venerdì 10 gennaio 2014

La politica estera del fascismo: un precario equilibrio tra prudenza e aggressività (prima parte)

(articolo apparso su Prima Pagina del 29 dicembre 2013)
 
«La politica estera dell'Italia fascista è una politica di realtà e di giustizia internazionale. È la politica di una Nazione vittoriosa, la quale è conscia dell'eredità di una passata grandezza e sente il dovere di esserne degna e di continuarla nell'avvenire. È la politica estera di un popolo giovane ed esuberante che, pena la soffocazione, deve fatalmente espandersi in un più vasto respiro».
Con queste parole il sottosegretario di Stato per gli Affari Esteri Dino Grandi, a conclusione di un lungo discorso tenuto alla Camera il 19 maggio 1926, illustrava le linee guida che avevano improntato la politica estera italiana durante i primi quattro anni del governo Mussolini. Al di là della retorica, è evidente una certa ambiguità, sia per quanto concerneva gli obiettivi – decisamente contraddittori –, sia (soprattutto) per quanto atteneva ai mezzi per conseguirli. Come conciliare – si chiedeva in effetti Mussolini – la volontà di dar prova, anche a fini propagandistici, di energia e vitalità, di fare del XX «il secolo del fascismo [...] [e] della potenza italiana», con la riluttanza ad affrontare la prova di un conflitto europeo?
L'Italia uscita dalla Grande Guerra era un paese debole, assolutamente incapace di far valere con la forza le proprie ragioni in contrasto con le maggiori potenze europee. Mussolini ebbe sempre presente questa fragilità e, anche se volutamente si mostrava talvolta aggressivo per ragioni di prestigio personale e per distogliere l'attenzione dai problemi di politica interna, non si sarebbe mai fatto trascinare nel secondo conflitto mondiale se la fulminea avanzata tedesca in territorio francese non gli avesse fatto ritenere imminente la cessazione delle ostilità. «Nessun uomo di Stato – scrisse il diplomatico Mario Luciolli – ebbe, fra il 1918 e il 1939 tanta paura della guerra quanta ne ebbe Mussolini».
La riluttanza di Mussolini era in sostanza figlia della consapevolezza dei limiti della potenza militare italiana. Il duce non voleva la guerra poiché si rendeva realisticamente conto che l'Italia non era preparata ad affrontarla. Allo stesso tempo, però, il fascismo, per la sua stessa natura politico-militaresca, fu sin dall'inizio un movimento logicamente propenso alla violenza, nei modi come nei toni. Mussolini, del resto, subordinava la politica estera a una duplice concezione dei rapporti internazionali, destinata a concretizzarsi in manifestazioni aggressive: la visione secondo la quale i popoli seguono, nella loro evoluzione, gli stadi di giovinezza, maturità e decadenza (la democrazia, in quest'ottica, altro non è che una forma di governo tipica delle nazioni in declino); l'idea che la storia sia continuo movimento e che la guerra costituisca l'esito naturale delle controversie tra i popoli. Uno scontro con le «demo-plutocrazie» era quindi da considerarsi inevitabile: il problema era la palese impreparazione militare dell'Italia, che – come detto – il dittatore non ignorava. Si trattava in sostanza di mantenere una posizione di equilibrio tra le grandi potenze, in attesa del momento propizio per imporsi a livello internazionale.
Questo atteggiamento produsse di frequente nell'animo del duce un senso di forte frustrazione, che si acuì alla vigilia della seconda guerra mondiale. Due giorni prima dell'invasione tedesca della Polonia (il 30 agosto 1939), scrisse infatti Ciano sul suo diario, riferendosi al suocero: «L'idea della nostra forzata neutralità gli pesa sempre di più. Non potendo fare la guerra, prende tutte quelle disposizioni che, in caso di soluzione pacifica, potranno permettergli di dire che l'avrebbe fatta. Richiami, oscuramenti, requisizioni, chiusure di locali». Al di là della prudenza, quindi, Mussolini avrebbe voluto recitare anche sul campo di battaglia il ruolo del protagonista, come dimostrò, all'indomani dell'ingresso dell'Italia nel conflitto, la conduzione della cosiddetta «guerra parallela» in autonomia rispetto alla Germania. Ma la politica calcolatrice del «bastone e della carota» rivelò tutta la sua ambiguità e pericolosità quando il dittatore azzardò la carta dell'entrata in guerra, nell'illusoria convinzione che fosse giunto il momento di compiere – scrive Emilio Gentile – la «missione universale della rivoluzione fascista nella ricostruzione della Nuova Europa».

 

La politica estera fascista fino al 1934


 

Nei primi anni, durante i quali prevalse una certa prudenza, Mussolini ottenne alcuni preziosi successi, che si rivelarono tali soprattutto per le reazioni positive che suscitarono in politica interna.
Nel 1923 una missione italiana incaricata di delimitare il confine greco-albanese venne attaccata e subì la perdita di quattro uomini. Il duce, dopo che la Grecia ebbe respinto alcune condizioni dell'ultimatum inviatole dal governo italiano, ordinò l'occupazione di Corfù, accettando poi in seguito alle pressioni della Società delle Nazioni di sgomberare l'isola in cambio di un compenso in denaro. Il messaggio per quanto basato su una mossa di facciata era chiaro: con l'Italia fascista non si poteva scherzare. Per Mussolini, che certamente non avrebbe potuto opporsi a lungo alle potenze occidentali, fu un colpo da maestro: nascondendo con la sua aggressività il reale intento di guadagnare prestigio in Italia e all'estero, poté vantare l'ardire di essersi spinto oltre un limite che nessun politico di scuola liberale avrebbe mai osato varcare. 
Altri successi furono, nel 1924, l'accordo su Fiume e la conclusione delle trattative per il riconoscimento diplomatico della Russia sovietica. Nel primo caso venivano superati i patti siglati quattro anni prima a Rapallo tra l'Italia di Giolitti e la Jugoslavia, che avevano dato vita allo Stato Libero di Fiume. La città istriana, alla quale molti italiani erano sentimentalmente legati dopo l'impresa dannunziana, fu annessa al territorio della penisola e Mussolini fu elogiato per essere riuscito là dove il «poeta armato» aveva fallito. Nel secondo, il regime bolscevico otteneva di uscire dall'isolamento in cui era stato relegato dalle potenze occidentali dopo la Rivoluzione d'Ottobre, mentre l'Italia poté garantirsi la firma di un trattato di commercio e navigazione, importante soprattutto per l'importazione di carbone.
Nei rapporti con gli altri paesi europei, la questione tedesca costituiva uno dei problemi più intricati. Mussolini era convinto – precisa Elena Aga Rossi – che «la potenza tedesca sarebbe presto rinata e che l'Italia dovesse farsi antesignana del revisionismo internazionale [...] per acquistare maggiore spazio in Europa». Il suo obiettivo era quello di sfruttare le tensioni europee per guadagnare prestigio personale e inserire l'Italia nel novero delle grandi potenze continentali. Fu così che nel 1925 accettò di ricoprire, a fianco della Gran Bretagna, il ruolo di garante nella firma del Patto di Locarno, siglato da Francia, Germania e Belgio per decretare l'inviolabilità dei comuni confini, in ossequio a quanto stabilito a Versailles.
Il patto avvicinò ulteriormente l'Italia alla Gran Bretagna, grazie anche ai buoni rapporti personali instauratisi tra Mussolini, il ministro degli esteri Austen Chamberlain e Churchill. Al governo inglese interessava soprattutto il mantenimento dell'ordine europeo, e il duce sembrava offrire garanzie in questo senso, in virtù del suo interesse ad ottenere per l'Italia un più netto riconoscimento internazionale. In particolare raggiunse il suo acme la cosiddetta politica del «peso determinante», così descritta da Grandi (nel 1929 nominato ministro degli Esteri e nel 1932 ambasciatore a Londra) in un discorso al Gran Consiglio del Fascismo del 2 ottobre 1930: «La Nazione italiana non è ancora abbastanza potente, politicamente, militarmente ed economicamente, da potersi considerare come una nazione protagonista della vita europea [...]. Ma la Nazione italiana è già tuttavia abbastanza forte per costituire col suo apporto politico e militare il peso determinante alla vittoria dell'uno o dell'altro dei protagonisti del dramma europeo».
In quegli anni Mussolini cercò di rafforzare la propria immagine di statista prudente e di evitare pericolosi eccessi. La nomina del filo-inglese Grandi rispondeva a questa esigenza, che si concretizzò nell'impegno italiano nella politica del disarmo e nell'appoggio del ministro alla Società delle Nazioni. I risultati furono incoraggianti, come testimoniano i numerosi elogi che il duce ricevette oltre Manica, e non solo.
I rapporti internazionali mutarono radicalmente nel 1933 con l'ascesa al potere di Hitler. «In questa situazione – sottolinea Aga Rossi – l'Italia assunse per la prima volta un ruolo primario nel mantenimento dell'equilibrio europeo», appoggiando da un lato parte del revisionismo tedesco e proponendo dall'altro un Patto a quattro (tra Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia) per ribadire l'impegno comune alla non belligeranza. Il testo tuttavia fu approvato solo dopo che ad esso furono apportate drastiche modifiche, che lo trasformarono, in pratica, in una semplice dichiarazione di intenti (e l'inefficacia dell'accordo si palesò pochi mesi dopo con l'uscita della Germania dalla Società delle Nazioni).
Mussolini godeva dell'ammirazione di Hitler, ma non stimava e anzi temeva il dittatore nazista. Il duce era perfettamente conscio del pericolo che una Germania rinforzata militarmente avrebbe rappresentato per l'Italia; tuttavia riteneva – e in questo fu incoraggiato dalle potenze occidentali – di poter sfruttare il suo ascendente sul Fuhrer per giocare un ruolo da protagonista come mediatore sulla scena europea. Nel 1934 ebbe la forza di reagire con vigore alla notizia del putsch nazista di Vienna (che costò la vita al cancelliere austriaco Dolfuss), ordinando che venissero mobilitate le divisioni italiane di stanza al Brennero; ma le ambizioni imperiali del fascismo, una certa affinità ideologica col nazismo e l'accresciuto peso internazionale dell'Italia finirono inesorabilmente per avvicinare i due dittatori. (Continua)

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