martedì 21 gennaio 2014

Il Partito socialista italiano dalla svolta liberale di inizio Novecento all'avvento del fascismo

(articolo apparso su Prima Pagina del 19 gennaio 2014)
 
Con il nuovo secolo si apriva quella che gli storici hanno definito «età giolittiana», individuando nello statista di Dronero il principale protagonista della vita politica italiana. Giolitti riteneva che lo Stato liberale non avesse nulla da temere dallo sviluppo delle organizzazioni operaie e che la politica repressiva si sarebbe rivelata, a lungo andare, nociva. Per questo, una volta giunto al potere, mantenne l'esecutivo su posizioni di rigida neutralità in materia di conflitti sul lavoro e promosse un programma di riforme per il quale si avvalse del dialogo coi socialisti, giungendo persino a proporre a Turati – che tuttavia rifiutò per timore di non rispecchiare le aspettative della base del partito – di entrare nel governo.
La svolta liberale di inizio secolo venne incoraggiata dall'atteggiamento collaborativo dei socialisti, che appoggiarono in Parlamento i governi disposti a varare un piano concreto di riforme. Nel primo Novecento il notevole sviluppo delle organizzazioni operaie sembrava inoltre corroborare la linea riformista di Turati, sempre più determinato a difendere il sodalizio con Giolitti. Tuttavia, man mano che si palesavano i limiti del liberalismo-progressista e in risposta ai sempre più frequenti scontri tra lavoratori e forze dell'ordine, venne emergendo in seno al partito la corrente rivoluzionaria, influenzata dal sindacalismo soreliano e più che mai decisa a combattere in termini classisti lo Stato monarchico e borghese.
Nell'aprile del 1904, al Congresso di Bologna, i rivoluzionari riuscirono ad imporsi alla guida del partito. Pochi mesi dopo, in seguito all'eccidio proletario verificatosi a Buggerru, in Sardegna, durante una manifestazione di minatori, si ebbe il primo sciopero generale della storia d'Italia, che ebbe un impatto psicologico notevole sull'opinione pubblica. A dispetto delle forti pressioni ricevute affinché intervenisse con durezza, Giolitti mantenne fede al metodo utilizzato in passato e lasciò che la manifestazione si esaurisse da sé. Successivamente convocò nuove elezioni per sfruttare il clima politico avverso alle sinistre che lo sciopero aveva generato, ed ottenne un esito favorevole, palesando gli evidenti limiti dei socialisti, soprattutto per quanto concerneva la mancanza di coordinamento tra le organizzazioni operaie e il partito.
Nel 1906 i riformisti riconquistarono la guida del PSI e promossero la fondazione della Confederazione Generale del Lavoro. L'unificazione del movimento sindacale che in tal modo si determinò segnò l'emarginazione del gruppo rivoluzionario, che peraltro non si squagliò, continuando a soffiare sul fuoco delle proteste popolari. Ma anche tra i riformisti sorsero divisioni ed emerse una corrente revisionista, facente capo a Leonida Bissolati e a Ivanoe Bonomi, che intendeva strutturare il PSI come partito privo di connotazioni ideologiche rigide, in funzione di una più stretta collaborazione con le forze democratico-liberali. Se in un primo tempo le differenze rimasero confinate su un mero piano teorico, la mancata opposizione di Bissolati e Bonomi all'impresa libica del 1911 inasprì notevolmente le divergenze. Al Congresso di Reggio Emilia dell'anno seguente, i rivoluzionari, tra i quali emerse la figura di Benito Mussolini, riuscirono a riconquistare il comando del partito e a imporre l'espulsione dei leader revisionisti e di altri esponenti di spicco della destra riformista (i quali diedero vita al Partito socialista riformista italiano). Il futuro capo del fascismo fu poi chiamato alla direzione dell'«Avanti!», che trasformò in un moderno strumento di propaganda rivolto alle masse per preparare «psicologicamente il proletariato all'uso della violenza liberatrice».
Benché i riformisti conservassero il controllo del gruppo parlamentare e della CGL, la sconfitta nel partito subita a Reggio Emilia rappresentò l'inizio di un momento di crisi per la componente moderata del movimento operaio. Come sottolinea Maurizio Degl'Innocenti, «il limite dell'integrazione sociale e politica delle masse popolari in età giolittiana, nonostante la "svolta liberale" [...], fu evidenziato dalla permanenza della vasta area del sovversivismo, antidemocratica e antiriformista».
Il 1913 vide una forte accelerazione delle lotte sociali, che, sotto l'impulso della propaganda mussoliniana, sfociarono in numerosi scioperi e agitazioni nelle campagne. Tuttavia, il vero banco di prova per il PSI furono le elezioni, le prime a suffragio universale maschile. In un clima caratterizzato da una forte radicalizzazione dei contrasti, i socialisti riscossero un discreto successo (72 seggi, comprendendo i riformisti), anche se il contributo cattolico conseguente al patto Gentiloni premiò nuovamente i liberali. La nuova maggioranza ebbe però vita breve: a causa di inconciliabili divisioni, alla prima difficoltà Giolitti fu costretto alle dimissioni e venne sostituito da Salandra. Contrariamente a quanto più volte accaduto in passato, non si trattò di un abbandono temporaneo, ma della fine di un'epoca. In poco più di due mesi infatti due avvenimenti scossero nel profondo la vita politica italiana. Nel giugno del 1914 la cosiddetta «settimana rossa» (ondata di scioperi e manifestazioni provocata dalla morte di tre dimostranti in uno scontro con le forze dell'ordine durante un comizio antimilitarista ad Ancona) sconvolse la penisola, finendo per rafforzare le tendenze conservatrici in seno a una classe dirigente che si mostrava sempre più insofferente nei confronti della linea tollerante di Giolitti. Appena un mese dopo, lo scoppio della Grande Guerra convinse definitivamente l'opinione pubblica dell'inadeguatezza dello Stato liberale, che pareva del tutto impreparato ad affrontare le difficoltà della nascente società di massa.
Il grande conflitto europeo scosse profondamente i socialisti dell'intero continente. La Seconda Internazionale, dopo aver invitato i proletari di tutti i paesi a manifestare contro la guerra, cessò praticamente di esistere in seguito alla decisione dei principali partiti socialisti di aderire alle rispettive azioni di governo. L'Italia si divise tra neutralisti e interventisti. Questi ultimi annoverarono tra le proprie file anche molti esponenti della sinistra, dai socialriformisti di Bissolati ai sindacalisti rivoluzionari. Molto netta fu invece in senso neutralista la posizione assunta dal PSI, con l'importante eccezione di Mussolini, che per il suo «tradimento», dopo aver lasciato la direzione dell'«Avanti!», fu espulso dal partito.
L'ingresso dell'Italia nel conflitto nel maggio del 1915 mise in difficoltà i socialisti, che, incapaci di reagire con efficacia, si limitarono a ribadire la loro ostilità alla guerra attraverso l'ambigua formula «né aderire, né sabotare». La crisi del PSI si protrasse per tutta la durata del conflitto ed è ben inquadrata dall'acuta analisi di Benedetto Croce, il quale rilevò che il partito, avversando una guerra comunque avvertita come suprema prova di patriottismo, di fatto lasciò «che in Italia la minoranza rivoluzionaria assumesse la parte nazionale». 
L'eredità politica del conflitto si concretizzò nell'avanzata dei partiti di massa. Il PSI, al cui interno la sinistra si trovava in netta maggioranza, fece registrare una crescita impetuosa, divenendo il primo partito italiano (con il 32% delle preferenze) dopo le elezioni del 1919. Obiettivo dei massimalisti, guidati dall'esempio della rivoluzione bolscevica, era l'instaurazione immediata della dittatura del proletariato. Tuttavia le strategie adottate a tal fine si rivelarono presto inadeguate: il PSI ebbe infatti troppo a lungo un atteggiamento attendista, probabilmente derivante dalla convinzione che la rivoluzione – inevitabile nel lungo periodo, secondo il dogma socialista – fosse imminente. Fu l'estrema sinistra, facente capo a Bordiga e Gramsci, a rilevare per prima il problema e fare pressioni affinché il partito giocasse la carta dell'insurrezione.
Il clima politico-sociale era del resto infuocato. Tra 1919 e 1920 (il cosiddetto «biennio rosso») le principali città italiane furono teatro di violenti tumulti, di scioperi e di agitazioni agrarie, che culminarono nell'occupazione di numerosi stabilimenti metallurgici e meccanici da parte degli operai aderenti alla Fiom. Questi ultimi presero il controllo della produzione, presidiando gli impianti con guardie armate e issando la bandiera rossa sui tetti delle officine. La rivoluzione pareva ad un passo, ma ancora una volta le indecisioni dei socialisti – divisi tra un partito a maggioranza massimalista e un gruppo parlamentare e una CGL guidati dai riformisti – preclusero alla rivolta un concreto sbocco politico. Giolitti, tornato al governo nel giugno del 1920, fu come suo solito abile nel proporre una mediazione che, se da un lato prevedeva importanti concessioni economiche e sindacali, dall'altro scongiurava esiti anticostituzionali. Il fallimento dell'occupazione delle fabbriche rese improponibile ogni ulteriore intesa tra massimalisti e riformisti. La resa dei conti si ebbe al Congresso di Livorno del 1921, quando gli esponenti della sinistra abbandonarono il PSI per dare vita al Partito comunista d'Italia, che si diede un programma rigorosamente leninista.
La conseguenza più rilevante del biennio rosso fu l'isolamento delle forze progressiste. Lo spettro del comunismo e la sensazione diffusa che fosse indispensabile approfittare delle incertezze delle sinistre spinsero la borghesia tra le braccia del nascente fascismo. «Molta gente – ha scritto Denis Mack Smith – preferì credere che la rivoluzione avrebbe potuto venire solo da sinistra» e, puntando su Mussolini, si fece sedurre dal mito dell'uomo forte, necessario per riportare ordine in una realtà, come quella italiana, dilaniata dai conflitti sociali. Il fascismo pertanto nacque – o almeno così fu inizialmente interpretato – come reazione a una minaccia sovversiva che non aveva trovato nel PSI un organismo politico capace di tradurla in rivoluzione.
 
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