domenica 9 febbraio 2014

Il pontificato di Pio IX e la nascita del Regno d'Italia (seconda parte)

(articolo apparso su Prima Pagina del 9 febbraio 2014)
 
Il 6 giugno 1861, dopo che un improvviso malore lo aveva colto la sera del 29 maggio, Cavour si spense. La sua morte segnò la fine di un'epoca nei rapporti tra Stato e Chiesa. Al senso diplomatico del conte i successori opposero un'asprezza e una mancanza di rispetto che portarono il pontefice su posizioni sempre più intransigenti. La Chiesa fu additata come nemica della patria e sottoposta al vigile controllo degli organi di polizia. I cattolici liberali, appoggiati dalle autorità civili, trovarono terreno fertile per la diffusione delle loro idee. Furono pubblicati diversi periodici, come «Il Conciliatore» a Milano e «Il Mediatore» a Torino, e sorsero le prime società ecclesiastiche di mutuo soccorso. Frequenti risultarono poi i casi di ecclesiastici che, disobbedendo a una precisa indicazione del papa, non esitarono a instaurare rapporti con le autorità civili. L'episodio più grave agli occhi della Santa Sede fu l'iniziativa di Carlo Passaglia, un ex-gesuita convertitosi alla causa del cattolicesimo liberale, che nel 1862 aveva steso un Indirizzo del clero italiano a Pio IX nel quale invitava il papa a cedere Roma. In favore dell'appello firmarono circa 9.000 ecclesiastici.
Lo scontro ebbe il suo culmine nel 1864, quando il pontefice emanò l'enciclica Quanta cura, nella quale venivano condannate in maniera netta le dottrine professate dal liberalismo, dal laicismo, dal cattolicesimo liberale, dal socialismo, e con esse tutte quelle correnti di pensiero favorevoli alla concessione della libertà di espressione, di stampa e di culto. All'enciclica fu allegato un elenco degli «errori del secolo», il Sillabo, che indicava come erronee ottanta tesi. Sostanzialmente, veniva respinto in blocco tutto quanto la Rivoluzione francese aveva lasciato in eredità.
Arroccandosi su posizioni intransigenti, insensibile rispetto al desiderio di molti cattolici di raggiungere un'intesa tra Santa Sede e Regno d'Italia, Pio IX rese molto più profondo il solco che divideva la Chiesa dal mondo moderno. Non giovò neppure, al fine di una completa comprensione del documento, l'estrema sintesi del Sillabo, che – spiega con chiarezza Andrea Tornielli – «spaziava su materie vastissime passando dalla storicità dei Vangeli al potere temporale, dalla libertà di coscienza al panteismo», offrendo il destro «alle critiche più accese di quanti lo considerano un monumento di intransigenza, l'ottusa difesa di un mondo che non esiste più». 
La pubblicazione del Sillabo destò scalpore in tutta Europa. Persino Napoleone III, da sempre fedele alleato del pontefice, ne proibì la diffusione in Francia per evitare di turbare i rapporti tra Stato e Chiesa. La politica intransigente della Santa Sede rischiava di diventare un ostacolo per la serenità della vita di molti cattolici e Pio IX, ormai sempre più prigioniero di se stesso, pareva non accorgersene. Prostrato dalle difficoltà che aveva dovuto affrontare (e subire), il papa visse gli ultimi anni animato da una forte esigenza di raccoglimento interiore, dalla volontà di contrapporre l'affermazione della fede alle sconfitte terrene.
La frattura con il mondo moderno si allargò ulteriormente nell'estate del 1870, quando, nel corso del Concilio Vaticano I, venne proclamato il dogma dell'infallibilità del pontefice in materia di fede. Giovanni Spadolini scrisse che «il dogma dell'infallibilità pontificale» sancì «la solitudine del Papa, la sua netta e totale separazione dalle cose del mondo, dal corso della civiltà laica e liberale». In quella stessa estate l'equilibrio europeo venne profondamente messo in discussione dalla dichiarazione di guerra della Francia alla Prussia. Napoleone III fu costretto a richiamare le truppe che presidiavano Roma, ma prima volle, e ottenne, la rassicurazione di Emilio Visconti Venosta, ministro degli Esteri italiano, che la Convenzione di settembre (trattato stipulato nel 1864 tra il governo Minghetti e Napoleone III, con il quale si stabiliva che le truppe francesi di stanza a Roma si sarebbero progressivamente ritirate in cambio di un impegno da parte dell'Italia a non invadere i territori pontifici) non sarebbe stata violata. Il 2 settembre i prussiani trionfarono a Sedan: l'imperatore francese cadde prigioniero e a Parigi venne proclamata la Repubblica. La sconfitta di Napoleone di fatto svincolava il governo italiano dagli accordi precedenti e lasciava mano libera per la conquista di Roma. Vittorio Emanuele II tentò di raggiungere un accordo con il pontefice, e il 10 settembre lo invitò con una missiva a liberare Roma, per restituire «la pace alla Chiesa» e mostrare «all'Europa spaventata dagli orrori della guerra come si possano vincere grandi battaglie […] con un atto di giustizia». Ricevuto in risposta un risentito rifiuto, al re non restò che autorizzare l'ingresso delle sue truppe nello Stato pontificio. Il 20 settembre, dopo aver aperto una breccia nella cinta muraria presso porta Pia, l'esercito italiano entrò in Roma, incontrando una resistenza simbolica, che doveva dimostrare che Pio IX cedeva alla violenza. Contrariamente a quanto era accaduto all'epoca della Repubblica romana, nessuna potenza straniera si mosse per salvare il potere temporale del papa.
L'annessione di Roma al Regno d'Italia e la cocente sconfitta subita non indussero il pontefice a modificare il proprio modo di operare: come già aveva fatto altre volte in passato, egli si affidò ad un'enciclica (Respicientes) per esprimere la propria indignazione e non esitò ad infliggere la scomunica a tutti coloro che avevano preso parte alla spedizione nello Stato pontificio. Il governo italiano, preso atto dell'ostinazione con la quale il papa si rifiutava di accettare il fatto compiuto, decise di regolare in modo unilaterale i rapporti con la Santa Sede. Il 13 maggio 1871 fu approvata la legge delle guarentigie, con la quale, tra le altre cose, venivano riconosciuti al pontefice onori sovrani, il diritto di disporre di un presidio armato a difesa dei palazzi Vaticano, Laterano, Cancelleria e villa di Castel Gandolfo (immobili sottoposti a regime di extraterritorialità) e una rendita annua come risarcimento per le perdite subite. Era anche previsto, previa approvazione di una legge per il riordinamento della proprietà ecclesiastica, che fossero aboliti l'exequatur e il placet, ossia l'assenso regio alla pubblicazione di atti dell'autorità ecclesiastica riguardanti la destinazione dei beni ecclesiastici. Siccome, però, la legge sul riordinamento della proprietà non fu mai varata, l'exequatur e il placet rimasero vincolanti per l'assegnazione ai vescovi e ai parroci rispettivamente dei beni associati all'esercizio episcopale e delle rendite parrocchiali. Nel suo Il movimento cattolico in Italia Giorgio Candeloro argomenta che «la legge delle guarentigie fu il punto di arrivo del cattolicesimo liberale del Risorgimento», poiché intendeva «mostrare a tutti che la presa di Roma, anziché aprire un periodo di aspre lotte religiose, aveva aperto per la Chiesa cattolica un periodo di libertà».
Pio IX, profondamente turbato da avvenimenti che reputava inconcepibili, non volle sentir ragioni. Con l'enciclica Ubi nos (15 maggio 1871) si dichiarò «prigioniero in Vaticano» e respinse l'offerta delle guarentigie. Ai vescovi che nominò tra il 1871 e il 1873 raccomandò di non richiedere l'exequatur, impedendo loro in questo modo di godere di qualunque beneficio temporale e privando di validità civile i loro atti. Molti palazzi vescovili rimasero per diverso tempo in stato di abbandono.
Il braccio di ferro con il governo terminò nel 1876, quando il papa, probabilmente per l'impossibilità di sostenere l'enorme spesa che il mantenimento dei vescovi comportava, consentì che venisse richiesto l'exequatur. Lo Stato italiano poté così contare su un efficace strumento di controllo, anche se l'uso che ne fu fatto si limitò a pochi casi particolari.
La presa di Roma e gli atti governativi che, dall'Unità in poi, furono improntati ad un malcelato giurisdizionalismo (si pensi, oltre alla soppressione di molti enti ecclesiastici, alla legge che obbligava i chierici a prestare il servizio militare (1869), o a quella che escludeva l'insegnamento religioso dalle materie obbligatorie nella scuola elementare (1877)) rinforzarono la corrente intransigente. I cattolici furono più volte ammoniti di non collaborare, per quanto possibile, con lo Stato italiano. Per quanto riguardava, però, la partecipazione alle elezioni politiche, la questione si faceva più complicata. Sin dal 1861 don Giacomo Margotti aveva lanciato la parola d'ordine «né eletti, né elettori», sostenendo che un cattolico non avrebbe potuto avere preferenze tra candidati che, indipendentemente dalle correnti politiche di appartenenza, costituivano dei nemici per la Chiesa. La Santa Sede fu per diversi anni incerta ed esitò ad assumere posizioni precise, invitando all'astensionismo in modo non chiaro, poco convincente. Si rese necessaria, pertanto, una presa di posizione netta. Alla vigilia delle elezioni generali del 1874 il Vaticano sciolse ogni dubbio: non era conveniente (non expedit) che i cattolici vi partecipassero, che prendessero parte alla vita politica di uno Stato usurpatore. Il Regno d'Italia, a poco più di un decennio dalla sua fondazione, si trovava costretto ad affrontare una dura opposizione interna: la polemica sul Risorgimento, in seno al movimento cattolico, si sarebbe protratta per anni.

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