giovedì 16 gennaio 2014

Il Partito socialista italiano dalle origini alla svolta liberale di inizio Novecento

(articolo apparso su Prima Pagina del 12 gennaio 2014)
 
L'Italia della seconda metà dell'Ottocento era un paese scarsamente industrializzato, essenzialmente agricolo e privo di un moderno proletariato di fabbrica. Le uniche organizzazioni operaie di un certo rilievo consistevano nelle cosiddette società di mutuo soccorso: si trattava di associazioni aventi principalmente scopi di solidarietà, che peraltro rifiutavano categoricamente lo sciopero e la lotta di classe come strumento di affermazione politica. Le campagne costituivano di fatto l'ambiente più idoneo allo sviluppo delle idee socialiste, che soprattutto nel nord della penisola si diffusero prima della formazione, a partire dai primi anni del Novecento, di una vera e propria struttura produttiva capitalistica. Quelli che la propaganda indicava come «operai» erano per lo più artigiani o lavoratori manuali, che spesso integravano la propria attività con il lavoro nei campi.
Fu in seguito all'inasprimento dei conflitti sociali negli anni '70 che in Italia si sviluppò l'internazionalismo socialista, inizialmente fedele, più che alle dottrine marxiste, al credo bakuniniano basato sull'insurrezione e sulle agitazioni nelle campagne. Il pressoché completo fallimento di questi moti indusse Andrea Costa ad intraprendere un percorso completamente nuovo attraverso l'elaborazione di un programma politico più coerente e la fondazione, nel 1881, del Partito socialista rivoluzionario di Romagna. Si trattava di una svolta significativa, che nelle intenzioni dell'agitatore imolese avrebbe dovuto portare alla fondazione di un Partito rivoluzionario italiano e che, nell'immediato, fruttò a quest'ultimo l'elezione a deputato nel 1882.
In quello stesso anno, per iniziativa di alcune associazioni operaie milanesi, sorse il Partito operaio italiano, che si strutturò su base rigorosamente classista e antiborghese e fu promotore dei grandi scioperi che si tennero nel Mantovano e nel Polesine tra il 1884 e il 1885. Rimaneva tuttavia sostanzialmente irrisolto il problema della frammentazione politica delle singole associazioni (il Partito operaio era in realtà una federazione di organizzazioni locali), dal momento che anche le numerose Camere del lavoro sorte a partire dalla seconda metà degli anni '80 avevano un raggio d'azione tutto sommato limitato. La questione era di non poco conto: il marxismo faticava ancora ad imporsi, col risultato che il movimento socialista si mostrava privo di quello che sarebbe stato l'indispensabile perno ideologico-dottrinario del futuro partito. Un contributo decisivo alla conoscenza delle opere di Marx venne dal filosofo materialista Antonio Labriola, che tuttavia concepiva il socialismo secondo principi rigorosamente intellettuali ed elitari.
Fu Filippo Turati, avvocato milanese di formazione positivistica, il principale artefice del drastico cambio di rotta che portò alla nascita del Partito socialista italiano. Gaetano Arfé, nell'illustrare i tratti salienti della svolta, si è soffermato sul «legame con le organizzazioni operaie, tra le quali la teorizzazione dell'inconciliabile antagonismo tra le classi dava contenuto alla nascente coscienza della propria autonomia e della propria funzione, mentre le suggestioni fatalistiche, ammantate di scientismo, che attribuivano al socialismo l'ineluttabilità dei fenomeni naturali, andavano a costituire il nucleo di una massiccia, incrollabile fede, destinata a colmare il vuoto lasciato negli strati più avanzati e vivaci delle classi popolari dalla religione tradizionale, in seguito all'opposizione del clero al moto risorgimentale prima, al nascente movimento operaio dopo».
Il movimento operaio trovò nel marxismo un'ideologia politica omogenea, capace di superare i localismi e i contrasti tra le varie correnti che dividevano il socialismo delle origini. Decisive si rivelarono alcune idee-guida, secondo le quali il capitalismo, per la sua stessa natura contraddittoria, avrebbe da sé prodotto le condizioni politiche per il suo superamento e per l'instaurazione di una società basata sull'egualitarismo e la collettivizzazione dei mezzi di produzione. La fede in un'inevitabile evoluzione sociale consentiva inoltre di impostare la lotta politica non più soltanto sul mito della rivoluzione e dell'insurrezione, aprendo di fatto la via del riformismo.
Rispetto quindi alla linea intransigente di Labriola, Turati aveva in mente un partito che si battesse su scala nazionale sul campo delle rivendicazioni economiche e delle riforme, e che fungesse da organo di mediazione politica tra la base e i vertici della società. Il Partito dei lavoratori italiani (il cui nome cambiò in Partito socialista dei lavoratori italiani nel 1893 e in Partito socialista italiano nel 1895), che sotto la sua guida vide la luce in occasione del Congresso di Genova del 1892, veniva pertanto impostato con l'obiettivo di ottenere la socializzazione attraverso una duplice lotta per la conquista, a lungo termine, del potere politico e per il miglioramento, nell'immediato, delle condizioni della classe operaia. Pur con tutti i contrasti che rendevano ardua una costante unità di intenti, il socialismo italiano aveva trovato in Turati come rileva Franco Livorsi «l'uomo giusto al momento giusto», capace di agire «da amalgama» tra tendenze politiche parse sino ad allora inconciliabili.
Il Congresso di Genova rappresentò pertanto una tappa decisiva per la storia del movimento operaio italiano. Decretò in primo luogo la scissione tra socialisti e anarchici; diede al partito un programma unitario e marxista; fece infine emergere la corrente riformista di Turati, che si sarebbe imposta per più di un decennio.
Nei suoi primi anni di vita il partito fu costretto ad affrontare una grave crisi politico-parlamentare, dovendo peraltro difendersi dai ripetuti attacchi del governo miranti a minarne le basi. La fase più critica si ebbe nel 1894. Come reazione ai Fasci siciliani – vasto movimento di protesta sociale contro tasse e malgoverno che fra '92 e '93 si era propagato in Sicilia, coinvolgendo organizzatori di matrice socialista –, in gennaio Crispi proclamò lo stato d'assedio, facendo seguire a questo provvedimento una generale operazione di polizia rivolta contro giornali, leghe e circoli socialisti. Con l'approvazione, in luglio, delle leggi cosiddette «antianarchiche», che imponevano rigorosi limiti alle libertà di stampa e di associazione e che portarono allo scioglimento, qualche mese più avanti, del Partito socialista dei lavoratori italiani, i dirigenti socialisti furono costretti a rivedere parte delle loro strategie. In particolare, in occasione del Congresso che si tenne clandestinamente a Parma nel gennaio del 1895, si decise, pur con qualche resistenza, di aprire a radicali e repubblicani – allo scopo di costruire un'alleanza capace di affrontare l'imminente tornata elettorale – e, soprattutto, di organizzare il partito non più come federazione di organizzazioni operaie, bensì sulla base dell'adesione personale dei suoi membri.
«Fu questa – osserva Giorgio Candeloro – una conseguenza positiva della dura reazione che si era abbattuta sul Partito e sul movimento operaio, la quale aveva colpito indiscriminatamente le associazioni aderenti al Partito, ivi comprese molte cooperative e società di mutuo soccorso. [...] Si era quindi imposta l'esigenza di distinguere nettamente il movimento economico (sindacale, cooperativo, mutualistico ecc.) dal movimento politico del proletariato». Le conseguenze più immediate furono la compilazione di un nuovo statuto e l'acquisizione del nuovo nome di Partito socialista italiano.
Nonostante le difficoltà, alle elezioni del maggio 1895 i socialisti riuscirono a fare eleggere dodici candidati. Fu una dimostrazione di forza, che si avvalse anche della crescente simpatia che veniva mostrata verso il partito da parte di numerosi intellettuali e uomini di cultura, contrari per principio alle persecuzioni e ai provvedimenti liberticidi. Il clima di quella che è nota come «crisi di fine secolo» favoriva peraltro inevitabilmente le forze di opposizione, che ebbero buon gioco a trarre giovamento da una serie di fallimenti del governo, primo fra tutti la disfatta di Adua del 1896. In seguito all'approvazione di nuove misure repressive volte a rafforzare l'esecutivo, la situazione precipitò nel 1898. L'aumento del costo del pane provocò infatti in tutta la penisola una lunga ondata di agitazioni che culminò nei tumulti di Milano. In quell'occasione la violenza della repressione raggiunse il suo acme: il generale Bava Beccaris ordinò di sparare sulla folla, provocando la morte di circa 80 manifestanti. Seguirono la proclamazione dello stato d'assedio in diverse province e l'arresto di numerosi esponenti socialisti, tra cui Turati.
Riportato l'ordine nel paese, la maggioranza moderata e conservatrice volle trasferire lo scontro in Parlamento, allo scopo di dare vigore di legge all'azione repressiva. Ma quando il primo ministro Pelloux presentò una serie di provvedimenti miranti a ridurre drasticamente le libertà di sciopero, di stampa e di associazione, i gruppi della sinistra ricorsero alla pratica dell'ostruzionismo, paralizzando i lavori. La lotta si protrasse per quasi un anno, indebolendo un governo che, tra le diverse difficoltà, doveva affrontare la crescente opposizione del gruppo liberal-progressista guidato dal duo Zanardelli-Giolitti. A Pelloux non rimase che sciogliere la Camera, nella speranza, tramite il voto, di trarre appoggio alla sua politica. L'esito premiò invece ancora una volta i socialisti, che salirono a 33 deputati. Umberto I fu così costretto a prendere atto del fallimento di quella politica illiberale che egli stesso aveva incoraggiato. Prima di cadere vittima dell'attentato dell'anarchico Gaetano Bresci il 29 luglio 1900, nominò a capo del governo Giuseppe Saracco, un moderato al di sopra delle parti. I tempi per una svolta liberale parevano maturi. (Continua)

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