domenica 2 febbraio 2014

La Chiesa e la minaccia del liberalismo: dal pontificato di Pio VII a quello di Gregorio XVI

(articolo apparso su Prima Pagina del 26 gennaio 2014)
 
La Rivoluzione francese del 1789 ebbe conseguenze non solo sul piano politico: la società, la concezione dell'autorità e dello Stato, il comune modo di pensare furono sottoposti a un cambiamento irreversibile. Dinanzi al nuovo mondo che stava nascendo, di fronte alla lotta serrata che contrapponeva antico e moderno, la reazione dei cattolici non fu uniforme. Sorsero sostanzialmente due correnti: da un lato gli intransigenti, dall'altra i cattolici liberali.
La rivoluzione «ha fatto nel politico e nel morale ciò che fece il diluvio nel fisico, cambiando del tutto la faccia della terra». Con queste parole il cardinale Ercole Consalvi, segretario di Stato di Pio VII, interpretò lo stato d'animo di sconforto che permeava buona parte del mondo cattolico all'indomani dell'affermazione giacobina. Il tradizionalismo religioso che caratterizzava la corrente intransigente portò ad una totale condanna dei principi egualitari e democratici emersi alla fine del XVIII secolo; nel processo rivoluzionario si individuava il male assoluto, il caos che avrebbe stravolto un ordine sociale in piedi da secoli. La libertà, nei costumi così come in politica, avrebbe aperto la via al peccato, negando quei valori di obbedienza e disciplina sui quali la società cristiana aveva sempre fatto affidamento. Quanto all'utilizzo della stampa come mezzo privilegiato per diffondere le nuove idee, fu lo stesso Pio VII, nell'enciclica Diu Satis (1800), ad augurarsi di riuscire a reprimere la «grande libertà di pensiero e di parola, di leggere e di scrivere».
Del liberalismo gli intransigenti non riuscivano a vedere che il lato negativo. Furono addirittura guardate con diffidenza alcune innovazioni che certo giovarono all'arretrata società di inizio ‘800. Gregorio XVI evitò di introdurre nello Stato Pontificio la ferrovia (probabilmente temendo che questa potesse agevolare l'incontro delle persone e, di conseguenza, delle idee) e si oppose all'uso dell'illuminazione a gas, che avrebbe potuto facilitare i tanto temuti convegni notturni. Il progresso sociale delle classi meno abbienti, così come i principi di uguaglianza e la diffusione dell'istruzione non erano ammissibili per questi cattolici, che avevano ben chiara nella mente un'idea di società immobile, all'interno della quale ogni cosa doveva seguire un ordine prestabilito. Alle masse spettava il lavoro; a pochi privilegiati la guida della società e la possibilità di emergere dalla mediocrità attraverso lo studio. Per i più deboli, la rassegnazione, il rispetto e il timore erano considerati valori assoluti.
Il liberalismo non era conciliabile con il tradizionalismo intransigente anche per questioni di puro principio. Aveva elevato la ragione umana – scrive Giacomo Martina – a «criterio unico di verità» e «proclamava un indifferentismo sistematico che metteva l'ateismo e tutte le religioni sullo stesso piano»; relegava inoltre, per così dire, la religione in un angolo, concedendole di occuparsi esclusivamente di questioni dogmatiche o legate all'intimo della coscienza umana. Dinanzi a questo tentativo di laicizzazione gli intransigenti reagirono con fermezza, difendendo le prerogative della Chiesa e quelle che essi consideravano le basi della fede. Con l'obiettivo di proteggere la società cristiana e la dimensione religiosa della vita quotidiana, questi cattolici finirono per adottare strategie che si sarebbero rivelate storicamente in contrasto con l'inevitabile evoluzione politica e sociale di quegli anni. L'errore fu quello di ritenere l'ancien régime l'unica forma possibile di società cristiana; fu quello di escludere qualunque tipo di conciliazione con un progresso che, di lì a poco, si sarebbe rivelato inarrestabile.
Con il Congresso di Vienna e l'inizio dell'età della Restaurazione la Chiesa poté illudersi di aver recuperato le posizioni e i privilegi di cui aveva goduto nei tempi passati. Il trionfo degli ideali romantici e la conseguente esaltazione dell'aspetto irrazionale dell'animo umano portarono al recupero del mito del Medioevo, di un'epoca caratterizzata da una maggiore sintonia tra società e religione cristiana. Come sottolinea Alfredo Canavero, «in una società che l'individualismo degli illuministi e l'anarchia dei rivoluzionari aveva disgregato, la religione apparve ai pensatori romantici come l'unica possibilità di dare fondamento e contenuto ai concetti di dovere morale e comportamento politico». Con queste premesse, si giunse in breve tempo ad una secca equiparazione, quantomeno sul piano delle conseguenze materiali, di rivoluzione e barbarie. Il ritorno al passato costituiva l'unica reazione possibile di fronte all'avanzata del liberalismo e del principio di laicizzazione che questo portava con sé.
La Restaurazione non fu tuttavia in grado di ripristinare completamente il mondo pre-rivoluzionario. Le ingerenze della Chiesa nella vita civile non potevano più essere tollerate come un tempo, ferma restando la necessità di un accordo (che spesso assunse la natura del concordato) per fronteggiare il comune nemico, il liberalismo. Pio VII era consapevole della necessità di fare alcune concessioni rispetto alle novità introdotte durante il periodo rivoluzionario e napoleonico: egli intuì che solo attraverso una politica di comuni intenti e di accordi con l'autorità statale la Chiesa avrebbe potuto mantenere il suo ruolo di indiscussa guida spirituale.
Alla morte di Pio VII, avvenuta nel 1823, gli intransigenti ottennero due importanti successi: le elezioni rispettivamente di Leone XII e Gregorio XVI (con in mezzo la breve parentesi del pontificato del più moderato Pio VIII). Gregorio XVI (1831 – 1846), in particolare, si distinse per il rigore dottrinale e politico. Questo suo atteggiamento è da ricondurre allo sdegno che i moti insurrezionali del 1830 avevano suscitato negli ambienti conservatori.
L'irrigidimento del pontefice, che nel successo delle idee liberali scorgeva una minaccia alla stabilità del potere temporale, provocò, per reazione, lo sviluppo di correnti moderate in seno al movimento cattolico. In disaccordo con gli intransigenti, che andavano assumendo posizioni sempre più dure nei confronti degli ideali moderni, cominciarono a far sentire la propria voce i cattolici liberali. Essi ritenevano che i fatti dell'89 non potessero essere cancellati con un secco colpo di spugna, e che al contrario fosse indispensabile accettare il nuovo rapporto tra società religiosa e società civile che la rivoluzione aveva determinato. La rivendicazione dei diritti del cittadino, la lotta al privilegio, la conquista della libertà di espressione, di associazione e di stampa, la partecipazione dei cattolici alla vita politica: questi erano i valori da cui partire per costruire il futuro delle nascenti entità statali in Europa. Il fatto che la Chiesa fosse aspramente combattuta in molti paesi costituzionali era da addebitare – secondo l'opinione dei cattolici liberali – non tanto al cinismo dei governi, quanto piuttosto all'incapacità di molti cattolici di accettare i nuovi regimi politici, in difesa del vecchio assolutismo.
Un ruolo importante assunse in quegli anni il sacerdote francese Félicité Robert de Lamennais. Egli era convinto che la Chiesa necessitasse al più presto di una forte azione rinnovatrice che le consentisse di tenere il passo con il progresso sociale. L'alleanza con i regimi assoluti era da considerarsi sinonimo di debolezza e nel tempo avrebbe portato ad un progressivo distacco dalla società.  Occorreva pertanto un impulso forte che conducesse ad una vera e propria svolta. E siccome le Chiese locali erano troppo compromesse con i regimi assoluti, il papa stesso avrebbe dovuto guidare e appoggiare questo progetto. Lamennais affidò al giornale «L'Avenir» la diffusione delle proprie idee liberali.
Anche se il laicismo dell'abate francese non aveva come obiettivo la completa separazione tra Stato e Chiesa (per i cattolici liberali lo Stato doveva rispettare i diritti della Chiesa e mantenere un carattere cristiano nella sua legislazione, pur nel rispetto delle altre confessioni religiose), la condanna di Gregorio XVI non si fece attendere. Nel 1832 il pontefice, attraverso l'enciclica Mirari Vos, criticò duramente ogni forma di apertura liberale, definendo, tra l'altro, «pessima né mai abbastanza esecrata ed aborrita» la libertà di stampa. La Chiesa – precisò con decisione il papa –, in quanto istituita da Gesù Cristo, era perfetta e non necessitava di alcuna riforma.
L'opera del Lamennais non mancò tuttavia di attrarre consensi. Uomini di cultura e prestigio del calibro di Alessandro Manzoni, Nicolò Tommaseo, Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti si schierarono apertamente su posizioni liberali, contribuendo con i propri scritti a diffondere le speranze di rinnovamento di una parte importante del movimento cattolico italiano. È comunque importante sottolineare che il cattolicesimo liberale fu sostanzialmente espressione di una minoranza colta, la cui influenza, rispetto a quella degli ecclesiastici che realmente potevano condizionare l'atteggiamento generale della Chiesa, non va ingigantita. Di fatto gli intransigenti mostrarono una maggiore compattezza e riuscirono per parecchio tempo a far prevalere le loro idee.

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