mercoledì 26 febbraio 2014

Il pontificato di Benedetto XV e la nascita del Partito popolare di don Sturzo

(articolo apparso su Prima Pagina del 23 febbraio 2014)

Nell'agosto del 1914, poche settimane dopo lo scoppio della Grande Guerra, Pio X morì. Gli successe Benedetto XV, il cui pontificato fu in gran parte condizionato dalle vicende legate al conflitto mondiale. Sin da subito il Vaticano assunse una netta posizione pacifista e neutrale, che non in pochi giudicarono – a torto – come favore agli Imperi centrali. Tra i cattolici prevalse la prudenza, anche se le varie posizioni ideologiche spesso assunsero connotazioni assai diverse tra loro. Guido Miglioli si oppose alla partecipazione dell'Italia ad una guerra che avrebbe recato grave danno alle classi contadine, a vantaggio della borghesia; Filippo Meda si schierò sostanzialmente con Giolitti, il quale riteneva che il conflitto avrebbe nuociuto all'economia del paese e che si sarebbero potuti tutelare gli interessi nazionali tramite un'accorta azione diplomatica; don Luigi Sturzo vide con favore l'entrata in guerra dell'Italia a fianco delle potenze dell'Intesa, convinto che andasse colta l'occasione per realizzare un netto cambiamento da un punto di vista sociale. Nel complesso, nonostante il generale desiderio di pace, i cattolici affrontarono con impegno e patriottismo la dura prova del campo di battaglia. Un ruolo importante ricoprirono i cappellani militari e i circa 20.000 sacerdoti richiamati come soldati semplici: essi rappresentarono un fondamentale punto di riferimento per migliaia di analfabeti che erano stati mandati al fronte senza alcuna preparazione.
Nel giugno del 1916 il governo Salandra cadde e venne sostituito da un governo di unità nazionale guidato da Paolo Boselli. Filippo Meda vi entrò come ministro delle Finanze, il primo ministro cattolico dalla nascita del Regno d'Italia. Il suo incarico fu difficile da gestire. Attraverso le pagine dell'«Osservatore Romano» la Santa Sede precisò che Meda rappresentava soltanto se stesso e negò un concreto appoggio politico. Quando poi nell'estate del 1917 il papa rese pubblica una Nota ai capi dei popoli belligeranti – che invitava i governi in guerra ad accordarsi su alcuni punti per consentire la cessazione dell'«inutile strage» – e il governo italiano, fraintendendo il reale significato del documento, accusò la Santa Sede di essersi fatta ispirare dalla Germania, il ministro milanese si trovò in grande imbarazzo. Egli meditò di dare le dimissioni, ma, temendo che il suo gesto in un momento così delicato potesse far ricadere sui cattolici l'accusa di scarsa sensibilità, abbandonò il proposito. Nel frattempo lo scoppio della rivoluzione russa nel novembre del 1917 allarmò il Vaticano, accrescendo le preoccupazioni che la Grande Guerra – ha scritto Giorgio Candeloro – «potesse concludersi con una rivoluzione sociale di portata incalcolabile». Il ritorno alla pace apparve allora più che mai un'esigenza assoluta.
Il pontificato di Benedetto XV consentì ai cattolici di ritagliarsi uno spazio autonomo per lo svolgimento dell'azione politica ed economica. Il tacito assenso che accompagnò l'attività ministeriale di Filippo Meda, nonché il favore con cui fu visto l'esperimento della CIL (Confederazione Italiana dei Lavoratori, il sindacato cattolico sorto nel 1918 allo scopo di creare un coordinamento tra i vari organi esistenti a livello nazionale), furono la prova che la Santa Sede aveva mutato atteggiamento nei confronti del movimento cattolico organizzato. In particolare si rese indispensabile un migliore coordinamento delle associazioni che operavano in campo formativo e sociale. Sin dal 1915 il pontefice si era preoccupato di ripristinare un centro di unificazione delle organizzazioni cattoliche, siccome, in seguito allo scioglimento dell'Opera dei congressi nel 1904, si era palesata la necessità di trovare un nuovo punto di riferimento. Fu pertanto approvata una riforma che stabiliva l'obbligatorietà dell'iscrizione all'Unione popolare per tutte le persone che svolgevano attività collegate al movimento cattolico e venne istituita la Giunta centrale per l'Azione cattolica (eletta all'interno del consiglio direttivo dell'Unione popolare), «con il compito – rileva Alfredo Canavero – di dare ai cattolici italiani un indirizzo programmatico unitario».
La «grande levatrice», come venne definita la Grande Guerra, entro certi limiti compattò il movimento cattolico: le velleità temporalistiche divennero, salvo rare eccezioni, un ricordo del passato, mentre i rapporti con lo Stato italiano sembrarono tutto sommato migliorare. I tempi erano quindi maturi per la nascita di un vero e proprio partito politico. Principale sostenitore del progetto fu don Sturzo, il quale in una conferenza tenuta a Milano nel novembre del 1918 espose un ampio programma di riforme per contrastare le difficoltà del dopoguerra, concludendo che era giunta l'ora, per i cattolici, di «contribuire in ogni campo». Pochi giorni dopo il sacerdote siciliano riunì a Roma, nella sede dell'Unione romana, un gruppo di personalità cattoliche, allo scopo di tracciare le linee guida per la fondazione di un partito. Seguì la convocazione della «piccola costituente», che a sua volta nominò una commissione esecutiva, con il compito di redigere un appello «a tutti gli uomini liberi e forti» e il programma (entrambi resi noti, tramite la stampa, il 18 gennaio 1919). Il programma, in particolare, rifletteva la dura realtà del dopoguerra e in dodici punti prevedeva: difesa della famiglia; libertà di insegnamento; libertà di organizzazione di classe; legislazione sociale a tutela del diritto del lavoro; organizzazione delle capacità produttive della nazione, con particolare attenzione alle problematiche legate al Mezzogiorno; autonomia degli enti pubblici locali; introduzione di più efficaci forme di previdenza sociale; libertà e indipendenza della Chiesa; riforma tributaria; riforma elettorale in senso proporzionale con estensione del voto alle donne; tutela dell'emigrazione e sviluppo di un'accorta politica coloniale; rispetto della Società delle Nazioni in campo internazionale.
Il nuovo partito assunse il nome di Partito popolare italiano: non comparve l'aggettivo cattolico, per rendere evidente la laicità e l'autonomia dalla Santa Sede. Il consenso iniziale fu notevole (specialmente nelle zone rurali), anche perché sul piano organizzativo don Sturzo poté contare su una base di massa – costituita da una fitta rete di associazioni, dalla CIL, dalle cooperative, dalle leghe contadine – che aveva radici profonde nel tessuto sociale italiano di quegli anni.
La fondazione del partito provocò, nel febbraio del 1919, lo scioglimento dell'Unione elettorale, cui seguì quello dell'Unione economico-sociale, i cui compiti divennero pertinenza della CIL. Rimase invece attiva come centro di coordinamento generale l'Unione popolare, con l'obiettivo di agire al di sopra delle parti ed intensificare l'attività religiosa. Fu questo il momento in cui nacque l'Azione cattolica in senso stretto. «Solo ora difatti – scrive Renato Moro – veniva dichiaratamente realizzata per la prima volta la differenziazione tra una organizzazione strettamente politica, composta di cattolici, ma indipendente ufficialmente dal Vaticano e dall'episcopato (il PPI) e un'organizzazione con finalità di apostolato, e quindi religiose, sociali e culturali, direttamente dipendente dal Vaticano e dall'episcopato (l'AC)». Nel 1922 venne poi definitivamente soppressa anche l'Unione popolare.
Dal 14 al 16 giugno del 1919 si tenne a Bologna il primo congresso del PPI. I principali argomenti di discussione furono il principio di aconfessionalità, l'attenzione alla questione sociale e il rifiuto di presentare liste d'intesa con altre forze politiche. Tra i partecipanti prevalse la linea di don Sturzo, leader della corrente centrista e sempre più indiscusso punto di riferimento all'interno del partito. Egli si mostrò, in particolare, intransigente rispetto alla possibilità di costituire alleanze in vista delle elezioni che si sarebbero tenute il 16 novembre del 1919 con il sistema proporzionale. Era tempo – scrisse il sacerdote siciliano – che tutti comprendessero «la responsabilità del partito, […] unica nella nazione, come quella di un vero corpo vivente». L'esito del voto, in vista del quale la Chiesa aveva revocato il non expedit, fu un vero successo per il PPI, che tra l'altro aveva dovuto subire in campagna elettorale numerose violenze da parte dei socialisti. Con 1.167.374 preferenze, pari al 20,5% del totale, i popolari conquistarono 100 seggi alla Camera ed entrarono di prepotenza nel novero di quelle forze politiche che non sarebbe più stato possibile escludere dalla gestione del potere.

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