domenica 22 dicembre 2013

Un regime «che perde elezioni a ripetizione»: lo strano “fascismo” di Silvio Berlusconi

(articolo apparso su Prima Pagina del 22 dicembre 2013)

A proposito di Silvio Berlusconi, dieci anni fa lo storico inglese Paul Ginsborg azzardò una previsione su cui vale la pena riflettere: «Sarebbe forse del tutto fantasioso – scrisse in un suo saggio – immaginare che nel 2013 i "piccoli forzisti" vadano a letto stringendo nella manina il medaglione di Silvio B., come facevano i piccoli Balilla con quello del duce nel 1935?».
Occorre innanzitutto prevenire un'obiezione: Ginsborg non riteneva che l'Italia di inizio Terzo Millennio fosse paragonabile a quella degli anni Trenta. Ciò che intendeva suggerire era che Berlusconi rappresenta per i suoi seguaci un autentico mito, il classico personaggio rispetto al quale è impossibile restare indifferenti. O lo si ama, o lo si odia. In questo lo studioso britannico aveva indubbiamente visto giusto, anche se, passati dieci anni dall'uscita del saggio da cui sono tratte le righe appena citate, la fama del Cavaliere è senza dubbio in declino e – con buone probabilità – sono pochi i novelli Balilla che si addormentano abbracciando un medaglione con le sue iniziali.
Ciò che invece non accenna per nulla a placarsi è il forte, a tratti ossessivo, sentimento antiberlusconiano radicato in quella porzione di italiani che al fondatore di Forza Italia non ha mai accordato il proprio consenso. Per buona parte di questa consistente fetta di cittadinanza l'accostamento Berlusconi-Mussolini non è affatto fuori luogo: pur riconoscendo che il regime del duce era altra cosa, che – come ironizza Giovanni Orsina nello studio che è all'origine di questo articolo – oggi «Umberto Eco a Ventotene ci va – se lo vuole – in vacanza», gli antiberlusconiani continuano ad associare il Cavaliere al fascismo. Basta consultare Google per imbattersi in decine di fotomontaggi come quelli qui riportati: immagini innocue, non c'è dubbio, ma che acquistano per il semplice fatto di essere così diffuse un'innegabile valenza politica. Per quale motivo Berlusconi è considerato un fascista? In che senso, poi, potrebbe esserlo entro i confini di uno Stato repubblicano che ha bandito il fascismo dalle proprie istituzioni?
Per rispondere a queste domande è necessario fare un passo indietro e riflettere brevemente sul concetto di antifascismo. Giovanni Orsina, nel suo saggio contenuto nel volume L'ossessione del nemico (miscellanea a cura di Angelo Ventrone edita da Donzelli nel 2006), distingue tra antifascismo e Antifascismo, intendendo con il primo «l'opposizione al fascismo storico e a quel che ha significato», e con il secondo un «patrimonio  ideologico» che ha subito un «sovraccarico concettuale».
Per prima cosa, l'Antifascismo legge la storia d'Italia individuando nell'esperienza resistenziale una forte cesura tra l'intero periodo monarchico-unitario (fascista e prefascista) e quello repubblicano. L'interpretazione «assai forzata» della Resistenza come movimento popolare di massa consente di vedere in quello che è stato considerato un secondo Risorgimento non soltanto una prosecuzione dell'esperienza unificatrice ottocentesca, ma anche – secondo prospettive più radicali – un'autentica rivincita nei confronti di quest'ultima. Perché questa interpretazione sia possibile è però necessario considerare il fascismo non come una parentesi o il risultato di una concatenazione di prevaricazioni, bensì come il naturale prodotto di una congerie di vizi tradizionalmente italici sui quali è necessario affondare il bisturi del rinnovamento. L'ovvia conseguenza di questo processo non può che essere il suddetto sovraccarico ideologico, in base al quale l'accusa di essere un fascista può essere facilmente rivolta contro chiunque «impersoni quei fattori storici dei quali si presume che il regime mussoliniano sia stato il prodotto». Paradossalmente, persino il PCI – cui è stata a lungo contestata una sorta di apatia rivoluzionaria – ha subito in passato tentativi di delegittimazione che andavano in questa direzione.
L'aspetto più radicale dell'Antifascismo è senza dubbio la pretesa superiorità morale rispetto agli avversari (come visto, potenzialmente infiniti). Al "fascista", in altre parole, è proibito fare concessioni. In quanto nemico, egli sarà sempre un individuo spregevole guidato esclusivamente dai propri interessi; non un uomo dalla cultura distorta, ma un uomo di non-cultura; non un italiano in errore, bensì un non-italiano indegno di far parte della comunità nazionale.
Su questo terreno l'Antifascismo è giunto gradualmente.
Negli anni Cinquanta, in epoca centrista, la riflessione storiografica sulla Resistenza aveva interessato pressoché solo le forze progressiste, essendo la cultura moderata preoccupata che l'enfasi sulla lotta di liberazione e le origini dell'Italia repubblicana potesse giovare oltremodo al PCI. Di conseguenza, quando nel decennio successivo l'antifascismo tornò alla ribalta – come unica possibile piattaforma d'intesa tra i partiti che si apprestavano ad inaugurare la stagione del centro-sinistra –, esso finì per connotarsi secondo il paradigma Antifascista, dal momento che le interpretazioni non-Antifasciste delle vicende inerenti alla recente storia d'Italia avevano ormai accumulato un ritardo culturale impossibile da ignorare. Di fatto, isolando per anni la sinistra, la DC le concesse una sorta di esclusiva sull'utilizzo di un antifascismo destinato a gonfiarsi a dismisura.
Decisivo si rivelò, in questo processo degenerativo, il fallimento dell'esperimento di Tambroni di aprire al MSI, che di fatto rese improponibile, per il futuro, qualunque ipotesi di governo sorretto, seppure democraticamente, dalla destra. Di lì a poco – precisa Orsina –, la svolta degli anni Sessanta e il progetto del centro-sinistra coincisero con il battesimo dell'Antifascismo quale «ideologia ufficiale» della politica italiana, con la conseguente «estensione dell'area dell'illegittimità repubblicana oltre i confini del neofascismo, al conservatorismo e al moderatismo». Con questo, si badi, non si deve intendere che le forze moderate furono escluse dal governo: tutt'altro. Semplicemente esse dovettero subire in quegli anni, sul piano culturale, l'emarginazione del proprio conservatorismo – sospinto al di fuori della legittimità repubblicana –, e si trovarono costrette a «mascherarsi sotto volti posticci». Il che creò quello iato tra prassi di governo e cultura politica che fu alla base delle contestazioni sessantottine e che a lungo andare consentì il radicarsi della convinzione, tuttora largamente condivisa, che «la soluzione dei mali d'Italia» risieda «in una rivoluzione di carattere morale più che economico e sociale», ovviamente di stampo rigorosamente Antifascista.
Questo aspetto è, a ben vedere, determinante. Il fallimento del progetto riformistico del centro-sinistra e la parallela degenerazione, sul piano etico, del sistema dei partiti crearono le premesse, grosso modo a partire dagli anni Settanta, per uno slittamento del paradigma Antifascista dal terreno economico a quello culturale. L'enfasi che Enrico Berlinguer – segretario del principale partito Antifascista – pose sulla questione morale è del resto piuttosto eloquente. Si trattava, in sostanza, di salvaguardare l'orgoglio di una diversità che fungesse da pretesto – forse l'unico rimasto, vista la crisi dell'intero blocco comunista – per ribadire, con rinnovata altezzosità, la propria estraneità rispetto alle altre forze politiche.
Date le premesse, che l'Antifascismo egemone fosse incompatibile con la «discesa in campo» del Cavaliere fu evidente sin dagli esordi politici del fondatore di Forza Italia, il quale, attraverso lo «sdoganamento» del MSI e l'appoggio al "fascista" Gianfranco Fini, di fatto inaugurò la stagione dell'antiberlusconismo. Il suo anticomunismo esasperato – divenuto, specie dopo il fallimento del centro-sinistra, inconciliabile con l'Antifascismo di quanti non ritenevano più praticabile alcun progetto di rinnovamento che prescindesse dall'apporto degli eredi del PCI –, unito al fastidio per la presunta invadenza dei basilari contropoteri democratici, ha innegabilmente fornito un valido pretesto per la costruzione dell'antimito berlusconiano; ma, tornando alle riflessioni da cui siamo partiti, a rendere per molti credibile l'accostamento Berlusconi-Mussolini è stato prima di tutto lo strapotere mediatico del Cavaliere. «Nel nostro tempo – ha scritto infatti Umberto Eco –, se dittatura ha da esserci, deve essere dittatura mediatica e non politica».
Il punto, come bene spiega Orsina, è che «da decenni ormai l'Antifascismo ha distaccato il fascismo dal suo contesto storico, trasformandolo in un'etichetta generica suscettibile di essere applicata a chiunque sia ritenuto, dall'Antifascista stesso, d'ostacolo al rinnovamento d'Italia». Il che, con tutta evidenza, fa di Berlusconi (personaggio di cui peraltro è facile biasimare il comportamento sempre sopra le righe) il bersaglio perfetto. Per il fatto di avere conquistato il potere professando apertamente la propria ostilità culturale nei confronti dell'ideologia ufficiale Antifascista (e quindi rinnegando la consolidata prassi dissimulatrice democristiana, responsabile della degenerazione afasica del moderatismo), egli è automaticamente diventato «un pericolo mortale per la democrazia», l'instauratore di un regime. Poco importa che manchino argomentazioni convincenti per sostenere che il pluralismo sia effettivamente in pericolo (regime curioso, quello berlusconiano, «del quale – ironizza Orsina – parlano male praticamente tutti, che perde elezioni a ripetizione ed è infine rispedito all'opposizione»): se il Cavaliere dev'essere a tutti i costi il nemico pubblico numero uno, il paragone col suo predecessore in camicia nera diviene così suggestivo da abbattere qualunque barriera storiografica.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia

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