via area dell'agente infettivo alla scoperta di Koch – portarono in breve tempo alla scoperta di un vaccino e di antibiotici che, uniti alle migliorate condizioni igienico-alimentari e a provvedimenti di regolamentazione veterinaria dei bovini, fecero ritenere pressoché definitivamente sconfitto il Mycobacterium tubercolosis. Ma tutto questo, ovviamente, non si verificò nei paesi attualmente in via di sviluppo o in quello che oggi è conosciuto come Terzo Mondo.
Negli ultimi anni, gli spostamenti continui di persone (oggi resi più agevoli, è bene precisarlo, sia in una direzione – verso l'Occidente – che nell'altra – dall'Occidente) hanno rallentato il riflusso della malattia, creando le premesse per una recrudescenza della morbilità della TBC, per certi versi simile a quella che interessò i paesi colpiti dal secondo conflitto mondiale. Volgendo uno sguardo al presente, la tubercolosi è ritenuta dall'OMS tra le patologie infettive più diffuse nel mondo nonché emergente nei paesi industrializzati. Nel 2011 sono stati 473 i casi notificati in Emilia Romagna (con un tasso di incidenza più elevato rispetto alla media nazionale e una sempre più alta percentuale di notifiche in cittadini nati all'estero), di cui 84 a Modena. E il successo terapeutico della malattia rimane al di sotto dell'obiettivo europeo a causa della terapia convenzionale frequentemente interrotta e della farmaco-resistenza.
Come è stato illustrato in occasione della conviviale che lo scorso 7 novembre ha visto riuniti i soci del Lions Club Modena Estense, recenti studi su una nuova formulazione farmaceutica per il trattamento della tubercolosi si prefiggono di sviluppare microparticelle, prodotte con materiali naturali, in grado di essere inalate e di veicolare rapidamente il farmaco ai macrofagi alveolari nei quali si annida il bacillo, cioè direttamente nel sito d'infezione. La formulazione permette di ridurre le dosi di farmaco, gli effetti collaterali e la tossicità migliorando l'efficacia della terapia. Gli obiettivi della ricerca – finanziata con un contributo dello stesso Lions Club Modena Estense – sono stati presentati dalla dott.ssa Valentina Iannuccelli, ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze della Vita dell'Università di Modena e Reggio Emilia, e dalla dott.ssa Eleonora Maretti, laureata in Biotecnologie Mediche e Farmaceutiche presso lo stesso Ateneo. A dispetto delle continue e ripetute decurtazioni dei finanziamenti pubblici, il loro lavoro merita senz'altro di essere incoraggiato.

Focus:
 
Il Lions club international è un'associazione internazionale di servizio comunitario che raccoglie circa 1,5 milioni di soci di 202 paesi. Sua missione è quella di «dar modo ai volontari di servire le loro comunità, rispondere ai bisogni umanitari, promuovere la pace, favorire la comprensione internazionale tramite i Lions Clubs». Il primo Lions (la cui denominazione è costituita dalle iniziali delle parole Liberty Intelligence Our Nations' Safety e il cui emblema è il leone) fu fondato il 7 giugno 1917, a Chicago, dall'assicuratore Melvin Jones.
L'Italia, appartenente al distretto multiplo 108, è divisa in 17 distretti. Quello di cui Modena fa parte è il 108 TB, formato da 89 Clubs.
Il Lions Club Estense quest'anno ha deciso di indirizzare la politica dei propri service verso un concreto sostegno a giovani che mostrino spiccate capacità nei campi scientifico, artistico, letterario o della comunicazione. A questo scopo ha quindi stanziato un contributo a favore di un giovane laureato e per la ricerca sulle innovazioni farmaceutiche per combattere la tubercolosi.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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