lunedì 2 dicembre 2013

L'intramontabile fascino della romanità

(articolo apparso su Prima Pagina del 1° dicembre 2013)

Introduzione di Luigi Malavasi Pignatti Morano

 

Nella Premessa al libro Quando a Modena c'erano i Romani (di prossima pubblicazione per i tipi di Terra e Identità), l'autore, Gabriele Sorrentino, illustra con queste parole le ragioni che stanno all'origine del volume: «A differenza di quanto spesso avviene con i sogni infantili, il fascino della Civiltà Romana non è mai tramontato in me».
Va detto che, nell'essere attratto dalla romanità, Sorrentino è in buona compagnia. Uno degli aspetti più sorprendenti del fascino che promana dalla Città Eterna è infatti la sua capacità di conservarsi intatto per secoli, sino ai giorni nostri. Nessun'altra città ha avuto, nella storia della civiltà occidentale, un ruolo paragonabile a quello di Roma. Volendo ricordare altri esempi "mitici", Atene e Sparta sono rimaste pressoché fossilizzate nel ricordo di letterati poco interessati al loro presente; Troia non sopravvive se non come teatro dell'Iliade; Cartagine è conosciuta quasi esclusivamente per Annibale e le guerre puniche; forse solo Gerusalemme – ma con le debite proporzioni – può essere accostata a Roma, dal momento che possiede un potere di fascinazione che non è mai dipeso dal suo ruolo politico.
Roma, da Carlo Magno a Mussolini, non ha mai smesso di essere un faro per la civiltà occidentale, anche dopo che dei suoi fasti imperiali non era rimasto che il ricordo. Indubbiamente la sua sopravvivenza come centro urbano di una certa rilevanza ha contribuito a perpetuarne il mito, continuamente alimentato dalla permanenza sul suolo dell'Urbe di maestose rovine in grado di evocare l'antico splendore. Ma non è solo questo a rendere Roma una città unica. È sotto l'aspetto simbolico che essa ha suggestionato l'umanità nel corso dei secoli. Dal martirio di Pietro e Paolo, che ne ha reso immortale il prestigio nel mondo cristiano, alle cerimonie di incoronazione di Carlo Magno e, dopo di lui, dei sovrani germanici; da Napoleone, che dopo il colpo di Stato del 18 brumaio pretese per sé, con evidente riferimento alla classicità, la carica di Primo Console, a Mussolini, che volle dar vita, dopo quella dei Cesari e dei Papi, alla grande Roma fascista, la Città Eterna è sempre stata sinonimo di grandezza, magnificenza e potere.
Oggi cosa resta del mito di Roma? Innegabilmente, come è accaduto per i concetti di patria e di nazione, anche quello della romanità ha risentito del lungo processo di defascistizzazione culturale avviato in Italia al termine del secondo conflitto mondiale. Il richiamo dei fasci littori e dei saluti col braccio teso evoca ancora – inutile negarlo – brutti ricordi. Ma Roma non se la passa benissimo nemmeno come cuore pulsante della cristianità, col paradosso che proprio l'istituzione che più di tutte ha contribuito ad eternarne la fama – la Chiesa – è considerata oramai dai più una palla al piede per il prestigio della città. Come negare, infatti, che da un punto di vista mediatico il papato sia sotto attacco, con accuse di intolleranza, corruzione e pedofilia che, come palle di cannone, piovono da tutte le parti entro le mura vaticane? E infine che dire della Roma ladrona che turba il sonno di milioni di "padani"? I miti – la storia insegna – non sono immortali, e possono anche essere ribaltati in antimiti. Roma, con la sua civiltà, la sua sacralità e il suo fascino di Città Eterna, merita questo scialbo tramonto?

 

      

L'accusa di Paolo Molteni

 

«I Romani non furono certo una schiatta di civilizzatori e santi»

 

Roma continua ad essere un mito inossidabile. Non si può dire che la leggenda di Roma sia dura a morire, perché in realtà non ha mai attraversato momenti critici, ma ha sempre goduto e continua a godere di ottima salute. Ci viene continuamente propinata la medesima solfa: Roma è un faro di civiltà che ha portato il diritto e il progresso ovunque ha messo piede.
È ovvio che questa convinzione ne sottende un'altra, non espressa ufficialmente ma sua naturale conseguenza. Ovvero che i luoghi che hanno subito la conquista e la dominazione di Roma, prima di incontrare questa fonte di civiltà fossero abitati da popolazioni incivili, arretrate, indegne quasi di appartenere al genere umano.
Ritengo che questo modo di vedere le cose appartenga appunto alla sfera del mito nel senso più pieno del termine. Ovvero che non abbia nulla a che fare con la realtà. Si tratta semplicemente dei frutti di una delle prime manifestazioni della storia scritta ad uso e consumo del vincitore. I Romani, dopo aver sconfitto i nemici, averne occupato le terre e averne trasformato gli abitanti in sudditi, hanno cominciato a scrivere per se stessi e per i posteri che le loro conquiste hanno portato ovunque pace e prosperità. Si sono astenuti solo dal vantarsi di aver portato la democrazia, perché allora non era ancora di moda.
In realtà, che i Romani fossero questa schiatta di civilizzatori e santi, non mi risulta proprio. Sono stati semplicemente bravi a capire che piuttosto che guadagnarsi l'esistenza quotidiana spandendo il proprio sudore, era più comodo campare a spese degli altri. Una mentalità che fino a quel momento aveva trovato frotte di estimatori solo in Oriente dove sorsero i primi Stati sovranazionali esito di campagne di conquista di popoli espansionisti.
Non a caso nessuna delle popolazioni che, una dopo l'altra, sono cadute sotto il giogo romano, ha rinunciato alla propria libertà senza combattere. E i progenitori dei modenesi, ovvero i Galli Boi, sotto questo aspetto sono stati un esempio di fierezza, di indomito attaccamento alla propria indipendenza e di spirito combattivo.
Non è il caso di dilungarci spiegando come la società celtica non possa essere definita incivile e arretrata. Ampi studi le hanno restituito la dignità che merita. Si trattava semplicemente di una realtà molto diversa da quella romana, ma non per questo inferiore. Aveva suoi usi e costumi, un proprio diritto, una solidarietà tribale che i Romani, perennemente dilaniati dai conflitti di ceto, si sognavano. E soprattutto erano orgogliosi del loro modo di vivere e non disposti a rinunciarvi senza combattere fino allo stremo.
Dall'altra parte c'era Roma, i cui oligarchi non esitavano a mettere a ferro e fuoco il Mediterraneo e a far scorrere fiumi di sangue per poter spendere la gloria così acquisita nella competizione per accedere alle cariche cittadine di comando. E questa sarebbe civiltà?
In definitiva penso che i Romani avessero una loro idea del mondo, all'interno della quale tutti gli altri popoli erano pedine sacrificabili. Hanno costruito un grande impero, è vero! E hanno lasciato in eredità agli europei di oggi leggi e istituzioni, anche questo è vero! Ma hanno anche distrutto nazioni e brutalizzato popolazioni altrettanto "civili", assoggettandole a uno Stato e togliendo loro la libertà. E la libertà resta il bene primario, che non può essere barattato con nulla al mondo.

 

 

La difesa di Gabriele Sorrentino

 

«La colonizzazione romana della Cisalpina fece di Mutina una città “splendidissima”»

 

Nel 183 a.C. i Romani dedussero, cioè costituirono, la colonia di Mutina su un precedente insediamento etrusco conquistato dai Boi. Modena, quindi, fu fondata dagli Etruschi intorno al VI secolo a.C. Secondo le teorie più accreditate, il toponimo Muthiena ricorderebbe la gens, cioè la famiglia, dei primi fondatori o comunque di coloro che guidarono la prima etruschizzazione della zona. I Celti conquistarono il territorio modenese solo nel IV secolo a.C., e dal III secolo a.C. i Romani cominciarono la lenta e inesorabile penetrazione nella Pianura Padana che ebbe l'unica significativa battuta d'arresto con la Seconda Guerra Punica (218-202 a.C.), la quale scatenò la più violenta rivolta gallica.
Insomma Modena fu prima etrusca e celtica che romana. In verità, secondo la storiografia più recente, fu soprattutto etrusca perché i Celti colonizzarono con forza Felsina (che non a caso cambiò nome in Bononia, città dei Boi) ma si limitarono a presidiare il territorio circostante, tanto che a Modena è ipotizzabile una preminenza etrusca che avrebbe suggerito ai Romani, durante la Seconda Guerra Punica, di rifugiarsi in città dove, secondo il racconto di Livio, trovarono a proteggerli possenti mura che mal di sposano con la vulgata che vede la città romana fondata su un castrum e non su un centro ancora attivo.
Dopo la definitiva conquista della Pianura Padana e la costruzione della via Emilia (duemila anni fa nel 187 a.C.), Marco Emilio Lepido fu il fautore di una robusta politica di colonizzazione che aveva lo scopo di romanizzare i Celti e i Liguri e di ripagare la plebe romana e gli alleati italici del lungo sforzo delle Guerre Puniche. Fu proprio Lepido (insieme con T. Eburzio Parro e L. Quinzio Crispino) a dedurre Mutina nel 183 a. C., e quindi è lui il nuovo fondatore della città, dopo il misterioso Muthiena del VI secolo a.C.
La storia di Modena e del suo territorio cambiò profondamente con la conquista romana. Se la città etrusca prima e celtica poi era stata un piccolo centro nell'orbita di Felsina/Bononia, Mutina, colonia di diritto romano nel cuore della pianura, divenne il centro di riferimento tanto da essere spesso sede del governatore della Gallia Cisalpina. I Romani centuriarono la pianura, tracciando quella rete di campi, strade e canali che è ancora intuibile nella nostra campagna modenese da una qualsiasi foto aerea.
Centro di prima importanza, nel 43 a.C. fu teatro della Guerra di Modena che vide affrontarsi intorno alle sue mura uomini della caratura di Bruto, Antonio e Ottaviano, il quale proprio da questa vittoria iniziò il suo cammino che lo avrebbe reso Augusto. Ottaviano premiò la città che lo aveva appoggiato, e nuovi coloni, soprattutto veterani, trasformarono il suo territorio. Il periodo dal I secolo a.C. al II secolo d.C. è quello di massima espansione e ricchezza di Mutina, definita splendidissima da Cicerone, nota per la sua industria tessile e ceramica, conosciuta per l'ottimo vino, importante per la sua posizione nel cuore della Regione Emilia. In seguito, la crisi dell'Italia e poi dell'Impero trascinarono Mutina verso una decadenza che si protrasse fino al VI secolo d.C., quando la conquista longobarda – pur tenendo conto della condizione di subalternità rispetto a Bologna che si delineò nel corso del Medioevo – restituì vitalità alla città. Lo sviluppo di epoca romana era tuttavia destinato a rimanere a lungo un vago, ma di certo positivo, ricordo.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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