lunedì 9 dicembre 2013

La psicosi del nemico interno: il male inguaribile della comunicazione politica italiana

(articolo apparso su Prima Pagina dell'8 dicembre 2013)

La tesi centrale de Il nemico interno, interessante saggio di Angelo Ventrone pubblicato da Donzelli nel 2005, è che la propaganda politica fatichi enormemente a superare una visione manichea della realtà secondo la quale è molto più conveniente delegittimare l'avversario (una persona, un partito, una nazione, un popolo) che instaurare con esso un dialogo costruttivo, incentrato sulle differenti proposte. Il rivale, in altre parole, rappresenta inevitabilmente il male da cui difendersi, il nemico interno, appunto, sospettato di tramare contro la patria per fini loschi o, più di frequente, perché colluso con un più potente nemico esterno che ne tira i fili a mo' di diabolico burattinaio.
Nella storia dell'Italia contemporanea questa psicosi del nemico interno è stata associata il più delle volte alla guerra. Già nel 1911, con lo scoppio del conflitto coloniale in Libia, l'opinione pubblica si divise nettamente nei due tronconi di chi era favorevole all'intervento e chi, come il PSI, protestava che l'invasione di un paese africano non avrebbe fatto altro che depauperare le casse dello Stato. Ma fu, ovviamente, la Grande Guerra a creare le condizioni per un inasprimento senza precedenti dei toni della propaganda, che divenne strumento di feroce accusa di un avversario che si voleva far passare, a seconda dei casi, o per disfattista antipatriottico, o per traditore dei reali interessi della nazione. Tanto i neutralisti (in particolar modo i socialisti) quanto gli interventisti furono tacciati di collusione col nemico esterno, individuato, in un caso, con la Germania di Guglielmo II – vorace mostro imperialista –, nell'altro con il capitalismo internazionale, responsabile della carneficina europea.
L'ossessione antigermanica, in particolare, accentuò una tendenza già piuttosto diffusa nel quadro politico italiano: il ricorso allo stereotipo quale strumento privilegiato per screditare il nemico. Così, se il tedesco veniva rappresentato come il più temibile dei barbari, in quanto in possesso di tecnologie potenzialmente devastanti in campo bellico, divenne quasi automatico, negli anni seguenti, associare agli Stati Uniti l'immagine del borghese corrotto, anche fisicamente, dal capitalismo, e all'Unione Sovietica quella del povero che soffre la fame. In quest'ottica, è interessante notare che la propaganda fascista condannava sia USA che URSS, poiché entrambe, rileva Ventrone, erano accomunate «dall'interesse esclusivo per la dimensione materiale dell'esistenza» come conseguenza, rispettivamente, della plutocrazia e della dittatura comunista. Proprio questo intendeva infatti Mussolini quando affermava «Noi siamo contro la vita comoda», nel contesto della cosiddetta battaglia contro quel «comfortismo» da cui derivavano l'attaccamento alla ricchezza come valore supremo e l'egoismo individualista.
Tra la propaganda di demonizzazione del nemico esterno e quella mirante a screditare il nemico interno i punti di contatto erano molteplici. Durante la prima guerra mondiale un efficace strumento per alimentare l'odio antisocialista divenne persino l'eugenetica, dal momento che si riteneva che l'abuso di alcool e la diffusione della sifilide tra le classi operaie fossero le naturali conseguenze di una progressiva degenerazione biologica. Di contro, il PSI ribatteva che la guerra borghese avrebbe provocato un abbrutimento generalizzato del proletariato, costretto a rinunciare ai tradizionali vincoli di solidarietà di classe senza alcuna possibilità di far valere le proprie ragioni. E quando, al termine del conflitto, apparve all'orizzonte la minaccia del fascismo, divenne pressoché automatico attribuire a quest'ultimo – in ideale continuità con la propaganda precedente – il ruolo di braccio armato della borghesia, che avrebbe scatenato sul popolo un'aggressività paragonabile a quella di un'epidemia. Da allora al movimento mussoliniano fu sempre accostata l'immagine della morte.
La dittatura fascista, ad ogni modo, fu l'abile regista di una propaganda che radicalizzò ulteriormente la tendenza ad evidenziare la bestialità dell'avversario, sia che esso fosse il bolscevico, l'ebreo o il plutocrate. Terminato il secondo conflitto mondiale, lo sgomento provato di fronte alla scoperta dei campi di sterminio nazisti rese improponibile, nell'ambito della comunicazione politica, qualunque richiamo alla razza. Nondimeno, lo scontro ideologico continuò ad essere concepito come un'aspra lotta contro il nemico interno, che venne riproposto nelle sembianze, da un lato, della morte che divorava i paesi soggetti al comunismo, dall'altro, del guerrafondaio al soldo degli americani.
L'aspetto senza dubbio più significativo della propaganda dell'Italia repubblicana è dunque la sopravvivenza del linguaggio aggressivo tipico del periodo dei due conflitti mondiali e della dittatura. Forse fu l'assuefazione, dopo vent'anni di regime, alla violenza a mantenere vivo l'odio ideologico; ma, a ben vedere, decisiva si rivelò la mancata volontà di interrogarsi sulle ragioni che avevano spianato la strada all'avvento del fascismo, al punto che rinnegare il passato – e soprattutto le responsabilità personali e collettive connesse con esso – parve a tutti la più comoda delle soluzioni.  
La democrazia italiana fu dunque istituita da formazioni politiche il cui habitus mentale – sottolinea Ventrone – era «fatto di comportamenti e di atteggiamenti non coerenti con un sistema [...] pluralistico». Ovviamente, in un tale contesto, la guerra fredda non poteva far altro che soffiare sul fuoco delle contrapposizioni dottrinarie, perpetuando un modo di comunicare in politica incentrato più sulle carenze (per usare un eufemismo) dell'avversario che non sulle proposte e sui programmi. Ciò ha fatto sì, prosegue Ventrone, che l'ingrediente fondamentale della propaganda sia tuttora la sua «componente "persecutiva"», in base alla quale la preoccupazione principale dev'essere quella di presentare i vantaggi connessi con una determinata scelta politica essenzialmente attraverso la raffigurazione del «pericolo rappresentato dalla presenza del nemico, del negativo da cui difendersi».
I due manifesti del 1948 qui accanto riportati hanno quindi in comune un aspetto fondamentale: chiedono entrambi – in un caso esplicitamente – un voto contro. Contro la mortale minaccia sovietica si invitavano gli elettori a votare DC; contro «i provocatori di guerre, i venduti allo straniero» – ma anche contro un De Gasperi «cecchino di Truman», raffigurato con l'elmo chiodato tipico del "barbaro" esercito germanico – si chiedeva di votare per il Fronte popolare. Lo scontro pareva di natura religiosa, oltre che politica. Del resto, come scrisse la «Civiltà Cattolica» il 18 aprile 1953, la dialettica tra opposte fazioni era in realtà una «battaglia [...] fra Cristo e Barabba». In quest'ottica si mantenne altresì forte, grosso modo fino agli anni Settanta, il timore di un ritorno al passato dittatoriale, espresso dalle forze di sinistra attraverso lo strumentale accostamento di fascismo e DC e da quest'ultima con la teoria dei cosiddetti «opposti estremismi», in base alla quale il partito di ispirazione cattolica rappresentava l'unico baluardo contro il duplice pericolo nero e rosso.
Come si vede, la continuità tra fascismo e post-fascismo, piuttosto evidente a livello iconografico, non può stupire più di tanto tenuto conto delle premesse. Al riguardo, oltre a quanto già rilevato, va detto anche che tanto la DC quanto il PCI ereditarono dal movimento mussoliniano l'ossessione per la difesa della coesione sociale e la morigeratezza dei costumi, che si credevano minacciate rispettivamente dal materialismo marxista e dall'individualismo di derivazione capitalista.
Sia chiaro, una visione di questo tipo non implica necessariamente il rifiuto aprioristico di qualsiasi forma di dialogo tra diverse fazioni: basterebbe la comune intesa in funzione antifascista che è all'origine della Costituzione a dare prova della presenza, accanto ai laceranti motivi di divisione, di significativi punti di contatto tra le forze politiche del dopoguerra, le quali hanno peraltro trovato un inaspettato elemento aggregatore nel crescente benessere di una società italiana sempre più omologata da processi consumistici e di secolarizzazione. Tuttavia è innegabile che la delegittimazione dell'avversario costituisca tuttora una componente essenziale – e preoccupante – della dialettica tra partiti. Pur tenendo conto di alcune importanti novità – come la trasformazione della propaganda in persuasione parapubblicitaria, l'accentuata valorizzazione delle qualità personali dei leader, il passaggio dalla mobilitazione per fini collettivi al cosiddetto voto d'opinione –, pare infatti evidente che il virus della demonizzazione del nemico interno non possa ancora dirsi smaltito. Caduta la DC (e non è certo una coincidenza che essa sia crollata proprio dopo lo scioglimento del PCI), la «discesa in campo» di Silvio Berlusconi nel 1994 ha riportato la comunicazione politica sul familiare terreno dell'invettiva. Forza Italia si presentò infatti allora come un partito sorto in difesa della libertà continuamente minacciata dai comunisti, dalla magistratura, dalla cultura e, paradossalmente, dalla stessa politica; di contro, da vent'anni le forze di sinistra si ergono a baluardo in difesa della democrazia che – sostengono – è in pericolo per il solo fatto che Berlusconi esiste. Possibile che l'italiano del 2013 debba ancora convivere con l'incubo del nemico dentro casa?

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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