venerdì 10 gennaio 2014

La politica estera del fascismo: un precario equilibrio tra prudenza e aggressività (seconda parte)

(articolo apparso su Prima Pagina del 5 gennaio 2014)

Anni 1935-1939


 

Quando Mussolini si sentì più forte e più libero di osare decise di imboccare la strada dell'espansione militare. Si trattava di un'esigenza che dipendeva dalla natura stessa del fascismo. Come ha infatti precisato Emilio Gentile, «ai fascisti, la dimensione nazionale appariva troppo angusta per poter contenere l'orizzonte massimo delle loro ambizioni rivoluzionarie, che trascendevano la realtà della nazione per elevarsi alla contemplazione di vasti panorami, europei e mondiali, verso i quali proiettare le future conquiste della "rivoluzione fascista"». L'Italia – a parere del duce – doveva necessariamente mettersi alla pari delle altre potenze per quanto riguardava i possedimenti coloniali, anche a costo di una guerra che, comunque, sarebbe rimasta circoscritta al territorio africano.
Mussolini si sentiva infatti sicuro che Francia e Inghilterra non lo avrebbero intralciato più di tanto. Per quanto riguardava la prima, il duce aveva avuto rassicurazioni dal primo ministro Laval (accordi del gennaio 1935), il quale aveva accettato di dare mano libera in Etiopia, in cambio della rinuncia italiana alle rivendicazioni sulla Tunisia; quanto alle intenzioni della seconda, Mussolini ritenne che l'esito della conferenza di Stresa – dove nell'aprile del 1935 Italia, Francia e Gran Bretagna avevano confermato gli accordi di Locarno e posto le basi per una politica di opposizione al riarmo tedesco – lo mettesse al riparo dalle insidie.
La campagna di Etiopia, al di là delle valutazioni contrastanti che hanno diviso gli storici, a livello politico fu un successo per Mussolini. Il duce poté ancora una volta vantare una vittoria che lo elevava al di sopra dei fallimenti dell'Italia liberale e fu abile nello sfruttare propagandisticamente le sanzioni economiche inflitte all'Italia dalla Società delle Nazioni. Il regime ne uscì rafforzato, tanto che anche il leader comunista Togliatti, dopo aver invano sperato che la guerra portasse il fascismo alla rovina, firmò nell'agosto del '36 un appello intitolato Per la salvezza dell'Italia, riconciliazione del popolo italiano!, rivolto anche ai «fratelli in camicia nera».
Pochi mesi dopo la conquista di Addis Abeba, Mussolini decise per l'immediato intervento nella guerra civile spagnola, il primo conflitto europeo che coinvolse tutti i principali paesi protagonisti sulla scena internazionale. Per l'Italia la guerra ebbe essenzialmente il carattere di scontro ideologico tra fascismo e antifascismo, anche perché il duce si convinse – scrive Elena Aga Rossi – «che si era di fronte a un momento importante per l'affermazione internazionale del fascismo e, nello stesso tempo, a una seria minaccia per la sua stessa sopravvivenza di fronte all'ipotesi di una vittoria repubblicana». Il comune impegno bellico determinò un netto avvicinamento tra Italia e Germania, che culminò nella firma, da parte del neo ministro degli Esteri Ciano, di un accordo politico passato alla storia come Asse Roma-Berlino (ottobre 1936). Hitler si impegnò a garantire un consistente aiuto militare a Franco e si disse disponibile a riconoscere il ruolo di potenza egemone nel Mediterraneo che l'Italia ambiva a ricoprire; Mussolini promise di difendere gli interessi tedeschi in seno alla Società delle Nazioni e lasciò intendere che non si sarebbe nuovamente opposto all'Anschluss (che i nazisti avrebbero effettuato nel marzo del '38). Nel 1937 seguirono, in questa deriva totalitaria, l'adesione dell'Italia al patto anti-Comintern (con Germania e Giappone) e l'uscita dalla Società delle Nazioni, che costituiva un segnale inequivocabile delle intenzioni di Mussolini di stravolgere l'ordine europeo.
L'alleanza italo-tedesca indusse il governo di Londra a ristabilire buone rapporti con Roma, dopo i contrasti legati alle sanzioni. Nel gennaio del '37 un gentlemen's agreement impegnò i due paesi a rispettare lo status quo nel Mediterraneo (con l'evidente incongruenza della partecipazione fascista alla guerra di Spagna), mentre l'anno successivo con un nuovo accordo la Gran Bretagna riconobbe la sovranità italiana sull'Etiopia, in cambio della promessa dell'immediato ritiro dei «volontari» italiani dal suolo iberico al termine della guerra civile. In questo modo, se l'Italia poteva rallegrarsi per aver dimostrato la propria autonomia rispetto ai tedeschi, la Gran Bretagna si illudeva di aver allontanato Mussolini da Hitler in vista di un'eventuale guerra europea.
Il duce si convinse in quei mesi che all'Italia sarebbe spettato il ruolo di ago della bilancia per dirimere le controversie internazionali. Di conseguenza, quando Hitler minacciò di risolvere con la forza l'intricata questione dei Sudeti (dove vivevano oltre 3 milioni di tedeschi) e si preparò all'invasione, Mussolini sollecitò la convocazione di un vertice a quattro a Monaco con Daladier, Chamberlain e il Fuhrer (29-30 settembre 1938). L'esito, scontato, delle trattative fu l'accettazione della volontà di Hitler da parte delle potenze occidentali, che pagarono il prezzo voluto dal dittatore con l'illusione che questi si sarebbe accontentato e non avrebbe trascinato l'Europa in un conflitto. Ma appunto di illusione si trattava, come l'occupazione nazista della Boemia e della Moravia (ottobre '38) e l'aggressione alla Polonia (1° settembre '39) si incaricarono di dimostrare.
Quanto all'Italia – come rileva Giorgio Candeloro –, a Monaco «Mussolini ottenne un successo di prestigio, che fu molto strombazzato dalla propaganda fascista e fu a lungo giudicato effettivo, mentre poteva divenire tale solo se Mussolini avesse cambiato da quel momento la sua politica estera». Ma non lo fece, e anzi, forse per spirito di emulazione nei confronti di Hitler, predispose in tutta fretta l'attacco all'Albania (aprile '39), con l'obiettivo di rinforzare l'influenza italiana sui Balcani. 

L'epilogo


 

Un mese dopo la conquista dell'Albania, Italia e Germania siglarono il Patto d'acciaio, vera e propria alleanza militare. Gli accordi prevedevano che «se, malgrado i desideri e le speranze delle Parti Contraenti, dovesse accadere che una di Esse venisse trascinata in complicazioni belliche con un'altra o più Potenze, l'altra Parte Contraente si porrà immediatamente come Alleato al suo fianco e la sosterrà con tutte le sue forze militari per terra, per mare e nell'aria». Si trattava quindi non di un accordo difensivo, bensì per la guerra, nonostante Mussolini avesse fatto presente a Hitler che l'Italia avrebbe necessitato di un periodo di pace di qualche anno (almeno fino al '42) per preparasi a un conflitto europeo.
Il Fuhrer aveva però ben altri progetti e preparava già l'invasione della Polonia all'insaputa dell'alleato. Solo l'11 e il 12 agosto, incontrando Ribbentrop e Hitler a Salisburgo, Ciano apprese le reali intenzioni dei tedeschi. La sua preoccupazione, come traspare dalle pagine del diario riferite a quei giorni, consente di comprendere quanto l'Italia, al di là delle ambizioni e della propaganda, fosse impreparata ad affrontare una guerra. Mussolini rischiava di diventare schiavo dell'immagine che di sé aveva costruito. Temeva un conflitto, ma non avrebbe mai accettato l'umiliazione di ammetterlo pubblicamente. Fu così costretto, non senza imbarazzo, a dichiarare la «non belligeranza» quando le armate hitleriane, varcando il confine polacco, diedero inizio alla seconda guerra mondiale.
Per il duce i primi mesi di guerra furono una sorta di agonia, dal momento che la valutazione realistica delle forze disponibili tarpava inesorabilmente le ali della sua ambizione. Di fatto, solo le travolgenti vittorie tedesche del maggio 1940 spinsero Mussolini a rompere gli indugi.
Con l'ingresso in guerra (10 giugno 1940) si chiudeva così una lunga fase della politica estera italiana. Iniziata nel rispetto e nella ricerca costante dell'equilibrio, quella politica si concludeva con la rinuncia, di fatto, all'unico ruolo di rilievo che l'Italia fosse riuscita a ricoprire tra i due conflitti mondiali: quello di mediatrice tra le nazioni europee. L'obiettivo di elevare l'Italia al rango delle grandi potenze fallì proprio a causa dell'abbandono della politica del «peso determinante». Legandosi a Hitler, infatti, Mussolini perse la propria autonomia, e il fallimento dell'estremo tentativo di ignorare questa verità – la conduzione di una guerra parallela – finì per ridurre l'Italia a satellite politico-militare della Germania.

Un bilancio conclusivo


 

Le indecisioni, i ripensamenti e le ambiguità che la caratterizzarono per vent'anni rendono difficile arrivare a un'interpretazione univoca e condivisa della politica estera del fascismo. Soprattutto gli ultimi anni, dopo l'impresa etiopica, furono quanto mai ricchi di contraddizioni: basti pensare ai rapporti con la Germania  – a cui si guardò, alternativamente, con ammirazione, invidia e timore –, all'ambizione, più volte frustrata, di stravolgere l'equilibrio internazionale al fine di costruire la «nuova Europa», al ruolo sempre più decisivo che acquisì l'ideologia nella determinazione di scelte politiche che avrebbero richiesto, invece, una più attenta meditazione sulle conseguenze. Le sorti di un intero paese furono sostanzialmente decise dalla volontà di un uomo solo, determinato a fare dell'Italia, contro ogni valutazione realistica della realtà, una grande potenza imperialista. La sua condotta altalenante, sempre più incerta nell'imminenza del conflitto, costituì probabilmente il fattore maggiormente destabilizzante della politica estera italiana e finì per trascinare la nazione nel baratro di una guerra mai completamente voluta, ma accettata per (errato) calcolo politico. Mai Mussolini ebbe progetti di collaborazione internazionale che non fossero strumentali ad accrescere il suo prestigio personale e a dare sfogo all'innata aggressività del fascismo. Per il duce l'Europa non fu altro che uno scacchiere, un tavolo su cui giocare d'azzardo ma senza le carte vincenti. E il bluff, alla fine, non riuscì.
 
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